N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
nozze Rinascimentali a firenze
cenni sulla storia del matrimonio
di Lorenzo Magnolfi
Se
tendiamo
a
collocare
l’origine
del
matrimonio
in
un
passato
mitico
ormai
lontano,
allora
daremo
ragione
a
Marco
Antonio Altieri,
trattatista
romano
del
‘500,
che
faceva
derivare
il
rituale
nuziale
dall’atto
archetipico
del
ratto
delle
sabine.
Un
evento
quindi
non
pacifico,
ma
violento,
un
vero
e
proprio
rapimento
che,
a
detta
dell’autore,
conservava
qualcosa
di
quell’antica
forza
nel
gesto
che
il
marito
compiva
di
prendere
per
mano
la
sposa,
conducendola
alla
sua
dimora.
A
conferma
di
ciò
vi
sarebbe
il
fatto
che
il
padre
della
donna
non
partecipava
a
questa
traslatio,
il
corteo
nuziale
durante
il
quale
venivano
anche
trasportati
ed
esibiti
i
ricchi
doni
della
dote.
I
compagni
di
Romolo
furono
però
dei
buoni
mariti.
Tant’è
vero
che
le
sabine,
quando
i
loro
uomini,
padri
e
fratelli
vennero
in
armi
per
riprendersele,
si
strapparono
i
capelli
e
lacerarono
le
vesti,
evitando
un
bagno
di
sangue
e
permettendo
una
pacificazione
che
potrebbe
esser
vista
in
fondo
come
la
prima
grande
alleanza
matrimoniale
della
storia.
Le
donne
romane
godevano
di
una
certa
considerazione
e
gli
era
riconosciuta
la
personalità
del
diritto.
Le
leggi
sul
matrimonio
prevedevano
come
condizione
fondamentale
che
vi
fosse
il
consenso
reciproco
tra
i
due
contraenti.
Quella
del
consenso,
clausola
che
per
noi
può
apparire
scontata,
non
lo
fu
affatto
nel
medioevo.
Alla
Chiesa,
che
fin
dal
IV
sec.
tentava
di
portare
il
rituale
del
matrimonio
nel
seno
delle
pratiche
cristiane,
va
riconosciuto
il
merito
di
essersi
sforzata
per
far
passare
l’idea
del
consenso
come
una
conditio
sine
qua
non
irrinunciabile.
Sono
molteplici
gli
aspetti
del
matrimonio
moderno
che
risalgono
al
periodo
romano:l’anello
era
già
usato,
anche
se
aveva
il
valore
di
un
pegno,
di
una
garanzia
sulla
dote,
il
velo
nuziale,
chiamato
flammeum,
per
il
colore
arancione,
rosso
o
giallo,
indossato
dalle
donne,
era
posato
sul
capo
degli
uomini
alla
fine
della
cerimonia.
Esisteva
già
la
dote,
oltre
alla
consuetudine
della
donatio
ante
nuptias,
ovvero
che
i
futuri
mariti
facessero
un
regalo
alla
sposa
prima
delle
nozze.
Sono
tutti
elementi
che
ritroviamo
nel
corso
dei
secoli,
mescolati
a
quelli
di
provenienza
germanica,
sedimentati
in
un
recipiente
socio-culturale
nel
quale
si
formerà
il
matrimonio
moderno.
L’immagine
che
abbiamo
in
genere
dei
Longobardi
è
quella
di
un
popolo
alquanto
rozzo
e
bellicoso
che
ebbe
il ‘merito’
di
spezzare
definitivamente
l’unità
politica
dell’Italia,
traghettandola
nelle
nebbie
del
medioevo.
Molti
storici
si
sono
presi
in
passato
la
briga
di
rivalutare
l’azione
complessiva
del
loro
dominio,
evidenziando
ciò
che
di
buono
riuscirono
a
produrre.
Resta
il
fatto
che
la
condizione
della
donna
longobarda
rispetto
a
quella
romana,
era
senz’altro
peggiore.
Secondo
il
famoso
editto
di
Rotari
del
643,
alla
donna
non
era
riconosciuta
alcuna
personalità
giuridica
e la
sua
tutela
era
totalmente
affidata
agli
uomini.
Era
il
cosiddetto
mundium,
un
diritto
che
spettava
al
padre
o in
sua
assenza
ai
fratelli,
al
parente
maschio
più
prossimo
o ad
un
tutore
e
non
passava
automaticamente
al
marito
col
matrimonio.
Le
scarse
possibilità
di
emancipazione
delle
donne
longobarde,
erano
forse
in
parte
compensate
dalla
quantità
di
beni
che
esse
ricevevano
dai
mariti.
La
grande
differenza
tra
il
matrimonio
romano
e
quello
germanico,
è
che
nel
secondo
sono
gli
uomini
a
fare
doni
alla
sposa
e
non
il
contrario,
come
avverrà
in
seguito
per
lungo
tempo.
Con
la
suggestiva
espressione
morgengabe
(dono
del
mattino)
si
indica
il
regalo,
non
di
rado
anche
di
ingente
valore,
che
il
marito
faceva
alla
sposa
la
mattina
dopo
la
prima
notte
di
nozze.
Era
questo
il
suggello
definitivo
che
segnava
il
compimento
del
matrimonio
e
poteva
essere
costituito
da
una
somma
di
denaro,
preziosi,
oppure
anche
da
un
appezzamento
di
terreno.
Non
furono
rari
nell’alto
medioevo
i
casi
di
vedove
che
si
trovarono
a
gestire
cospicui
patrimoni,
con
tutte
le
implicazioni
e i
problemi
che
ciò
costituiva
per
una
donna
rimasta
sola:
le
pretese
dei
parenti
del
marito
defunto,
le
invidie
e i
sospetti
sull’effettivo
rispetto
della
vedovanza
di
vicini
e
malelingue.
“Il
matrimonio
è
stato
istituito
in
Paradiso
da
Dio
stesso;
per
la
Chiesa
esso
costituisce
dunque
il
più
antico
degli
ordini.
Ed è
anche
il
più
degno,
poiché
Gesù
l’ha
onorato
con
la
sua
divina
presenza
e
con
il
suo
primo
miracolo.
Dio,
infine,
ha
voluto
che
sua
madre
stessa
fosse
sposata”.
Leggendo
quest’affermazione,
il
valore
sacrale
del
matrimonio
potrebbe
sembrare
scontato.
In
realtà
a
lungo
non
lo
fu
affatto.
Anzi,
possiamo
dire
che
in
generale
fino
al
basso
medioevo
il
ruolo
dei
sacerdoti
nelle
celebrazioni
nuziali
era
molto
limitato,
anche
se,
sin
dai
grandi
concili
ecumenici
del
IV
secolo,
poi
a
più
riprese
nel
VII,
VIII
e IX,
si
era
codificata
tutta
una
serie
di
preghiere
che
andranno
in
seguito
a
costituire
la
messa
per
lo
sposalizio.
Che
il
matrimonio
fosse
un
affare
da
sbrigare
soprattutto
tra
uomini,
lo
si è
già
visto
nel
mondo
longobardo,
ma
le
tradizioni
del
popolo
germanico
non
erano
le
uniche
destinate
a
formare
questa
complicata
materia.
Verso
l’XI
secolo
assistiamo
a un
ritorno
al
diritto
romano,
all’interno
di
quel
grande
tentativo
di
rinnovamento
della
chiesa
che
fu
la
Riforma
Gregoriana.
Come
per
tante
altre
materie
di
diritto
canonico,
dobbiamo
questa
sistemazione
all’opera
del
giurista
Graziano,
autore
del
famoso
Decretum.
Nel
conferire
al
matrimonio
l’autorità
di
un
vero
e
proprio
sacramento,
Graziano
è
innovativo
in
quanto
introduce
il
principio
dell’individualità:
in
poche
parola
la
donna
sarebbe
libera
di
scegliersi
il
suo
compagno
e il
nulla
osta
dei
genitori
non
avrebbe
più
avuto
valore
vincolante.
Si
recuperava
inoltre
l’idea
romana
del
consenso
reciproco,
che
a
dire
il
vero,
la
Chiesa
aveva
sempre
mantenuto
ferma
tra
i
suoi
principi.
Questo
almeno
era
l’auspicio.
Sappiamo
che
la
realtà
fu
molto
diversa
e
ancora
per
secoli
la
libertà
della
donna
venne
spesso
messa
in
discussione.
arrivando
non
di
rado
a
usare
la
forza
per
piegare
la
sua
volontà.
Emblematico
il
caso
di
Luzia,
figlia
di
Gian
Galeazzo
Visconti
che
nel
1399
fu
costretta
a
sposare
un
nobile
della
Turingia
a
lei
non
gradito.
La
donna
riuscì
a
far
annullare
l’unione
mal
sofferta,
anche
se
solo
dopo
la
morte
del
padre.
L’evoluzione
verificatasi
nell’XI
secolo
riguardò
anche
l’anello,
divenuto
ormai
il
simbolo
universalmente
riconosciuto
dell’unione
coniugale.
Presente
nel
mondo
tardo
antico,
in
quello
bizantino,
in
quello
ebraico
e
passato
poi
nella
Francia
normanna,
esso
acquisì
un
nuovo
status
attraverso
la
benedizione
religiosa
da
parte
del
sacerdote,
che
precedeva
il
gesto
del
marito
di
porlo
al
dito
della
sposa.
Suggestivo
ci è
parso
a
riguardo
il
rituale
normanno,
nel
quale
lo
sposo,
dopo
le
domande
di
rito
e la
benedizione,
prima
pone
l’anello
al
mignolo
della
sposa,
dicendo:
“Con
quest’anello
ti
sposo
in
nome
del
padre”,
poi
all’indice,
aggiungendo
“e
del
figlio”
e
infine
al
medio,
dicendo
“e
dello
Spirito
Santo”.
Da
notare
che
spesso
l’anello
nuziale
era
portato
al
medio
e
non
all’anulare,
come
siamo
abituati
a
vedere
oggigiorno.
Per
comprendere
quale
sarà
la
portata
delle
nuove
disposizioni
in
materia
di
matrimonio,
via
via
sempre
più
puntuali,
fino
alla
grande
svolta
del
Concilio
di
Trento,
è
bene
ricordare
che
durante
tutto
il
medioevo
per
sposarsi
non
era
strettamente
necessaria
alcuna
legittimazione
formale
o
giuridica.
Bastava
spesso
la
comune
volontà
dei
futuri
coniugi
e un
bacio
o
una
stretta
di
mano
potevano
esser
sufficienti
a
garantire
l’avvenuta
unione.
Ciò
vale
soprattutto
per
i
ceti
meno
abbienti,
che
magari
non
disponevano
nemmeno
della
somma
per
pagare
il
notaio
che
avrebbe
dovuto
scrivere
e
registrare
gli
atti.
Tutte
queste
innovazioni
non
si
diffusero
ovunque
in
modo
uniforme
e
impiegarono
anni
per
essere
accolte
nelle
varie
regioni,
dove
comunque
sopravvissero
ancora
a
lungo
tutta
una
serie
di
peculiarità
locali.
Tale
diffusione
fu
più
facile
ad
esempio
nel
Nord
della
penisola
italiana,
maggiormente
urbanizzato,
mentre
si
rivelò
più
lenta
al
Sud
rurale.
Nel
meridione
d’Italia
e
non
solo,
non
erano
rari
i
casi
di
donne
che
ancora
dopo
la
Riforma
Gregoriana,
continuavano
a
pretendere
il
morgengabe.
Condizione
imprescindibile
per
una
donna
che
avesse
voluto
sposarsi,
era
la
dote
che
accrebbe
sempre
più
la
sua
importanza
a
scapito
dei
doni
del
marito.
Le
donne
del
basso
medioevo
avevano
perso
gran
parte
dei
diritti
sul
patrimonio
del
coniuge
defunto
e
paradossalmente
si
trovarono
ad
essere
meno
emancipate
che
in
passato.
Dal
XII
secolo
la
dote
divenne
la
principale
componente
monetaria
a
garanzia
del
matrimonio
ed
era
previsto,
sin
dall’epoca
romana,
che
tornasse
al
padre
della
sposa,
se
questa
moriva
senza
lasciare
figli.
I
mariti
però
cominciarono
ben
presto
a
rivendicare
maggiori
diritti
e
sovente
ci
si
accordava
per
riavere
la
metà
della
cifra
versata
inizialmente,
ma
in
poco
tempo
questa
consuetudine
decadde
del
tutto.
La
dote
si
componeva
di
due
parti:
le
donora,
ovvero
il
corredo
della
sposa
(quello
che
veniva
custodito
nei
cassoni
matrimoniali
ed
esibito
durante
il
corteo
nuziale),
comprendente
vesti,
gioielli
e
altri
accessori,
alle
quali
si
aggiungeva
una
somma
di
denaro
liquido.
La
spesa
che
la
famiglia
della
futura
sposa
si
trovava
a
dover
sborsare
per
maritare
una
o
più
figlie,
poteva
essere
anche
molto
ingente,
specie
nel
caso
di
unioni
tra
lignaggi
illustri
e di
condizione
elevata.
Quella
della
dote
divenne
una
questione
di
primaria
importanza
nella
vita
delle
comunità
cittadine
e in
particolare
per
i
casati
aristocratici
o
per
le
nuove
dinastie
mercantili
e
bancarie
che
avevano
fatto
da
poco
fortuna.
I
nuovi
ricchi
vi
vedevano
un
vero
e
proprio
mezzo
di
ascesa
sociale,
che
dava
loro
la
possibilità
di
imparentarsi
con
famiglie
nobili
e
prestigiose.
Nell’Italia
dei
Comuni,
dilaniati
dalle
lotte
intestine
tra
fazioni,
non
facciamo
troppa
fatica
a
immaginarci
quale
rilievo
ebbero
le
alleanze
matrimoniali
a
livello
politico
ed
economico.
Delle
nozze
ben
organizzate
potevano
servire
a
sanare
un
contrasto,
a
rinforzare
un’alleanza
o a
crearne
una
nuova.
I
comuni
italiani
si
servirono
in
pratica
dei
matrimoni
come
mezzo
di
pacificazione
interna.
La
stessa
funzione
il
matrimonio
la
rivestì
a
livello
più
ampio
quando
si
allargarono
le
sfere
di
influenza
degli
stati
cittadini,
divenuti
ormai
regionali
e
nazionali,
e i
matrimoni
dinastici
tra
principi
e
sovrani
furono
uno
dei
cardini
della
strategia
dell’equilibrio,
inaugurata
dopo
la
pace
di
Lodi
del
1454.
Se
il
matrimonio
dotale
era
per
i
ceti
superiori
uno
strumento
di
lotta
politica,
funzionale
anche
all’accrescimento
dei
patrimoni,
per
le
classi
meno
agiate
esso
aveva
essenzialmente
un
valore
economico
e
una
finalità
riproduttiva.
Tra
poveri
forse
vi
erano
sentimenti
più
sinceri
e
l’amore
reale,
non
quello
romantico
idealizzato
nei
componimenti
poetici,
poteva
avere
più
sbocchi
rispetto
alle
strategie
matrimoniali
delle
grandi
famiglie,
che
mettevano
in
secondo
piano
l’attrazione
reciproca
tra
uomo
e
donna.
Sorsero
non
pochi
problemi
quando
il
valore
delle
somme
richieste
dalla
famiglia
del
marito
per
accogliere
nella
sua
casa
la
sposa,
cominciò
a
crescere
in
modo
esponenziale,
favorendo
la
nascita
di
un
vero
e
proprio
mercato
delle
doti,
nel
quale
la
donna
e il
suo
corpo
diventavano
mera
merce
di
scambio.
Molte
famiglie,
specie
del
ceto
medio,
si
indebitarono
per
far
sposare
anche
solo
una
figlia.
Già
Dante
si
lamentava
di
questo
immorale
mercimonio,
paragonando
i
suoi
tempi
a
quelli
della
Firenze
sobria
e
pudica
degli
avi:
“Non
faceva,
nascendo,
ancor
paura
/ la
figlia
al
padre,
ché
‘l
tempo
e la
dote
/non
fuggien
quinci
e
quindi
la
misura”.
Leon
Battista
Alberti
metteva
in
guardia
dall’abitudine
di
scegliere
la
sposa
solo
in
base
alla
dote
che
ella
portava
con
se:
“E
tolgasi
per
allevar
figliuoli
in
prima;
dipoi,
si
pensi
che
alle
fortune
più
sono
e’
buoni
parenti
fermi,
e a
giudicio
de’
buoni,
utili
più
che
la
roba.
La
roba
in
molti
modi
si
truova
essere
cosa
fuggiasca
e
fragile,
e’
parenti
sempre
durano
parenti,
dove
tu
gli
reputi
e
tratti
non
altrimenti
che
parenti”.
E
infine
per
completare
il
quadro
dei
grandi
scrittori
che
si
occuparono
di
questo
tema,
Guicciardini
ebbe
a
dire,
ormai
in
pieno
‘500:
“non
è
cosa
nel
vivere
nostro
civile
che
abbia
più
difficoltà
che
il
maritare
convenientemente
le
sue
figliuole”.
Vediamo
come
intorno
alla
dote
e al
matrimonio
si
aprirono
tutta
una
serie
di
questioni
socio-economiche
alquanto
importanti
e
complesse.
È
ben
noto
il
destino
che
era
riservato
a
quelle
ragazze
che
non
potevano
essere
maritate
per
mancanza
di
denari.
Per
loro
si
spalancavano,
spesso
controvoglia,
le
porte
dei
conventi
che
certo
non
mancarono
mai
a
Firenze,
raggiungendo
livelli
pletorici
nel
XVII
secolo,
l’epoca
delle
mal
monacazioni
per
eccellenza.
Nel
‘400,
a
dire
il
vero,
le
leggende
agiografiche
sono
ancora
ricche
di
giovinette
che
supplicano
i
genitori,
intenzionati
a
farle
sposare,
di
accogliere
la
loro
sincera
vocazione
per
la
vita
claustrale.
Poteva
accadere
perfino
che
fanciulle
venissero
sacrificate
e
date
in
spose
a
pretendenti
ormai
anziani,
che
si
accontentavano
di
doti
modeste.
Lo
Stato
non
mancò
di
intervenire
per
consentire
anche
alle
donne
di
condizione
meno
agiata
la
possibilità
di
sposarsi.
Fu
istituito
nel
1425
il
Monte
delle
Doti,
un
fondo
dove
i
genitori
potevano
versare,
sin
dall’infanzia
delle
loro
figlie,
piccole
somme,
di
fatto
un
prestito
al
Comune,
che
lo
restituiva
sotto
forma
di
interessi
maturati
negli
anni
e
che
andavano
appunto
a
costituire
la
dote
della
futura
sposa.
Se
la
giovane
moriva
o
decideva
di
farsi
monaca,
il
padre
o il
convento
ricevevano
solo
l’importo
iniziale.
Uno
dei
motivi
per
i
quali
il
valore
della
dote
raggiunse
livelli
tanto
consistenti
fu
che
essa
doveva
servire
in
parte
a
pagare
le
spese
del
matrimonio
e in
particolare
del
banchetto,
evento
che
nei
casi
di
unioni
tra
grandi
famiglie
dell’aristocrazia
cittadina,
assumeva
la
portata
di
una
festa
pubblica,
alla
quale
erano
invitati
centinaia
di
ospiti.
Tra
i
pranzi
di
nozze
più
fastosi
ricordiamo
quello
offerto
per
lo
sposalizio
di
Bernardo
Rucellai
con
Nannina
de’
Medici,
al
quale
parteciparono
500
invitati,
fatti
accomodare
sotto
un
tendone
allestito
per
l’occasione
davanti
al
palazzo
gentilizio.
Furono
servite
ben
venti
portate
e la
spesa
complessiva
ammontò
a
6.638
lire.
Abbiamo
detto
che
la
dote,
oltre
alla
parte
propriamente
monetaria,
era
costituita
anche
dalle
donora,
il
corredo
della
sposa.
Per
dimostrare
il
proprio
prestigio,
la
famiglia
della
donna
tendeva
a
“gonfiare”
la
quantità
e il
valore
di
questi
beni,
costringendo
così
il
marito,
in
un
complicato
gioco
di
equilibri,
per
non
essere
da
meno
e
non
rimetterci
la
sua
reputazione,
a
fare
ricchi
doni
alla
futura
moglie.
Una
quota
della
dote
versata
inizialmente
era
quindi
subito
recuperata,
attraverso
le
spese
sostenute
per
le
celebrazioni
e i
regali
preziosi,
che
entravano
di
fatto
nel
patrimonio
personale
della
giovane.
Come
ci
si
sposava
nella
Firenze
tra
XIV
e XV
secolo?
Semplificando
e
schematizzando,
possiamo
dire
che
tutto
partiva
da
accordi
preliminari,
portati
avanti
in
genere
da
un
sensale
o da
mezzani
delle
famiglie
che
intendevano
imparentarsi.
Si
sceglieva
il
candidato
più
adatto
ai
propri
fini,
valutandone
le
sostanze,
l’aspetto
e la
forma
fisica
e si
iniziavano
le
lunghe
trattative
che
nel
complesso
potevano
durare
anche
mesi.
Veniva
quindi
redatto
un
primo
documento
informale,
che
non
aveva
ancora
valore
vincolante.
Queste
fasi
iniziali
del
matrimonio
erano
prerogativa
esclusiva
delle
parti
maschili
delle
famiglie,
che
partecipavano
ad
un
primo
incontro
diretto
per
conoscersi
e
render
più
fermi
i
patti.
Era
l’’impalmamento’,
così
detto
perché
suggellato
con
una
stretta
di
mano
tra
i
padri
degli
sposi.
Seguivano
dunque
le
“giure”
o
“giuramento
grande”,
in
pratica
le
nostre
pubblicazioni,
che
servivano
a
manifestare
alla
comunità
la
volontà
delle
famiglie
di
legarsi
col
matrimonio
e
permettevano
a
eventuali
oppositori
di
fare
le
proprie
rimostranze.
Le
giure
erano
un
impegno
fortemente
costrittivo
e
non
potevano
essere
rotte
se
non
con
gravi
conseguenze,
come
una
pesante
multa
decisa
dai
tribunali
competenti.
Un
notaio
allora
scriveva
il
contratto
dotale,
indicando
anche
arbitri
e
garanti
che
avrebbero
dovuto
sovrintendere
al
pagamento
della
dote.
A
questo
punto
tutto
era
pronto
per
le
nozze.
Gli
sposi,
i
loro
genitori,
i
rispettivi
parenti
e il
notaio,
si
radunavano,
di
solito
in
una
casa
privata
o
davanti
al
sagrato
di
una
chiesa
per
la
celebrazione
della
cerimonia,
in
realtà
alquanto
semplice.
Il
notaio
poneva
le
domande
di
rito,
alle
quali
i
due
rispondevano
“Volo”
e
poi
si
procedeva
allo
scambio
dell’anello,
che
poteva
esser
stato
precedentemente
benedetto
da
un
sacerdote.
Possiamo
farci
un’idea
di
questo
momento
osservando
i
molti
quadri
e
affreschi
che
rappresentano
Lo
sposalizio
della
Vergine,
motivo
iconografico
assai
diffuso
nella
Toscana
tra
‘300
e
‘500,
rappresentato
da
artisti
del
calibro
di
Giotto
nella
cappella
degli
Scrovegni
e di
Raffaello
nella
tavola
conservata
a
Brera.
Tornando
al
discorso
storico,
l’aspetto
che
salta
più
agli
occhi
e
sul
quale
insiste
molto
anche
la
Klapisch-Zuber,
è la
scarsa
attenzione,
verrebbe
da
dire
quasi
l’indifferenza
che
i
fiorentini,
nutrivano
nei
confronti
dei
dettami
della
Chiesa
in
ambito
matrimoniale.
Il
precetto
della
benedizione
prima
dello
sposalizio
e
l’invito
a
partecipare
subito
dopo
l’unione
ad
una
messa,
erano
spesso
ignorati.
Nel
1356
il
Comune
emanò
una
legge
secondo
la
quale
i
giuramenti
dovevano
esser
fatti
all’interno
di
una
chiesa,
ma
lo
fece,
non
tanto
per
motivazioni
religiose,
quanto
piuttosto
per
la
neutralità
del
luogo
e al
fine
di
una
ricercata
pacificazione
sociale.
Quando
il
19
settembre
1477,
Filippo
Strozzi
sposò
in
seconde
nozze
Vaggia
Ginfigliazzi,
giacché
si
intendeva
celebrare
il
matrimonio
in
campagna,
non
si
riuscì
a
trovare
un
notaio.
Solo
per
il
caso
e
l’opportunità,
fu
chiamato
un
parroco
del
luogo.
Il
matrimonio
però
non
poteva
ancora
dirsi
davvero
compiuto
finché
non
veniva
consumato.
Gli
sposi
novelli
si
coricavano
insieme
per
la
prima
volta
(spesso
sotto
gli
occhi
di
testimoni
che
dovevano
verificare
l’avvenuto
accoppiamento!)
la
sera
del
‘dì
dell’anello’,
il
nome
che
i
fiorentini
davano
al
giorno
dello
scambio
dei
voti.
In
alcune
città,
come
a
Genova,
si
raccomandava,
al
fine
di
preservare
l’iniziale
purezza
del
vincolo
matrimoniale,
senza
farsi
traviare
subito
dalla
lussuria,
di
trascorrere
insieme
la
prima
notte
di
nozze,
tre
giorni
dopo
la
cerimonia.
I
festeggiamenti
infatti
venivano
prolungati
e
duravano
quattro
giorni.
Curiosamente
in
alcune
occasioni
accadeva
anche
il
contrario,
cioè
che
si
anticipasse
la
consumazione
del
matrimonio
per
paura
del
malocchio
che
avrebbe
potuto
compromettere
la
fertilità
degli
sposi.
Infine
la
parte
più
spettacolare,
quella
che
rendeva
pubblico
il
rito
privato,
ovvero
il
corteo
nuziale.
La
sposa,
alla
quale
era
permesso
eccezionalmente
di
cavalcare
un
destriero
bianco,
veniva
‘prelevata’
dalla
casa
natale
dagli
amici
dello
sposo
e
condotta,
attraverso
le
vie
e le
piazze
cittadine,
fino
alla
dimora
del
marito.
Il
già
ricordato
Altieri
vedeva
in
ciò
la
riproposizione
e
l’attualizzazione
del
mito
archetipico
del
ratto
delle
sabine,
confermata
dall’assenza
del
padre
che
non
prendeva
parte
al
corteo.
In
quest’occasione
le
famiglie
avevano
la
possibilità
di
mostrare
a
tutti
la
propria
ricchezza,
attraverso
gli
abiti
variopinti
del
corredo,
appesi
ed
esibiti
su
supporti
montati
sui
carri,
le
raffinate
decorazioni
dei
cassoni
e i
preziosi
gioielli.
Ma
vi
potevano
essere
degli
inaspettati
risvolti.
Durante
i
cortei
brigate
di
giovani
erano
solite
far
scherzi,
a
volte
anche
pesanti,
lanciando
contro
i
partecipanti
cose
poco
gradite.
In
genere
comunque
ci
si
limitava
a
bloccarne
il
passaggio
stendendo
nastri
o
ghirlande
attraverso
le
strade.
Barriere
queste
che
venivano
rimosse
dietro
il
pagamento
di
un
obolo,
di
solito
un
anello,
riscattato
alla
fine
del
banchetto
pagando
una
somma
di
denaro,
che
i
birbanti
spendevano
per
i
loro
bagordi.
Incidenti
ben
più
gravi
capitavano
quando
erano
in
corso
lotte
tra
i
lignaggi
e i
cortei
nuziali
diventavano
occasione
di
atti
provocatorii
che
sfociavano
talvolta
in
veri
e
propri
tumulti.
Si è
già
ricordato
più
volte
come
il
corredo,
le
donora,
fossero
parte
integrante
della
dote.
Esse
quindi
ricadevano
sotto
la
gestione
del
marito,
allo
stesso
modo
che
i
denari,
anche
se
la
donna
ne
conservava
comunque
il
diritto
d’uso.
Se
la
moglie
restava
vedova
era
consuetudine
che
le
donora
o
una
cifra
corrispondente,
le
venissero
restituite.
Nel
caso
di
una
somma
pecuniaria,
vi
era
un
evidente
vantaggio,
dal
momento
che
il
valore
preso
come
riferimento
era
quello
della
stima
fatta
quando
i
beni
erano
ancora
nuovi.
All’atto
della
restituzione
non
si
teneva
quindi
conto
del
fatto
che,
trattandosi
di
oggetti
d’uso,
nel
frattempo
si
fossero
deteriorati.
E se
invece
era
la
moglie
a
morire?
Fin
dal
XIV
sec.
era
decaduta
la
consuetudine
di
restituire
il
corredo
alla
famiglia
della
sposa
e
tutt’al
più
ci
si
accordava
per
riconsegnare
almeno
gli
abiti
e le
cose
più
intime
e
personali.
Nel
‘400
non
vi
era
comunque
nessun
vincolo
legale
che
imponesse
tale
restituzione,
di
fatto
lasciata
all’arbitrio
e
all’animo
caritatevole
del
vedovo.
La
tradizione
del
corredo
è
qualcosa
che
ci
appare
ormai
abbastanza
distante
e
suscita
il
nostro
stupore
vedere
la
quantità
di
oggetti,
da
quelli
più
comuni
ai
più
minuti,
che
lo
componevano.
Contrariamente
a
quanto
si
potrebbe
pensare,
esso
non
comprendeva
la
biancheria
per
la
casa:
lenzuola,
federe,
tovaglie,
panni
per
pulire
erano
a
carico
del
marito,
mentre
erano
numerose
le
vesti,
confezionate
con
tessuti
preziosi,
dai
colori
sgargianti
e
tagliate
secondo
la
moda
più
recente.
In
un
buon
corredo
non
potevano
poi
mancare
almeno
due
dozzine
di
camicie,
‘sciugatoi’
per
il
corpo,
magari
ricamati,
fazzoletti,
grembiuli,
calze,
zoccoli
e
pantofole.
Si
regalava
alla
sposa
perfino
il
corallo,
col
quale
venivano
realizzati
piccoli
amuleti
contro
il
malocchio
per
i
neonati
che
andavano
a
balia.
I
gioielli
erano
uno
status
symbol
irrinunciabile
per
ogni
dama:
Cinture
e
ornamenti
per
il
capo,
rifiniti
con
perle
e
metalli
preziosi,
vezzi
e
anelli
abbellivano
tutta
la
persona.
Uno
specchio,
il
pettine,
i
profumi,
le
essenze,
i
nastri
per
i
capelli
e il
sapone,
completavano
la
serie
degli
accessori
più
strettamente
legati
al
corpo
femminile.
Vi
erano
inoltre
tutta
una
serie
di
articoli
per
noi
insoliti,
come
i
preziosi
“libriccini
di
donna”
o
“di
Nostra
Donna”,
piccoli
codici
devozionali
di
squisita
fattura,
spesso
miniati,
rilegati
finemente,
coperti
in
velluto
o
altre
stoffe
di
lusso
e
chiusi
da
fermagli
cesellati
in
argento.
Si
accompagnava
la
preghiera
sgranando
paternostri
e
rosari
realizzati
con
materiali
di
pregio,
come
argento
dorato,
ambra,
diaspro,
corallo
e
perle.
La
serie
degli
oggetti
di
culto
proseguiva
poi
con
i
quadretti,
le
immaginette
e i
crocifissi,
che
avrebbero
decorato
e
protetto
la
camera
da
letto.
Del
tutto
particolari
e
pertinenti
unicamente
all’universo
religioso
femminile,
sono
infine
le
statuine
devozionali,
le
“sante
bambole”
che
rappresentavano
il
Bambin
Gesù
o
qualche
santa
alla
quale
si
era
legate.
Anche
queste
bambole
avevano
il
loro
piccolo
corredo
di
vestitini
e
venivano
sistemate
su
altarini
appositamente
realizzati.
Libriccini
di
preghiere
e
statuine
pie
erano
i
beni
che,
più
di
sovente,
una
madre
trasmetteva
alla
figlia
che
andava
in
sposa.
L’istituzione
del
matrimonio
è
ormai
da
tempo
in
crisi
in
Occidente
e
non
spetta
certo
a
noi
ripercorrere
le
vicende
di
questo
decadimento.
Ci
limiteremo
a
ricordare
come
esso
abbia
rivestito
un
ruolo
sociale,
economico
e
politico
fondamentale
non
solo
nel
periodo
da
noi
preso
in
considerazione.
Tale
importanza
si
manifestò
con
usanze,
riti
e
cerimonie
diversi
da
luogo
a
luogo,
da
regione
a
regione
e
mai
riconducibili
a un
unico
modello.
Nella
vita
degli
uomini
dell’Europa
medievale,
così
profondamente
compenetrata
di
aspetti
religiosi,
abbiamo
visto
che
a
lungo,
proprio
il
matrimonio,
destinato
a
diventare
uno
dei
cardini
della
Controriforma,
fosse
avvertito
come
un
evento
sostanzialmente
laico.
Riferimenti
bibliografici:
Klapisch-Zuber
Ch.,
La
famiglie
e le
donne
nel
rinascimento
a
Firenze,
Bari,
Laterza,
1988.
Pedrini
A.,
Il
mobilio,
gli
ambienti
e le
decorazioni
del
rinascimento
in
Italia,
secoli
XV e
XVI,
Genova,
Stringa
Editore,
1969.
Schiapparelli
A.
(a
cura
di),
La
casa
fiorentina
e i
suoi
arredi
nei
secoli
XIV
e XV,
voll.
I-II,
Firenze,
Sansoni,
1908.
In
edizione
anastatica,
a
cura
di
Maria
Sframeli
e
Laura
Pagnotta,
Firenze,
Le
Lettere,
1983.