N. 142 - Ottobre 2019
(CLXXIII)
il senso della storia
UNA
VISIONE
TEOLOGICA
CHE
SI
SECOLARIZZA
-
PARTE
I
di
Raffaele
Pisani
Le
notizie
allarmanti
sulla
sostenibilità
del
geo-sistema,
vale
a
dire,
della
terra
in
cui
ci
troviamo
a
vivere,
suscitano
degli
interrogativi
su
quello
che
potrà
essere
il
futuro
dell’umanità:
pura
sopravvivenza
biologica,
agiata
per
pochi
e
precaria
per
tanti
altri,
o
costruzione
di
un’umanità
capace
di
dialogare
con
se
stessa
e
con
la
natura?
Il
senso
della
storia
tuttavia
è
qualcosa
di
ben
più
impegnativo
del
semplice
riferimento
a un
futuro
più
o
meno
prossimo.
Riferendoci
al
nostro
pensiero
occidentale,
ben
sapendo
comunque
che
ci
sono
anche
altre
prospettive,
abbiamo
visto
come
a un
certo
punto
del
percorso
sia
sorta
la
domanda
sul
senso
della
storia,
sul
perché
in
un
susseguirsi
di
eventi
che
ci
appaiono
come
contingenti
si
può
tentare
di
cogliere
una
direzione
e un
verso.
Le
visioni
teologiche
e
filosofiche
del
divenire
storico
sono
state
portate
avanti
da
numerosi
pensatori
in
varie
epoche,
non
abbiamo
la
pretesa
paradossale
di
essere
esaustivi
in
un
breve
scritto,
vorremmo
invece
cercare
di
vederne
alcune
tra
quelle
che
hanno
avuto
un
seguito
e
hanno
dato
significato
a
una
prospettiva
condivisa
in
determinati
periodi.
Le
domande
fondamentali
sono
più
o
meno
le
seguenti:
la
storia
ha
un
senso?
Nel
caso
affermativo,
questo
lo
si
deve
intendere
come
deterministico,
ineluttabile,
oppure
c’è
spazio
per
l’iniziativa
libera
e
cosciente
dell’uomo?
Il
caso
fortuito
può
influire
solo
nel
particolare
o
può
riguardare
anche
l’andamento
generale?
Se
la
storia
non
avesse
senso,
sarebbe
possibile
per
l’uomo
darne
uno,
o
anche
concepire
una
pluralità
di
sensi?
Nel
mondo
greco
classico
la
storia
(Erodoto,
Tucidide)
era
solo
narrazione
di
eventi
da
ricordare,
storie
distinte
senza
alcun
nesso
che
potesse
dar
loro
una
sorta
di
unità.
Aristotele,
il
filosofo
che
aveva
costituito
in
un
sistema
tutto
il
sapere,
negava
il
carattere
scientifico
alla
storia.
Bisogna
arrivare
al
II
secolo
a. C
con
Polibio,
un
greco
al
servizio
dei
Romani,
perché
si
cominci
a
teorizzare
una
storia
universale.
Tenuto
conto
delle
conoscenze
geografiche
del
tempo,
l’unificazione
del
mondo
antico
mediterraneo,
che
i
Romani
stavano
portando
avanti,
era
il
senso
della
storia
che
intendeva
Polibio.
La
sua
realizzazione
completa
doveva
essere
l’unione
di
tutti
i
popoli
nell’impero
universale.
Nel
V
secolo
d.
C.,
quando
l’Impero
Romano
d’Occidente
era
in
profonda
crisi
e
Roma
venne
saccheggiata
dai
Visigoti,
nel
410,
i
filosofi
pagani
individuarono
nell’abbandono
degli
antichi
culti
il
motivo
della
decadenza.
Ad
essi
di
oppose
Agostino
di
Ippona
con
la
sua
opera:
De
Civitate
Dei,
uno
scritto
che
godrà
di
estrema
fortuna
nella
letteratura
ecclesiastica
e
tante
volte
sarà
richiamato
per
spiegare
avvenimenti
che
accadranno
anche
molti
secoli
dopo.
Quando
scriveva
quest’opera
Agostino,
traendo
ispirazione
dalla
lettura
attenta
e
meditata
del
messaggio
biblico,
aveva
già
elaborato
il
suo
concetto
di
tempo
caratterizzato
dalla
linearità
e
dalla
vettorialità.
Si
trattava
certamente
di
una
rivoluzione
di
grande
portata
rispetto
le
concezioni
cicliche
che
avevano
caratterizzato
il
mondo
antico.
Secondo
Agostino
l’intera
umanità
nel
suo
percorso
storico
è
composta
da
due
tipi
di
uomo:
quello
che
ama
se
stesso
fino
al
disprezzo
di
Dio
e
quello
che
ama
Dio
fino
al
disprezzo
di
se
stesso.
Il
primo
va a
costituire
la
Civitas
hominis,
il
secondo
la
Civitas
Dei.
Da
Caino
e
Abele
in
avanti
le
due
città
procedono
assieme,
non
immedesimandosi
con
alcuna
istituzione
storica:
sarebbe
banale
identificare
Impero
e
Chiesa
con
le
due
realtà
di
cui
Agostino
parla,
il
confine
è
ben
più
sottile
e
passa
dal
cuore
degli
uomini.
Destinate
a
vivere
congiunte
l’esistenza
terrena,
come
il
grano
e il
loglio,
si
separeranno
alla
fine
dei
tempi
per
costituire
rispettivamente
la
comunità
dei
beati
e
quella
dei
dannati.
La
Chiesa
è
una
comunità
in
cammino
verso
la
Gerusalemme
Celeste.
In
questo
suo
procedere
deve
prendere
atto
che
c’è
anche
una
collettività
di
uomini
che
ha
prospettive
diverse
dalle
sue,
con
questa
deve
trovare
un
modus
vivendi
e
favorire
il
più
possibile
una
pace
sociale.
Jacques
Maritain
(1882-1973),
in
una
serie
di
quattro
lezioni
tenute
all’Università
di
Notre-Dame
negli
Stati
Uniti
nel
1955,
parlava
di
filosofia
della
storia,
avendo
cura
di
distinguerla
dalla
teologia,
ben
più
di
quanto
non
avesse
fatto
Agostino.
Maritain
affermava
che
il
suo
argomentare
si
basava
sulla
ragione
umana
e il
fatto
che
fosse
quella
di
un
credente
non
ne
inficiava
menomamente
l’efficacia,
era
ben
convinto
invece
che
la
potenziasse.
Tornando
alla
storia
e al
senso
che
se
ne
può
trarre,
egli
parlava
della
fruttificazione
storica
del
bene
e
del
male,
con
un
discorso
in
cui
possiamo
cogliere
una
certa
analogia
con
quanto
già
detto
da
Agostino.
Il
bene
e il
male
non
si
limitano
a
convivere
ma
entrambi
crescono
nelle
realizzazioni
storiche.
L’uomo
moderno
ha
accresciuto
le
sue
possibilità
e
quindi
è
capace
di
grandi
progressi
in
un
senso
come
nell’altro.
Ma
il
bene
e il
male
non
sono
destinati
a
una
perpetua
simmetrica
contrapposizione
e il
mondo
è
destinato
a
raggiungere
il
suo
fine
naturale:
la
sua
piena
realizzazione
immanente.
Fin
qui
arriva
la
filosofia,
i
fini
trascendenti,
escatologici
non
sono
compito
suo,
ma
semmai
della
riflessione
teologica.
Un’altra
visione
della
storia,
in
questo
caso
sì
strettamente
teologica,
è
quella
di
Gioacchino
da
Fiore
(1130-35-1202).
L’epoca
nella
quale
viveva
era
caratterizzata
da
un
Occidente
cattolico
ormai
separato
dall’Oriente
bizantino,
il
papato
e
l’impero
si
contendevano
il
primato
e le
spinte
autonomistiche
feudali
e
comunali
facevano
sentire
la
loro
azione.
In
ogni
caso
l’istituzione
ecclesiale,
che
stava
beneficiando
dei
risultati
della
Riforma
cluniacense
e
del
prestigio
di
grandi
pontefici
come
Gregorio
VII
(1015-1085),
parve
in
un
certo
senso
aver
assunto
il
dominio
sul
mondo.
Si
può
ragionevolmente
pensare
che
questa
concezione
teocratica
abbia
influito
sul
pensiero
di
Gioacchino
da
Fiore.
Secondo
la
sua
esegesi
delle
Sacre
Scritture,
era
prossima
la
venuta
di
una
nuova
era.
All’età
del
Padre,
coincidente
con
l’Antico
Testamento,
nella
quale
il
timor
Domini
induceva
l’uomo
a
una
condizione
di
servitù,
è
seguita
con
l’incarnazione
l’età
del
Figlio,
che
portò
a
una
forma
di
servitù
mitigata
dall’amore.
La
nuova
età,
quella
dello
Spirito,
sarà
caratterizzata
dalla
piena
libertà
nell’amore
e
nella
gioia.
Non
è il
paradiso
ma
semmai
una
sua
anticipazione
storica
nel
mondo
in
cui
viviamo.
La
Scienza
nuova
di
cui
parla
Giambattista
Vico
(1668-1744)
è
comunemente
definita
come
teologia
civile
ragionata,
tratta
di
una
storia
ideale
ed
eterna
della
quale
l’uomo
è
autore.
Diversamente
dalle
altre
forme
di
sapere
naturale
con
le
quali
si
viene
a
scoprire
una
realtà
esistente
di
per
sé,
la
storia
è
prodotta
dall’uomo
stesso
che
ne
ha
quindi
una
conoscenza
piena.
Non
è
che
l’uomo
ne
sia
il
creatore
assoluto,
ma
qualsiasi
sia
la
condizione
dell’umanità,
che
in
certi
periodi
sarebbe
più
proprio
chiamare
ferinità,
egli
è
pur
sempre
un
soggetto
che
agisce,
che
produce
e
che
cambia
le
cose.
D’altra
parte
è
pur
vero
che
senza
quella
Provvidenza
laica
di
cui
parla
Vico
i
primigeni
bestioni
non
sarebbero
diventati
quegli
uomini
ricchi
di
fantasia
e di
sentimenti
che
seppero
organizzare
un
certo
tipo
di
società.
Lo
stesso
vale
nel
passaggio
dalla
fantasia
alla
ragione.
I
singoli
uomini
agiscono
per
fini
individuali,
anche
egoistici,
che
la
Provvidenza
dispone
in
un
ordine
superiore
di
progresso
(Eterogenesi
dei
fini).
È
interessante
notare
l’analogia
con
lo
studio
psicologico
dello
sviluppo
dell’intelligenza
del
bambino,
che
passa
da
un
periodo
senso-motorio
a
uno
legato
a
operazioni
concrete
per
arrivare
alle
operazioni
formali
che
richiedono
la
razionalità.
Il
riferimento
è a
Jean
Piaget
(1896
1980).
D’altra
parte
nel
singolo
come
in
una
civiltà,
al
periodo
del
massimo
fulgore
segue
quello
del
decadimento.
All’analogia
di
cui
abbiamo
detto
si
accompagna
la
differenza
data
dal
fatto
che
l’individuo
si
esaurisce
e
scompare
mentre
l’umanità
rinasce
in
altra
forma.
Nella
storia
vichianamente
intesa
non
troviamo
una
direzione
rettilinea
ma
semmai
quei
corsi
e
ricorsi,
molte
volte
citati,
che
lasciano
però
tanti
interrogativi.
Un
punto
fermo
comunque
è il
fatto
che
la
storia
è
opera
dell’uomo
e
questo
concetto
servirà
da
base
ai
filosofi
che
verranno,
per
secolarizzare
il
senso
della
storia.
Uno
spartiacque
tra
una
visione
ancora
legata
alla
teologia,
comunque
questo
termine
possa
essere
inteso,
e
una
decisamente
laica
è
data
nel
passaggio
tra
Bossuet
e
Voltaire,
tra
il
Sei
e il
Settecento.
È a
quest’ultimo
che
va
attribuita
la
paternità
dell’espressione
Filosofia
della
storia.
Il
primo
è
legato
ancora
alla
concezione
agostiniana,
il
secondo
è
radicalmente
rivoluzionario
con
una
visione
della
storia
che
non
è né
universale
né
retta
da
alcuna
forma
di
provvidenza.
Quest’ultimo,
grazie
ai
resoconti
dei
missionari,
in
particolare
dei
gesuiti,
scoprì
la
presenza
di
grandi
civiltà,
in
primis
quella
cinese,
che
hanno
avuto
uno
sviluppo
che
non
ha
niente
a
che
fare
con
la
tradizione
giudaico-cristiana,
sempre
pensata
dagli
Europei
come
l’unica
via
per
il
cammino
dell’umanità.
È
superfluo
ribadire
quanta
sia
stata
la
sua
ammirazione
per
il
pensiero
di
Confucio
(Sancte
Confuci
ora
pro
nobis).
Al
tempo
stesso
Voltaire
apprezzava
tutte
quelle
forme
di
sapere
che
portano
a un
miglioramento
della
condizione
umana,
un
progresso
materiale
e
morale
che
non
ha
niente
a
che
fare
con
la
perfezione
assoluta
che
il
cristianesimo
pretende.
Giova
un
accenno
a
Condorcet,
Turgot
e
Comte,
i
primi
due,
illuministi,
il
secondo,
autorevole
esponente
del
positivismo;
questi,
certamente
non
da
soli,
avevano,
pur
nella
diversità
di
prospettive,
un’idea
positiva
e
ottimista
sul
progresso
dell’umanità.
Nel
periodo
idealistico
romantico
la
filosofia
della
storia
di
Hegel,
come
del
resto
il
suo
pensiero
in
generale,
ha
avuto
quell’enorme
impatto,
che
chiunque
si
occupa
un
po’
di
questi
temi
ben
conosce.
La
sua
concezione
non
prevede
una
provvidenza
trascendente
ma è
una
ragione
immanente
al
Tutto
che
guida
il
cammino
dei
popoli.
Nella
prefazione
de
La
fenomenologia
dello
Spirito
egli
chiarisce
che
«Il
vero
è
l’intiero»,
è il
tutto
che
si
autostruttura.
Lo
spirito
assoluto
si
incarna
nello
spirito
di
un
popolo
affidandogli
una
missione.
Con
una
visione
marcatamente
eurocentrica
Hegel
delinea
la
storia
dell’umanità:
all’inizio
si
svilupparono
le
civiltà
orientali
in
cui
un
despota,
l’unico
ad
essere
libero,
disponeva
dell’ordine
religioso
e
politico;
segue
il
mondo
greco
della
«bella
libertà»
che
concilia
l’espressione
soggettiva
con
la
realtà
divina
dello
Stato.
Nel
mondo
romano
Hegel
rileva
una
sorta
di
scissione
tra
l’universalità
astratta
dello
Stato
e la
personalità
giuridica
del
privato
cittadino.
In
entrambi
comunque
sussiste
la
libertà
per
una
pluralità
di
cittadini.
La
libertà
autentica
per
tutti
sarebbe
quella
del
mondo
germanico
erede
del
cristianesimo,
che
nel
travaglio
del
Medioevo
con
la
Riforma
ha
portato
alla
conciliazione
tra
interiorità
religiosa
e
istituzione
statuale.
Sarebbe
una
sorta
di
compimento
della
storia,
che
peraltro
mise
in
difficoltà
gli
stessi
discepoli
del
maestro,
morto
improvvisamente
nel
pieno
della
sua
attività
speculativa.
Fra
chi
riprese
il
suo
pensiero
e ne
prolungò
la
vita,
ma
in
forma
completamente
diversa,
non
possiamo
non
ricordare
Karl
Marx.
Dalla
lezione
di
Feuerbach
aveva
appreso
che
la
realtà
non
è
quella
astratta
descritta
dagli
idealisti
ma
l’umanità
concreta
fatta
di
uomini
che
lavorano
e
faticano
per
procurarsi
il
necessario
per
la
propria
sussistenza.
Ma
la
materialità
che
Marx
intende
non
si
coglie
in
una
staticità
astorica,
bensì
in
un
dinamismo
dialettico
che
considera
l’umanità
sempre
diversa
al
variare
dei
periodi
storici.
Scrive,
insieme
a
Engels,
nel
Manifesto
che
nella
storia
ci
sono
sempre
stati
oppressori
e
oppressi:
liberi
e
schiavi,
patrizi
e
plebei,
baroni
e
servi
della
gleba,
membri
delle
corporazioni
e
garzoni.
Nel
momento
storico
presente
ci
sono
varie
classi
ma
le
uniche
che
giocano
che
un
ruolo
significativo
sono
la
borghesia
e il
proletariato.
La
prima
è
formata
da
ricchi
che
diminuiscono
di
numero
e
aumentano
nella
ricchezza,
la
seconda
è
costituita
da
una
massa
sempre
più
numerosa
e
sempre
più
povera.
L’esito
di
questa
situazione
sarà
la
rivoluzione
proletaria,
che
imporrà
una
temporanea
dittatura
dei
molti
sui
pochi
per
giungere
infine
a
una
società
senza
classi
e
senza
più
alcuna
forma
di
sfruttamento.
Sarebbe
una
sorta
di
redenzione
immanente,
di
paradiso
in
terra,
per
questo
il
marxismo
è
stato
concepito
da
alcuni
come
una
secolarizzazione
del
cristianesimo,
addirittura
come
un’eresia
cristiana.
Per
decenni
questa
visione
del
mondo
ha
sedotto
le
masse
che
credevano
in
una
realizzazione
in
tempi
brevi
di
quanto
si
prometteva.
Pensatori
molto
acuti
misero
ben
presto
in
evidenza
le
contraddizioni
del
comunismo,
specie
nei
paesi
nei
quali
era
al
potere,
per
questo
furono
accusati
e
condannati
come
revisionisti
o
controrivoluzionari.
L’epilogo
compiutosi
alla
fine
del
secolo
scorso
è
ben
noto.