N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
STORIA
DEL
RESTAURO
LAPIDEO
La
percezione
dell’antico
nel
corso
dei
secoli
–
Parte
II
di
Maria
Laura
Corradetti
La
storia
del
restauro,
in
effetti,
ha
avuto
un
andamento
contraddittorio
e
altalenante,
non
solo
per
come,
di
volta
in
volta,
si
impostava
il
rapporto
con
l’antico
da
cui
talora
dipese
la
negligenza
su
tutto
ciò
che
apparteneva
a
periodi
storici
più
recenti
(oppure
che
non
godevano
di
particolare
predilezione),
ma
per
la
discrepanza
rilevabile
spesso,
in
uno
stesso
personaggio,
tra
teorie
professate
e
soluzioni
adottate,
e
per
la
coesistenza
di
correnti
di
pensiero
rivali
o
che,
se
non
altro,
portavano
a
operatività
diverse.
Infatti,
se
Cavaceppi
raccomandava
che
l’integrazione
si
congiungesse
all’antico
senza
levigare
le
fratture
(adattandosi
al
profilo
originale
senza
ritoccarlo)
e le
parti
corrose
(lasciando
perciò
scabra
l’epidermide
marmorea,
rendendo
distinguibile
l’autenticità
delle
parti
originali),
Francesco
Carradori,
più
giovane
di
una
trentina
d’anni,
nelle
sue
Istruzioni
elementari
per
gli
studiosi
della
Scultura
proponeva
ancora
la
pratica
di:
«[…]
tagliare
tutti
i
contorni
delle
rotture,
a
filo
più
retto
che
sia
possibile,
e vi
si
fa
poi
un
taglio
nel
mezzo
della
grossezza,
a
guisa
di
cassa,
con
un
buco
nel
centro
per
il
sostegno
che
vi
si
ha
da
porre»
(F.
Carradori,
Istruzione
elementare
per
gli
studiosi
della
scultura,
riproduzione
anastatica
a
cura
di
G.C.
Sciolla,
Treviso,
1979,
p.
XXVIII).
In
Carradori
la
pulitura
prevedeva,
come
al
solito,
sistemi
più
o
meno
energici:
«Trattandosi
di
dover
restaurare
un
pezzo
di
Scultura
antica,
che
sia
coperta
di
tartaro,
o
altro
sudiciume,
e si
trovi
mancante
di
alcuna
delle
sue
parti,
esaminata
la
qualità
del
sudiciume,
prima
di
tutto
si
tenta
di
toglierlo
con
acqua
pura,
e
con
polvere
di
marmo,
o
rena
fine,
per
mezzo
di
pennelli,
capecchio
e
stecche
di
legno.
Se
così
non
riesce,
si
ricorre
alle
acque
forti
più
o
meno
potenti,
e
con
scalpelli
ed
altri
piccoli
ferri
si
vanno
diligentemente
scalzando
le
parti
tartarose,
dopo
averle
bagnate
con
tali
acque.
Indi
si
lava
subito
da
per
tutto
con
acqua
pura;
e
con
stecche
di
legno,
polvere
di
marmo,
e
pomice
ancora,
si
ripassa
con
diligenza
su
le
parti
medesime,
per
così
renderle
egualmente
pulite.
Nel
caso
che
il
sudiciume
provenga
da
mero
fumo,
o
altra
consimile
cosa,
può
essere
sufficiente
lavare
il
marmo
con
una
saponata,
per
mezzo
di
granatini,
pennelli
e
spugne,
o
può
anche
farsi
uso
di
semplice
acqua
pura
con
polvere
di
marmo»
(F.
Carradori,
Istruzione…op.
cit,
p.
XXVIII).
Perciò
per
smorzare
il
contrasto
tra
il
vecchio
e il
nuovo,
suggerisce
una
sua
ricetta
che
non
diverge
molto
da
quelle
in
uso
due
secoli
prima:
«A
fine
poi
di
uniformare
nel
colore
al
marmo
antico
il
moderno,
si
dà a
questo
una
patina
con
una
tinta
calda,
composta
di
Filiggine
di
cammino,
della
più
soffice
e
leggera,
che
sì
fa
fondere,
e
bollire
nell’orina
umana,
replicandola
più
volta,
sin
che
non
vedasi,
allorché
è
asciutta,
che
combini
esattamente
nel
colore
dell’antico.
Alle
volte
ancora,
per
meglio
combinare
con
le
macchie
del
marmo
antico,
si
rende,
necessario
a
questa
tinta
di
aggiungerci
anche
un
poco
d’inchiostro»
(F.
Carradori,
Istruzione…op.
cit,
pp.
XXIX-XXX).
Come
detto,
nella
pratica
Cavaceppi
non
fu
così
ligio
ai
suoi
precetti.
Sebbene
nei
suoi
scritti
sorvolasse
sugli
aspetti
tecnici
della
sua
metodologia,
alcuni
studi
concludono
che
nella
pratica
del
restauro
non
sia
stato
così
riottoso
a
segare
i
marmi
autentici
e a
servirsi
anch’egli
di
ferri
e
delle
acque
forti
per
eliminare
le
incrostazioni
di
«tartaro»
e
degli
strati
di «vellutello»
(C.
Bartoli,
Bartolomeo
Cavaceppi
famoso
scarpellino
e i
restauri
per
il
Museo
Sacro
di
Benedetto
XIV,
in
Bartolomeo
Cavaceppi
scultore
romano…
op.
cit.).
Questo
è il
periodo
in
cui
per
assicurare
un
buon
lavoro
nell’inserzione
delle
parti
moderne
su
quelle
antiche
si
formò
la
figura
professionale
del
«commettitore»,
mentre
quella
dei
«lustratori»
era
una
categoria
esistente
fin
dall’antichità.
Nei
vari
secoli,
per
la
pulitura
si
sono
utilizzati
molti
prodotti,
quali
la
carta
vetrata,
la
pietra
pomice,
polveri
abrasive,
la
raschietta,
acque
forti,
ecc.,
insomma
metodi
molto
energici
che
con
difficoltà
potevano
essere
controllati
nella
loro
funzione,
soprattutto
in
un
periodo
in
cui
mancavano
gli
strumenti
scientifici
e
uno
sviluppo
delle
conoscenze
per
segnare
il
distinguo
tra
un
deposito
di
sudicio
e
una
patina.
Se
l’operazione
di
«lustratura»
è
talora
fatta
coincidere
nella
terminologia
con
quella
di
«pulitura»,
in
realtà
si
tratta
di
una
pulitura
diversa
da
quella
modernamente
intesa
(cioè
limitata
all’eliminazione
di
depositi
di
varia
natura
che
possono
nuocere
alla
conservazione
del
manufatto
o
che
ne
possono
mortificare
il
valore
artistico).
La
lustratura
è
infatti
un
insieme
di
operazioni
che
vanno
da
una
asportazione
dello
sporco,
alla
levigatura
del
modellato
e
sua
patinatura.
Tant’è
che
«La
lustratura
rappresentava
evidentemente
un’operazione
tanto
importante,
quanto
l’indeterminatezza
del
lessico
ne
rende
oggi
difficile
una
precisa
definizione
dal
punto
di
vista
tecnico.
Quanto
l’operazione
fosse
delicata
è
confermato
da
un
passo
dell’Encyclopédie
[…].
Il
testo
francese
non
forniva
alcuna
indicazione
riguardo
la
tecnica
di
esecuzione,
precisando
anzi
che
si
trattava
di
un
procedimento
arbitrario,
senza
alcuna
regola,
affidato
alla
scelta
personale
di
ciascun
artista»
(C.
Piva,
Restituire
l’antichità…
op.
cit.,
p.
152).
Tra
i
prodotti
dei
lustratori
c’erano
gli
abrasivi
(per
esempio
la
pietra
pomice
o lo
smeriglio
di
marmo),
la
cera
(applicata
sulle
superfici
con
uso
di
stracci
per
dare
un
effetto
lucido),
e,
talvolta,
il
mastice,
usato
come
medium
per
la
realizzazione
di
una
vernice
trasparente
colorata
con
pigmenti,
che
pare
confermata
indirettamente
dall’Encyclopédie
alla
voce
«mastic».
Interventi
richiesti
per
fini
estetici
che
però,
consapevolmente
o
no,
partecipavano
alla
tenuta
conservativa
delle
superfici
levigate
a
dispetto
di
quelle
scabre.
Le
trasformazioni
culturali
si
palesano
con
scarti
di
pochi
anni.
Al
riguardo
è
sufficiente
confrontare
l’opinione
di
Crespi
per
la
scultura
con
quanto
scriveva
un
altro
pittore,
nato
una
ventina
di
anni
dopo,
Giovanni
Battista
Casanova,
fratello
del
famoso
Giacomo
che,
probabilmente
anche
per
aver
vissuto
in
prima
persona
l’emozione
delle
scoperte
archeologiche
vesuviane
(fu
disegnatore
per
la
Regia
Stamperia
delle
antichità
a
Ercolano
e
Pompei),
nel
suo
Discorso
sopra
gl’antichi,
e
varj
monumenti
loro
per
uso
degl’Alunni
dell’Elettoral
Accademia
delle
Belle
Arti
di
Dresda
rimarcava
quanto
non
fosse
scontato
metter
mano
su
una
statua.
Infatti,
il
rigore
filologico
e
l’abilità
tecnica
annullava
la
possibilità
che
un
unico
operatore
fosse
capace
di
tanto,
e
criticava,
precorrendo
l’orientamento
ottocentesco,
la
mancata
riconoscibilità
del
restauro.
Per
Francesco
Milizia
addirittura
il
restauro
non
poteva
che
peggiorare
e
mutilare
concettualmente
ed
esteticamente
l’opera
antica:
«[…]
gambe,
braccia,
mani
sono
false,
cioè
ristauri
moderni…
ma
quel
naso
moderno
fa
rabbia…
ma
sembra
ancora
che
la
sua
morbidezza
venga
offesa
da
quella
aggiunta…ecc.»
(Monumenti
antichi
per
l’anno
1805,
p.
CXXVII,
in
M.
Cagiano
de
Azevedo,
Il
gusto…
op.
cit.,
pp.
50-51).
Rispetto
alla
concezione
didattica
delle
integrazioni,
si
può
prendere
a
segno
di
riconoscimento
di
questa
nuova
posizione
di
rottura,
che
tuttavia
ritrova
nel
culto
delle
rovine
praticato
da
artisti
e
intellettuali
del
Settecento
una
certa
continuità,
d’intesa
anche
con
la
cultura
romantica
dei
primi
dell’Ottocento
da
cui
la
concezione
dell’irripetibilità
dell’atto
creativo,
l’anno
1816,
cioè
quando
la
Commissione
Pontificia
vincolò
all’assenza
di
restauri
integrativi
l’acquisto
di
nuove
opere
che
andavano
a
compensare
le
recenti
requisizioni
napoleoniche
seguite
al
trattato
di
Tolentino.
E
Canova,
sicuramente
influenzato
nelle
sue
riflessioni
dalla
visione
diretta,
nel
1815
a
Londra,
dei
marmi
fidiaci
del
Partenone
per
i
quali
lui
stesso
aveva
decretato
la
necessità
della
non-integrazione,
nominato
da
Pio
VII
Ispettore
generale
delle
Antichità
e
Belle
Arti,
avendo
emanato
il
precedente
decreto,
con
un’altra
circolare
ne
allargava
l’efficacia
anche
nel
settore
privato,
sancendo
che
si
dovesse
ottenere
l’autorizzazione
per
qualsiasi
restauro
di
antichi
monumenti.
Nonostante
questo,
in
un
periodo
in
cui
ci
fu
uno
sviluppo
dell’editoria
specializzata
collegata
al
mercato
e
agli
scavi
delle
opere
d’arte
greche
e
romane,
la
pulitura
e le
integrazioni
erano
operazioni
imprescindibili
per
la
loro
immissione
nel
circuito
antiquario
e
per
la
loro
diffusione
a
mezzo
stampa
da
parte
degli
eruditi.
Anche
il
processo
che
condusse
alla
critica
del
restauro
integrativo
non
fu
lineare
e
costante.
Dapprima
fu
fenomeno
di
nicchia
riservato
ai
musei
che
ben
poco
condivideva
con
il
gusto
dei
collezionisti.
Soppesare
quanto
numerosi
e
pesanti
siano
stati
i
rimaneggiamenti
sulle
opere
lapidee,
dimostra
quanto
ingenuo
possa
essere
stato,
con
i
de-restauri
compiuti
a
metà
del
secolo
scorso,
il
tentativo
di
riportarle
alla
forma
primigenia,
soprattutto
quando
le
fratture
venivano
pareggiate
e le
lacune
del
modellato
regolarizzate
per
i
nuovi
incassi.
L’impostazione
scientifica
degli
studi
portò
a
scalzare
false
convinzioni,
quale
la
visione
neoclassica
di
una
architettura
e
una
statuaria
antiche
ineluttabilmente
candide
e
immacolate,
certamente
influenzate
da
uno
studio
dei
modelli
dell’arte
antica
condotto
attraverso
calchi
in
gesso,
che
aveva
in
precedenza
sdoganato,
neanche
ce
ne
fosse
stato
bisogno,
una
certa
disinvoltura
nella
loro
pulitura.
È
quanto
si
verificò,
ad
esempio,
sotto
la
guida
di
Winckelmann
per
la
collezione
di
antichità
del
Cardinale
Albani,
dove
«[…]
le
opere
d’arte
che
la
compongono,
esclusivamente
sculture,
furono,
tutte
o
quasi,
levigate,
polite,
lucidate
al
fine
di
mettere
in
evidenza
il
candore
della
materia
che
le
costituiva»
(M.
Cagiano
de
Azevedo,
Il
colore
nella
antichità,
in «Aevum:
Rassegna
di
scienze
storiche
–
linguistiche
–
filologiche»,
anno
XXIII,
n.
28,
Milano,
1954,
p.
152).
La
querelle
sulla
policromia
della
statuaria
antica,
apertasi
nel
1814
con
l’opera
di
Quatremère
de
Quincy,
Le
Jupiter
Olympien,
ou
l’art
de
la
sculpture
antique
considerée
sous
un
nouveau
point
de
vue,
sarà
con
fatica
ma
progressivamente
risolta
con
l’accettazione
delle
prove
inconfutabili
riscontrate
su
molte
opere.
Per
Cavalcaselle,
uno
dei
fondatori
della
moderna
storiografia
artistica,
il
restauro
non
doveva
essere
un
restauro
stilistico
(cioè
un
rifacimento
mimetico
delle
parti
mancanti
riproposte
nello
stile
dell’opera),
ma
coincidere
con
l’idea
di
conservazione:
la
lacuna
in
una
opera
d’arte
acquistava
una
sua
valenza
nel
suo
non
occultamento,
in
quanto
garantiva
la
comprensione
dell’opera
artistica
non
rimaneggiata.
In
sostanza
la
metodologia
filologica,
che
sino
a
quel
momento
aveva
favorito
un
proliferare
di
copie
disseminate
nelle
grandi
collezioni
aristocratiche,
applicata
alle
integrazioni
era
giunta,
nella
sua
maturazione
ideologica,
a
rifiutarle
per
gli
stessi
suoi
principi,
in
virtù
di
un
diverso
significato
che
si
dava
al
concetto
di
«autentico».
Al
restauro
integrativo
si
cominciava
ad
associare
il
sospetto
della
falsificazione,
il
frammento
era
testimone
di
uno
stato
originario
non
corrotto
da
manomissioni.
Non
a
caso
il
Louvre
decise
di
non
integrare
la
Venere
di
Milo,
acquistata
negli
anni
Trenta
dell’Ottocento,
e la
Nike
di
Samotracia,
giunta
negli
anni
Sessanta,
e
così
tutte
le
opere
arrivate
dagli
scavi
dell’Egitto
e
dell’Asia
Minore.
C’è
da
dire
però
che,
sul
fronte
della
prassi,
si
continuavano
a
ripetere
gli
stessi
errori:
per
far
riacquistare
una
nuova
freschezza
alle
sculture,
ancora
capitava
di
levigarne
la
superficie
con
abrasivi,
oppure
con
spazzole
in
ferro
si
asportava
lo
sporco
e
con
un
sol
gesto
se
ne
decorticava
i
volumi.
Camillo
Boito,
che
elaborò
una
teoria
del
restauro
che
si
prefiggeva
la
riconoscibilità
dell’intervento,
contemperante
il
meglio
di
Eugène
Emanuel
Viollet-le-Duc
(di
cui
ammirava
il
rigore
scientifico)
e di
John
Ruskin
(da
cui
riprese
l’ammirazione
per
i
segni
del
tempo
visibili
sui
monumenti),
alla
conferenza
tenutasi
in
occasione
dell’Esposizione
di
Torino
del
1884
intitolata
I
restauratori,
pronunciava
parole
che
non
lasciavano
dubbi
su
quale
fosse
il
suo
intendimento.
Anche
nel
caso
di
un
restauro
ben
fatto
e
apparentemente
insignificante,
come
la
reintegrazione
di
un
naso:
«A
me,
confesso,
ripugna
anche
in
questa
occasione,
anche
trattandosi
di
un
restauratore
insigne,
di
lasciarmi
ingannare.
Il
restauratore,
alla
stretta
dei
conti,
mi
dà
la
fisionomia
che
gli
piace;
ed
io
voglio
proprio
l’antica,
la
genuina,
quella
che
è
uscita
dallo
scarpello
dell’artista
greco
o
romano,
senza
aggiunte
e
senza
abbellimenti.
L’interprete,
sia
pure
grandissimo,
mi
riempie
di
fieri
sospetti.
In
un
sol
caso
il
rappezzo
può
sembrare
tollerabile,
anzi
qualche
volta
desiderabile:
nel
caso
che
della
statua
o
del
ritratto
ci
fossero
altri
esemplari
sicuri
e
completi,
o
per
lo
meno
medaglie
chiare
o
cammei
evidenti
Teoria
generale
per
la
scultura:
RESTAURI
NIENTE,
E
BUTTAR
VIA
SUBITO,
SENZA
REMISSIONE
TUTTI
QUELLI
CHE
SONO
STATI
FATTI
SINORA,
RECENTI
O
VECCHI»
(C.
Boito,
I
restauratori,
Firenze,
1884,
pp.
17-18).
La
tendenza
con
intenti
storicistici
propria
della
scuola
filologica
tedesca,
che
aveva
preso
le
mosse
alla
fine
degli
anni
Trenta
del
XIX
secolo,
si
intrecciava
con
una
corrente
di
pensiero
di
natura
estetica
affascinata
dal
frammento
in
sé
per
sé,
percepito
non
più
come
un
residuo,
ma
come
parte
inestimabile
di
un
tutto.
Si
andava
infatti
introducendo
quella
“cultura
del
frammento”,
oggetto
di
studio
da
parte
di
Orietta
Rossi
Pinelli,
che
non
era
un
fenomeno
relegato
al
restauro,
ma
permeava
ogni
forma
di
sapere.
Vero
modello
culturale,
affermatosi
poi
nel
corso
del
XX
secolo,
ricercava
nel
frammento
lo
spirito
autentico
liberato
dalle
concrezioni
del
passato.
Prima
che
questa
visione
“purista”
giungesse
alla
apoteosi
con
i
de-restauri
iconoclastici
degli
anni
Cinquanta-Sessanta
del
Novecento,
ancora
fino
agli
anni
Venti
si
procedeva
cautamente
in
questa
direzione
e
sempre
in
ambito
museale.
Solo
quando
mutarono
gli
orizzonti
culturali
del
pubblico
colto
anche
il
de-restauro
entrò
trionfalmente
nella
nuova
formula
concettuale.
Solo
negli
ultimi
decenni
del
XX
secolo
si è
assistito
a
una
decisa
inversione
di
tendenza:
«[…]
dagli
anni
Settanta
ad
oggi,
cercherò
di
sintetizzare,
in
una
sorta
di
ordine
cronologico,
il
succedersi
di
quegli
orientamenti
culturali
che
hanno,
per
qualche
verso,
registrato
una
mutazione
nelle
metodologie
di
intervento.
All’ampia
condivisione
dei
valori
espressi
dall’estetica
del
frammento,
egemoni
dal
secondo
dopoguerra,
è
seguita,
già
negli
anni
Ottanta,
una
fase
ispirata
ad
un
sempre
più
convinto
atteggiamento
di
prudenza,
cautela,
riflessione
colta,
con
forti
accenti
sulla
centralità
della
prevenzione.
Sin
dai
primi
anni
Novanta
si
poteva
registrare
una
caduta
verticale
nelle
scelte
di
derestauro,
giustificato,
essenzialmente,
in
quei
casi
in
cui
si
riscontrava
la
presenza
dell’originale
al
di
sotto
dei
rifacimenti
storici.
Infine,
come
accennavo
da
principio,
in
questi
ultimi
anni,
si è
venuta
rafforzando
la
tendenza
ad
attribuire
una
grande
importanza
anche
all’unità
iconografica
dell’opera,
fino
a
giungere,
in
qualche
caso,
a
ri-restaurare
opere
derestaurate
nel
corso
del
XX
secolo,
soprattutto
di
scultura»
(O.
Rossi
Pinelli,
Verso
un’immagine
integrale:
derestauri
e
rirestauri
nelle
esperienze
contemporanee,
in
Il
corpo
dello
stile:
cultura
e
lettura
del
restauro
nelle
esperienze
contemporanee,
Roma,
2005,
p.
129).
Si
può
concludere
questo
rapido
excursus
affermando
che
il
restauro
non
potrà
mai
essere
fissato
in
una
formula
immutabile
che
rimanga
sempre
fedele
a se
stessa.
Infatti
appurato
che
lo
stile
di
un
restauro
dipende
da
una
determinata
convinzione
teorica,
è
altrettanto
vero
che
nulla
vieta
che
un
domani
si
impongano
altri
indirizzi.
Il
corollario
che
il
restauro
si
può
trasformare
nel
tempo,
in
parallelo
all’orientamento
culturale
che
lo
partorisce,
rimanendo
perciò
per
sua
natura
sempre
suscettibile
di
nuove
forme
e
contenuti,
pare
scontrarsi
con
la
sensazione
che
ormai
niente
di
nuovo
si
possa
aggiungere,
e
che
gli
orientamenti
ideologici
attuali
abbiano
esaurito
tutte
le
chiavi
di
lettura.
Ora,
benché
non
esista
un
riscontro
teorico,
negli
ultimi
anni
sembra
che
nel
concreto
stia
prendendo
mano
una
veduta
meno
intransigente
ai
limiti
posti
dal
pensiero
brandiano,
con
soluzioni
molto
più
libertarie.
Caterina
Bon
Valsassina:
«Di
recente
mi
ha
colpito
un
restauro
svolto
al
Quirinale.
Mancando
ai
lati
di
un
monocromo
del
Seicento
due
putti
reggenti
un
cartiglio,
si è
provveduto
a
una
reintegrazione.
In
passato
si
sarebbe
parlato
di
“falso”.
In
tutto
il
territorio
nazionale
si
stanno
proponendo
soluzioni
diverse,
creative,
anomale,
rispetto
ai
principi
che
credevamo
dati
per
assodati,
per
certi,
ancora
dieci,
cinque
anni
fa,
quando
ancora
mi
era
possibile
dirigere
personalmente
dei
restauri
–
cosa
che
non
mi è
più
concesso
fare.
C’è
bisogno
dunque
di
indagare
le
nuove
esperienze,
di
confrontarle,
per
il
momento
senza
giudicarle,
come
fossimo
dei
notai;
si
provvederà
soltanto
in
seguito
a
dedurne
dei
principi
teorici»
(C.
Bon Valsassina,
Introduzione,
in
Il
corpo
dello
stile…
op.
citata,
p.
13).