N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
SAMURAI
Guerrieri entrati nel mito
di Massimo Manzo
Ogni
cultura
coltiva
il
mito
del
guerriero
perfetto.
Ancora
oggi,
questo
mito
in
Giappone
è
simboleggiato
dai
samurai.
Immagini
viventi
dei
valori
guerrieri,
celebrati
in
ogni
modo
attraverso
l’arte,
la
letteratura
e il
cinema,
questi
eccezionali
combattenti
sono
stati
per
quasi
mille
anni
l’emblema
delle
più
nobili
virtù
militari
del
Giappone
antico.
Nel
lunghissimo
periodo
del
feudalesimo
giapponese,
durato
dall’VIII
fino
alle
soglie
del
XIX
secolo
d.C.,
essi
hanno
giocato
un
ruolo
fondamentale
nelle
guerre
e
nei
secolari
conflitti
tra
i
vari
daimyō
(signori
feudali),
soprattutto
tra
il
trecento
e il
seicento.
Nati
come
“guardia
armata”
al
servizio
delle
grandi
famiglie
di
feudatari,
i
samurai
appartenevano
ad
una
delle
due
caste
aristocratiche
dell’antico
Giappone,
quella
dei
guerrieri.
Educati
fin
da
giovanissimi
all’arte
della
guerra,
affrontavano
un
addestramento
molto
duro,
che
li
rendeva
particolarmente
abili
nel
maneggio
delle
armi.
Ottimi
cavalieri,
imparavano
a
tirare
con
l’arco
(una
delle
loro
armi
preferite)
e a
duellare
con
la
celebre
katana,
la
lunga
spada
ricurva
a
due
mani,
che
ricevevano
simbolicamente
già
a
tredici
anni
durante
una
cerimonia
chiamata
Genpuku.
Oltre
ad
essere
temibili
combattenti,
però,
i
samurai
venivano
istruiti
nel
campo
delle
arti
e
della
cultura,
aspetti
ritenuti
essenziali
per
completare
la
loro
formazione.
Il
rigido
codice
di
comportamento
al
quale
erano
soggetti
fu
definito
Bushido,
ovvero
“morale
del
guerriero”
e
raccoglieva
un
vasto
insieme
di
precetti
che
spaziavano
dalle
norme
da
seguire
in
battaglia
e
nei
duelli
fino
al
modo
di
gestire
le
relazioni
sociali.
Pur
richiamando
concetti
noti
e
praticati
già
nell’VIII
secolo
d.C.,
il
Bushido
cominciò
ad
essere
compiutamente
codificato
solo
nei
primi
decenni
del
seicento,
ad
opera
del
filosofo
e
stratega
Yamaga
Soko
(1622-85),
il
quale
vi
inserì
alcune
nozioni
proprie
del
confucianesimo.
Capisaldi
essenziali
del
codice
erano
il
fortissimo
senso
del
dovere
e la
fedeltà
al
proprio
signore,
da
perseguire
fino
all’estremo
sacrificio
attraverso
il
culto
dell’onore,
della
giustizia
e
del
rispetto
verso
il
prossimo.
In
un’ottica
di
esaltazione
del
coraggio
e
sprezzo
della
morte,
il
samurai
era
disposto
a
suicidarsi
pur
di
evitare
la
sconfitta.
E il
suicidio
rituale,
nelle
forme
del
seppuku,
o
taglio
dello
stomaco,
diveniva
un
mezzo
di
espiazione
delle
proprie
colpe.
Se a
ciò
si
aggiunge
lo
stile
di
vita
umile
e
frugale
predicato
dal
Bushido,
il
samurai
assomigliava
molto
ad
un
filosofo-guerriero,
dedito
sia
al
combattimento
che
alla
meditazione.
Nella
seconda
metà
dell’ottocento,
con
la
fine
del
feudalesimo
e la
restaurazione
del
potere
centrale
dell’imperatore,
il
codice
venne
adattato
alla
nuova
struttura
politica
e
sociale
giapponese,
assumendo
un’impronta
fortemente
nazionalista.
Mentre
scompariva
la
casta
dei
guerrieri,
infatti,
il
sorgere
di
uno
Stato
centralizzato
consentì
di
allargare
l’applicazione
dei
suoi
principi
a
tutta
la
popolazione.
La
cieca
fede
nella
nazione
e
nell’imperatore
ne
divennero
così
il
fulcro.
Il
Bushido
fu
per
secoli
una
sorta
di
“Bibbia”
del
guerriero.
Tuttavia
esistono,
nella
storia
giapponese,
dei
samurai
che
se
ne
discostarono,
raggiungendo
comunque
fama
e
gloria.
Tra
questi
rimane
celebre
il
leggendario
Miyamoto
Musashi
(1584
–1645),
considerato
da
molti
il
più
grande
schermitore
giapponese
di
tutti
i
tempi.
Vissuto
a
cavallo
tra
il
XVI
e il
XVII
secolo,
Musashi
è un
personaggio
unico
nel
suo
genere.
Combattente
formidabile,
ma
anche
artista
e
scrittore,
egli
teorizzò
un
nuovo
modo
di
concepire
la
figura
del
guerriero,
spesso
contrapposta
a
quella
diffusa
fino
ad
allora
nella
cultura
nipponica.
Dopo
aver
partecipato
da
giovanissimo
alle
guerre
feudali
del
suo
paese,
Musashi
passò
gran
parte
della
sua
esistenza
in
giro
per
il
Giappone,
sfidando
in
numerosi
duelli
i
più
forti
samurai
del
tempo
e
uscendone
sempre
vittorioso,
grazie
all’utilizzo
di
tecniche
di
combattimento
“non
ortodosse”.
Rompendo
quelli
che
sembravano
dei
tabù
inviolabili
del
Bushido,
come
il
rispetto
della
puntualità,
egli
riusciva
a
minare
l’equilibrio
psicologico
degli
avversari,
infliggendo
loro
sonore
umiliazioni.
La
sua
opera
principale,
nota
come
“il
libro
dei
cinque
anelli”,
è
una
summa
del
suo
pensiero
strategico,
tutt’oggi
ritenuta
un
classico
del
genere,
presa
a
modello
persino
dai
manager
e
dagli
uomini
d’affari
occidentali.
“Rispetta
gli
dei,
ma
non
contare
su
di
loro”
è
uno
dei
suoi
precetti
fondamentali.
Impregnato
di
filosofia
Zen,
lo
scritto
sostiene
che
gli
elementi
fondamentali
per
sconfiggere
i
propri
nemici
siano
l’autocontrollo
e la
conoscenza
della
psicologia
degli
avversari.
Solo
anticipando
le
mosse
del
nemico
lo
si
potrà
intimorire,
cogliendolo
di
sorpresa.
Morto
in
solitudine
dopo
essersi
ritirato
dal
mondo,
Musashi
entrò
nella
leggenda.
Insieme
a
lui,
l’intera
epopea
dei
samurai
si
trasformerà
presto
da
storia
in
mito.