N. 107 - Novembre 2016
(CXXXVIII)
STORIA
COME
SCIENZA
O
STORIA
COME
ARTE?
Un
carteggio
tra
BENEDETTO
Croce
e
PASQUALE
Villari
di
Bevar
Ernesta
Angela
Per
entrare
nell’argomento
del
presente
scritto
occorre
ripercorrere
una
polemica
dell'inizio
del
secolo
scorso
tra
due
illustrissimi
storici
italiani:
Benedetto
Croce
e
Pasquale Villari.
La
controversia
–
come
qualcuno
ebbe
a
definirla
– da
un
lato
riguardava
l’essenza
del
metodo
dello
storico
e
dall’altro
discuteva
la
necessità
di
reclamare
come
proprio
per
la
storia
l’ambito
epistemologico
specifico
delle
scienze.
Il
dibattito,
peraltro
già
in
corso
nel
secolo
precedente,
influenzerà
nel
corso
di
tutto
il
Novecento
la
riflessione
di
molti
storici.
L’interrogativo
sul
quale
si
basava
riguardava
l’alternativa
tra
il
concepire
la
storia
come
una
scienza
o
come
un’arte.
Erano
molti
coloro
i
quali
sottolineavano
che
il
sapere
storico
non
può
essere
cumula-tivo
come
quello
scientifico,
in
quanto
lo
storico,
spesso,
più
che
proseguire
le
ricerche
e
gli
studi
dei
suoi
predecessori,
mette
in
discussione
le
loro
scoperte.
Questo
si
può
facilmente
osservare
in
un’aula
in
cui
si
insegna
storia,
come
ben
evidenzia
Evans,
dove
uno
studente
può
pensare
di
contestare
qualcosa
al
professore,
mentre
nessuno
studente
in
un’aula
di
chimica
si
sognerà
mai
di
contestare
il
professore
in
merito
a un
qualsiasi
argomento
delle
sue
lezioni.
Pertanto
se
proprio
si
vuole
dare
al
sapere
storico
la
definizione
di
cumulativo,
bisognerebbe
intenderlo
nel
senso
di
un
sapere
che
non
può
mai
essere
definitivo
e
che
quindi
colma
le
sue
lacune
e
mancanze
con
il
passare
del
tempo,
con
lo
studio
e la
ricerca.
Un’altra
differenza
evidente
tra
storia
e
scienza
è
che
per
la
storia
non
esiste
un
laboratorio
in
cui
possano
essere
verificate
previsioni
o
andamenti.
Alla
convinzione
di
chi
sostiene
che
le
conclusioni
di
uno
storico
non
possono
essere
verificate,
si
può
rispondere
facendo
riferimento,
come
fa
anche
Evans,
al
metodo
di
alcune
scienze
che
si
basano
sull’osservazione
piuttosto
che
sulla
sperimentazione,
tra
queste
l’astronomia
o la
geologia.
Altrettanto
controversa
è la
questione
sulla
mancanza
di
una
certezza
predittiva
nella
storia
rispetto
a
quella
che
possiedono
le
scienze.
Hobsbawm
sostiene
nel De
Historiache
“possiamo
sapere
che
cosa
probabilmente
accadrà,
ma
non
quando”.
Questo
significa
che
le
sole
previsioni
cronologiche
affidabili
(non
certe)
sono
basate
su
una
qualche
periodicità
e in
genere
sono
gli
economisti
e i
demografi
che
se
ne
occupano.
Tutto
ciò
non
deve
portare
chi
si
occupa
di
storia
a
confondere
quello
che
in
questa
disciplina
è il
concetto
di
previsione
con
il
desiderio
(“l’uomo
è
un’animale
che
spera”
soleva
dire
Bloch)
o
con
la
speranza,
non
deve,
cioè,
spingere
a
usare
la
storia
come
una
escatologia
né
ad
usarla
col
solo
fine
di
fare
della
“futurologia”.
In
epoca
più
recente
la
discussione
se
gli
scritti
di
storia
possono
o
meno
definirsi
testi
letterari
si è
spostata
sul
linguaggio,
anzi
sulla
mancanza
nella
storia
di
un
linguaggio
specifico,
di
una
terminologia
tecnica
che
invece
è
appannaggio
delle
altre
discipline.
Su
questo
argomento
gli
storici
si
dividono
tra
chi
ritiene
che
la
distinzione
tra
storia
e
poesia
sia
pericolosa,
che
un
testo
privo
di
forza
immaginativa
impoverisca
anche
i
contenuti,
e
coloro
i
quali
si
appellano
ad
una
semplicità
stilistica,
ad
una
chiarezza
che
dovrebbe
essere
una
sorta
di
dovere
nei
confronti
del
lettore.
I
primi
hanno
forse
come
obiettivo
suscitare
curiosità
e
interesse,
i
secondi
hanno
di
mira
la
comprensione
chiara
e
consapevole
degli
avvenimenti
storici.
In
ogni
caso
la
padronanza
della
lingua
dovrebbe
sempre
andare
di
pari
passo
con
il
tenere
in
debito
conto
l’esigenza
della
leggibilità
perché
il
mestiere
dello
storico
non
si
identifichi
con
il
custodire
una
conoscenza
elitaria
e
sapienziale,
ma
mantenga
il
suo
ruolo
di
memoria
collettiva
del
passato
a
beneficio
di
tutti
e
non
di
pochi.
La
controversia
tra
Villari
e
Croce
riguardo
all’argomento
se
la
storia
debba
essere
scienza
o
arte
ha
inizio
con
la
pubblicazione
di
Villari,
nel
1891,
del
saggio La
storia
è
una
scienza? al
quale
Croce
risponde,
per
così
dire,
nel
1893
con La
storia
ridotta
sotto
il
concetto
generale
dell’arte.
Analizziamo
le
due
argomentazioni.
L’argomentazione
di
Villari
(1891):
Villari
non
poteva
accogliere
la
narrazione
come
metodo
valido
per
l’approccio
storico
per
due
motivi:
perché
la
narrazione
era
secondo
la
sua
opinione
solo
un
elemento
letterario
che
gli
storici
più
antichi
utilizzavano
per
rendere
più
vivo
il
racconto
sugli
avvenimenti
passati;
seconda-riamente
perché,
da
buon
positivista,
Villari
riconosceva
innanzitutto
la
distinzione
tra
poesia
e
storia,
in
quanto
l’artista
crea
mentre
lo
storico
rinviene.
Per
il
primo
motivo
addotto
l’autore
è,
in
qualche
modo,
influen-zato
dalla
posizione
del
Seeley,
il
quale
vedeva
negli
studi
storici
nient’altro
che
la
ricerca
della
soluzione
ad
alcuni
problemi
politici.
Se
“la
storia
è
politica
del
passato
e la
politica
è
storia
del
presente”,
come
afferma
Freeman,
ne
consegue
che
la
storia
come
narrazione
soddisfa
qualche
curiosità,
ma
solo
quella
storia
che
scopre
le
leggi
che
governano
i
fatti
può
estrarre
dal
suo
lavoro
le
regole
di
condotta
utili
all’azione
dell’uomo
politico.
E a
chi
si
chiedesse
se
fare
a
meno
del
(falso)
metodo
letterario
significa
togliere
alla
storia
il
suo interest,
il
Seeley
rispondeva
che
ciò
che
conta
nella
storia
non
è
l’individuale,
del
quale
si
occupa
la
narrazione,
ma
ciò
che
unisce
gli
uomini
in
società
e
che
proprio
questo
obiettivo
dà
alla
storia
un interest più
vero,
alto,
concreto
e
utile.
Riportate
le
suddette
opinioni,
Villari
esprime
la
sua,
evidenziando
come,
mentre
il
metodo
letterario
si
occupa
degli
uomini,
quello
scientifico
si
concentra
sui
fatti.
Ci
sono
poi
altre
posizioni
che
l’autore
ricorda,
come
quella
di
Ranke
o di
Gebhardt,
secondo
i
quali,
nella
storia,
arte
e
scienza
si
confondono
o
meglio
sono
due
momenti,
entrambi
necessari.
La
storia
come
scienza
va
alla
ricerca
dei
fatti
e,
una
volta
trovati,
è la
storia
come
arte
che
li
espone.
Per
il
Seeley
il
procedimento
era,
discendente,
cioè
lo
storico
che
narra
sta
discendendo
dalla
scienza
nella
letteratura,
per
Gebhardt,
invece,
lo
storico
che
narra
i
fatti
trovati
in
precedenza
con
metodo
scientifico
sta
ascendendo
ad
una
posizione
più
alta.
In
Ranke
i
due
momenti
sono
simultanei,
lo
storico
deve
tanto
ricercare
e
criticare
scientificamente,
quanto
trovare
la
modalità
più
appropriata
così
che
nell’esporre
i
contenuti
riesca
a
produrre
nel
lettore
lo
stesso
piacere
che
egli
ha
quando
legge
un’opera
letteraria.
Ma
Villari
sottolinea
come
la
posizione
di
Ranke
dia
comunque
più
importanza
al
momento
scientifico,
in
quanto
ciò
che
viene
narrato
deve
essere
sempre
e
primariamente
vero.
Del
resto
come
potrebbe,
aggiunge
Villari
facendo
eco
a
Ullmann,
la
storia
che
ha
per
ufficio
il
criticare,
il
paragonare
e
l’esaminare,
preoccuparsi
del
principio
del
bello?
C’è,
poi,
da
tenere
in
debito
conto
che
Villari
si
inseriva
in
un
filone
peculiare
del
positivismo
italiano
animato
al
suo
interno
da
due
finalità
ben
precise:
la
lotta
alla
metafisica,
al
trascendente
e lo
sforzo
di
poter
trovare
le
leggi
dello
spirito
umano
e
del
pensiero
attraverso
quella
che
Vico
aveva
definito
la
“nuova
scienza”.
Lo
scopo
era
formulare
un
nuovo
approccio
alla
studio
della
storia
fondato
sui
metodi
empirici
e
basato
sull’osservazione
e la
verificazione
propri
delle
scienze
naturali.
Un’idea
di
progresso
muoveva
Villari
(idea
alla
quale
era
precedentemente
approdato
Vico)
essa
si
manifestava
nel
passaggio
dallo
stadio
della
sapienza
poetica,
ancora
pervaso
dal
mito,
allo
stadio
della
sapienza
riposta.
Il
movimento
dal
poetico
al
razionale
altro
non
era
per
lui
che
una
legge
di
sviluppo.
Ma
la
storia,
in
questa
concezione
di
progresso,
non
può
che
essere
una
scienza sui
generis e
non
una
scienza
esatta
o
una
scienza
naturale,
perché
Villari
sa
bene
che
le
leggi
della
storia,
a
differenza
di
quelle
naturali,
si
possono
conoscere
solo
fino
a un
certo
punto,
frammen-tariamente,
ma
anche
perché
se
essa
fosse
una
scienza
esatta
dovrebbe
rivelare
con
certezza
il
mondo
delle
idee.
La
storia,
invece,
tenta
di
scoprire
le
idee
che
sono
contenute
nella
verità
dei
fatti,
come
sostiene
Humboldt,
in
essa
reale
e
ideale
sono
sempre
confusi.
Gli
elementi
che
costituiscono
la
storia,
secondo
Villari,
sono
tre:
i
fatti,
la
rappresentazione
dei
fatti
e la
connessione
logica
dei
fatti,
cioè
le
leggi
che
li
governano.
Il
primo
elemento
è
oggetto
dell’erudizione
storica,
il
secondo
della
storia
narrativa,
il
terzo,
quello
più
importante,
può
causare
continue
controversie,
ma è
l’unico
che
fa
comprendere
il
valore
storico.
Lo
storico
non
può
cambiare
nulla,
non
è
libero
quanto
può
esserlo
il
poeta,
il
quale
dà
corpo
alle
idee
imitando
la
realtà,
mentre
lo
storico
deve
descrivere
i
fatti
senza
alterarne
lo
spirito
e
tutto
ciò
ha
un
preciso
significato:
non
siamo
noi
a
possedere
le
idee
ma
sono
loro
che
possiedono
noi,
noi
che
ne
dipendiamo.
Oltre
a
questo
lo
storico
deve
conoscere
l’uomo
e il
tempo
in
cui
visse,
deve
sapere
come
le
società
agiscono
le
une
sulle
altre
influenzandosi
a
vicenda,
deve
sapere
che
il
viaggio
intellettuale
che
sta
compiendo
a
ritroso
nel
tempo,
il
“trasportarsi
nello
spirito
di
tutti
i
tempi”,
altro
non
è
che
la
lettura
di
una
storia
che
si è
trasformata
e
che
vive
in
noi,
ne
consegue
che
egli
sta
studiando
una
parte
di
sé
stesso.
La
sua
vivacità
nella
scrittura
consiste
nel
connettere
tutti
questi
elementi
in
un
unico
quadro
d’insieme.
Solo
così
la
storia
può
divenire
vera
scienza
dello
spirito
umano.
Nel
momento
in
cui
a
Villari
si
pose
l’alternativa
tra
il
modello
storio-grafico
realistico-tucidideo
e
quello
giudaico-cristiano,
egli
scelse
comunque
il
primo,
precisando
che
a
questo
modello,
che
costituisce
la
semplice
narrazione
storica,
occorre
aggiungere
le
scoperte
delle
nuove
scienze,
come
la
paleografia,
la
cronologia,
la
geologia,
la
filologia
comparata,
l’etnografia,
le
quali
portano
con
sé
nuovi
approcci
di
interesse
storico,
sociale
e
politico.
L’argomentazione
di
Croce
(1893):
All’inizio
della
sua
attività
Croce
fu
attratto
e
affascinato
dalla
storia
come
oggetto
di
erudizione
letteraria
mai
priva
di
elementi
di
viva
umanità. La
storia
ridotta
sotto
il
concetto
generale
dell’arte del
1893
fu
la
sua
prima
opera
sistematica
sulla
storia.
Il
primo
obiettivo
per
l’autore
fu
quello
di
respingere
l’interpretazione
positivistica
della
storia
come
scienza,
il
secondo
di
rifiutare
l’idea
di
un’arte
fondata
sull’edonismo.
Quest’ultimo
obiettivo
sarà
ampiamente
confutato
nelle
sue Tesi
sull’estetica,
in
cui
l’identificazione
tra
arte
ed
espressione
(espressione
dell’individuale
cioè
intuizione)
consente
di
“superare
la
concezione
naturalistico-empirico-edonistica
come
pure
di
quella
intellettualistica
dell’arte”,
la
quale
deve
divenire
attività
spirituale
e
teoretica.
Per
Croce
non
v’era
dubbio
alcuno
che
alla
base
della
storia
vi
fosse
la
stretta
relazione
tra
l’azione
e la
conoscenza
degli
avvenimenti
passati,
relazione
che
andava
rintracciata
nel
carattere
specificamente
simbolico
della
narrazione.
La
storia
per
Croce
era
compresa
in
una
concezione
filosofica,
ma
in
un
primo
periodo
andava,
secondo
il
suo
parere,
ridotta
sotto
il
concetto
generale
dell’arte.
Il
testo
del
1893
in
cui
argomenta
questa
tesi
è
tutto
percorso
da
richiami
espliciti
all’estetica
di
Hegel
in
cui
l’arte
viene
definita
come
“la
rappresentazione
sensibile
dell’idea”.
La
storia
ridotta
sotto
il
concetto
generale
dell’arte
non
viene
svalutata
ma
acquista
anzi
una
sua
autonomia
e un
suo
significato
specifico
all’interno
dell’arte
in
generale
come
“narrazione
dei
fatti”.
L’arte,
infatti,
in
senso
più
ampio,
è
rappresentazione
indipendente
dai
fatti.
Il
bello
stile
e il
ritmo
di
una
narrazione
hanno
però
per
Croce
una
regola
fondamentale:
la
storia
che
narra
non
consente
astrazioni.
Altra
conclusione
alla
quale
il
filosofo
perviene
è
che
il
raccontare
storico
è
strettamente
connesso
al
problema
dell’essenza
della
verità.
L’esattezza
è un
dovere
e se
l’artista
non
può
lasciarsi
affascinare
dal
falso,
lo
storico
non
può
cadere
nell’immaginario.
Lo
storico
si
premunisce
contro
questa
eventualità
distinguendo
sempre
desidero
e
azione,
irreale
e
reale,
inesistente
ed
esistente.
Una
storia
che
non
sia
il
frutto
di
questa
continua
distinzione
tra
la
possibilità
e
l’azione
diventa
leggenda.
Pertanto
la
storia
rappresenta
sempre
le
azioni,
mentre
i
desideri
li
rappresenta
in
quanto
li
distingue
da
esse.
L’unico
punto
sul
quale
arte
e
storia
non
coincidono,
secondo
Croce,
è
proprio
nella
mancata
distinzione
in
arte
tra
desideri
e
azioni,
essa
è
pura
intuizione,
è
rappresentazione
di
sentimenti.
È
per
questo
che
,
nella
storia,
il
momento
della
rappresentazione
è
preceduto
da
diversi
passaggi:
spirito
d’osservazione,
ricerca,
critica,
interpretazione,
comprensione
storica.
Esiste
per
Croce
una
dignità
specifica
della
storia
che
deve
corrispondere
a
quella
che
anima
l’arte.
Si
tratta
della
schiettezza,
poiché
ciò
che
è
schietto
è
anche
vivo
e
bello.
Quello
che,
invece,
deve
rimanere
fuori
dalla
storia
è la
cronaca,
intesa
come
una
sequela
di
fatti.
Lo
spoglio
racconto
storico
deve
essere
supportato
dalla
riflessione
su
ciò
che
viene
intuito,
in
modo
tale
che
così,
sostiene
Croce,
il
racconto
ne
risulti
trasfigurato,
intellettualizzato.
Prima
di
dare
inizio
alla
sua
argomentazione
Croce
riporta
due
illustri
pareri:
quello
di
Droysen,
il
quale
ha
sostenuto
la
causa
della
storia
come
scienza
in
quanto,
a
parer
suo,
le
storie
che
si
dicono
artistiche
abbondano
di
retorica
indi
per
cui
fanno
male
alla
storia
stessa;
e
quello
di
Bernheim,
il
quale
sostiene
che
la
storia
è
una
scienza
e
non
un’arte
perché
quest’ultima
serve
solamente
per
ottenere
un
piacere
estetico,
mentre
la
scienza
ha
come
fine
quello
di
pervenire
a
una
conoscenza.
Croce
si
rende
ben
conto
come
dietro
questo
tipo
di
argomentazioni
si
celi
la
domanda
fondamentale
in
merito
alla
convinzione
comune
a
molti
che
la
storia
debba
avvalersi
dei
metodi,
dell’apparato
concettuale
o
del
linguaggio
di
altre
discipline.
La
tesi
crociana
perciò
va
in
cerca
dell’autonomia
della
storia.
All’interrogativo
se
la
storia
è
una
scienza
o
un’arte
Croce
risponde
facendo
appello
a
tre
concetti
di
arte,
scienza
e
storia,
dei
quali
l’autore
vuole
fornire
una
definizione
più
corretta
e
sui
quali,
a
parer
suo,
occorre
far
chiarezza.
Arte
è,
secondo
Croce,
tutto
ciò
che
ruota
attorno
al
bello.
Ma
allora
occorre
chiedersi
che
cosa
è il
bello.
Quattro
sono
state
le
risposte
principali
che
si
sono
date
a
questa
domanda:
quella
del
sensualismo
che
lo
ha
definito
il
momento
del
piacere;
quella
del
razionalismo,
che
lo
ha
identificato
col
Vero
o
col
Bene;
quella
del
formalismo,
che
lo
riscontra
nei
rapporti
formali
gradevoli;
quella
dell’idealismo
concreto,
che
lo
fa
consistere
nella
rappresentazione
o
nella
manifestazione
sensibile
dell’idea.
L’ultima
risposta
è
quella
che
Croce
definisce espressione di
ciò
che
nella
terminologia
hegeliana
verrebbe
chiamata
idea.
Di
conseguenza
bello
e
brutto
sono
strettamente
legati
alle
categorie
con
le
quali
noi
apper-cepiamo.
Nell’arte,
pertanto,
vi
sono
contenuti
alcuni
punti
di
vista
naturali
che
ci
sembrano
belli,
anche
se
per
Croce
la
definizione
“l’arte
rappresenta
il
bello”
deve
essere
rigettata.
In
questa
nuova
veste
l’arte
non
è
altro
che
la
rappresentazione
della
realtà.
E,
si
chiede
Croce,
la
storia
“non
è
forse
anch’essa
una
rappresentazione
della
realtà?”.
La
differenza
fondamentale
tra
Croce
e
Droysen
consiste
in
una
diver-sa
concezione
del
“senso
della
storia”.
La
storia
per
Droysen
va
svincolata
dalla
forma
della
narrazione
o
dai
fini
dello
storico,
l’autonomia
che
egli
ricerca
è
compresa
in
una
prospettiva
in
cui
la
storia
è
utile
a
“preparare
all’azione”,
pertanto
la
narrazione
deve
essere
distinta
dal
momento
“discussivo”.
Croce
sostiene,
invece,
che
la
storia
ha
un
carattere
preparante
ma
non
determinante,
come
lo
possiede
l’arte
o la
poesia
che
purificano
e
preparano
l’anima
ma
non
ne
determinano
le
scelte,
perché
tra
contempla-zione
e
fare
pratico
non
può
esservi
alcuna
identità.
Per
rispondere
a
chi
dovesse
obiettare
che
l’arte
rappresenta,
mentre
la
storia
studia
scientificamente,
l’autore
passa
a
esaminare
la
definizione
di
scienza.
La
definizione
che
ne
dà
Bernheim
è la
seguente:
“la
storia
è la
scienza
dello
svolgimento
degli
uomini
nella
loro
attività
di
esseri
sociali”.
Ma
Croce
rilancia
precisando
che
la
storia
non
spiega
che
cosa
è lo
svolgimento,
si
limita
a
raccontare
i
fatti
che
si
svolgono,
e
richiama
alla
memoria
le
pagine
di
Schopenhauer
in
cui
si
sosteneva
che
la
scienza
si
occupa
di
generi
mentre
la
storia
si
occupa
di
individui,
e
che
questa
è
priva
di
sistematicità
rispetto
a
quella.
Perdere
lo status di
scienza
per
la
storia
non
deve
essere,
quindi,
tanto
grave
perché
sempre
a
detta
di
Schopenhauer,
“la
storia
rimane
la
coscienza
dell’umanità”.
La
storia
non
è
scienza
dello
svolgimento
ma
possiamo
definirla,
secondo
Croce,
rappresentazione
dello
svolgimento
e,
in
quanto
tale,
si
può
assimilarla
all’arte
perché
“gli
storici
scrivono
le
cose
grandi
a’
dotti,
e i
pittori
le
dipingono
al
volgo
sulle
mura”.
Ma è
la
questione
mossa
da
Villari,
se
la
storia
fosse
scienza
o
arte,
che,
repentinamente,
spingerà
Croce
ad
approfondire
meglio
la
sua
rifles-sione
sulla
storia
e
che
gli
farà
dire
che
“ la
storia
deve
essere
arte
perché
la
scienza
è
dell’astratto,
e la
storia
è,
come
l’arte,
del
concreto”.
Qualcuno,
come
Bernheim,
gli
aveva
rimproverato
di
usare
un
concetto
troppo
stretto
di
scienza,
che
avrebbe
spostato
la
discussione
sulla
distinzione
tra
scienze
descrittive
e
scienze
raziocinanti,
la
quale
avrebbe
di
riflesso
comportato
la
separazione
tra
gli
storici
narratori,
i
quali
necessitano
di
una
intenzione
visiva
per
descrivere
e
raccontare,
e i
filosofi,
i
quali,
invece,
non
hanno
bisogno
di
vedere
per
intendere
la
ragione
delle
cose.
Questa
sarebbe
stata
una
netta
incoerenza
all’interno
dell’argomentare
crociano,
che
aveva
come
obiettivo
ultimo
una
storia
filosofica.
Ma
non
c’è
anche
da
tenere
presente
che
l’arte
non
è
contemplazione
pura,
che
non
può
essere
vincolata
a
ciò
che
rappresenta,
e
che,
pertanto,
essa
non
può
possedere
un
carattere
contenutistico?
Croce
risponde
a
questa
obiezione
precisando
che
vi
sono
due
diversi
modi
di
intendere
la
descrizione:
quello
del
classificare,
proprio
di
quegli
ambiti
disciplinari,
come
la
zoologia,
in
cui
si
cerca
il
generale
nel
particolare;
e il
secondo
che
è un
riprodurre
o
ritrarre
l’oggetto
nella
sua
individualità,
e
questo
è
proprio
della
narrazione.
La
storia
in
quanto
arte
appartiene
alla
classe
delle
arti
della
parola,
ma
essa
può
anche
esprimersi
attraverso
le
arti
figurative
come
la
scultura
o la
pittura,
pertanto
appartiene
a
diversi
generi
e il
suo
contenuto
può
essere
appreso
con
diversi
mezzi.
Tutto
quello
che
può
essere
definito
interessante
diventa
il
contenuto
dell’arte,
cioè
estetico.
Interessante
è
tutto
ciò
che
ruota
attorno
all’uomo,
che
a
lui
interessa.
E
anche
in
questo
senso
la
storia
non
può
che
essere
arte
e
non
scienza,
perché
mentre
la
scienza
ha
un
interesse
costante
non
così
l’arte
e la
storia
il
cui
interesse
muta
ed è
in
dipendenza
dallo
svolgimento
umano:
del
resto
noi
uomini
moderni
non
abbiamo
interessi
differenti
rispetto
ai
contemporanei
di
Omero
o di
Dante?
Le
arti
si
differenziano
per
genere
e
classe
in
base
al
loro
contenuto,
la
storia,
ad
esem-pio,
si
occupa
e
riguarda
lo storicamente
interessante,
che
non
è
altro
ciò
che
è
realmente
accaduto.
Questa
differenza
è
visibile
anche
nei
principi
che
muovono
il
poeta
e lo
storico.
Il
primo
è
mosso
soltanto
dal
principio
del
collegamento
estetico,
il
secondo
è
mosso
oltre
a
questo
dal
principio
della
causalità
reale.
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