N. 12 - Dicembre 2008
(XLIII)
STORIA
DEL PCI
RECENSIONE
di Gianluca
Seramondi
Vi sono testi il cui
valore principale non risiede innanzitutto nella novità
della ricerca, dell’approccio o della problematica
affrontata, quanto, piuttosto, nella capacità di
diffondere, divulgare, in maniera sintetica ed
esauriente lo stato in cui si trovano gli studi intorno
ad un determinato argomento.
La divulgazione, in altri
termini, tratteggia una panoramica articolata di un
oggetto di studio offrendone, sebbene per grandi linee,
sia il ritratto a oggi più accreditato sia, insieme, i
discorsi che nel corso del tempo lo hanno eseguito,
apportandovi di volta in volta arricchimenti,
aggiustamenti, sfumature, ombre e luci.
Piuttosto che essere una pratica da affidare con cuor
leggero a volonterosi dilettanti di una disciplina –
come purtroppo capita ancora oggi-, la divulgazione è un
genere nel contempo letterario e scientifico il cui
obiettivo precipuo dovrebbe essere di condurre nella
prossimità delle cose stesse. La cui mission, in
altri termini, si compie nello fornire la mappa di un
determinato settore del reale; nell’indicare, di
conseguenza, le zone confinanti e i sentieri -
possibili, già percorsi o interrotti - che lo
attraversano; nel suggerire, infine, gli strumenti al
momento più adatti alla sua esplorazione. Lasciando
tuttavia al lettore la scelta se accontentarsi della
prossimità o se inoltrarsi nel cuore del territorio cui
consente di accedere agevolmente.
Nello stesso tempo, e proprio per questi motivi, l’atto
della divulgazione può essere a tutti gli effetti un
atto eminentemente pratico – per non dire politico -,
giacché il suo senso non si esaurisce nella fotografia
di un approdo della teoria ma si arricchisce, seppure
implicitamente, di una ferma presa di posizione nei
confronti della trama di pregiudizi, la cui fondatezza è
niente affatto scontata, che avvolge un particolare
oggetto di studio.
In questa prospettiva andrebbe letta la Storia del
Pci 1921-1991 di Albertina Vittoria, uscito nel 2006
per i tipi Carocci. La studiosa, docente di Storia
contemporanea all’Università di Sassari, tratteggia la
complessa storia del Partito comunista italiano in un
volume agevole e di facile lettura che, tuttavia, non
esita ad affrontare i nodi più problematici, e oggi più
rozzamente disputati, di quella storia.
Sono difatti ben precise
le direttrici che informano questa ricostruzione
storica: il rapporto con l’Unione Sovietica e con gli
organismi internazionali del comunismo, Comintern prima,
e Cominform poi; il rapporto mai interrotto e mai facile
con il Partito socialista; il dialogo costante, e anche
questo conflittuale, con gli intellettuali; l’azione
culturale condotta, per così dire, in prima persona; il
rapporto con la Democrazia cristiana.
Emerge un quadro del
Partito comunista italiano articolato, fitto di trame e
di contraddizioni, di forti spinte in avanti e di passi
falsi. Un quadro che, quantomeno, incrina l’immagine di
monolitismo che spesso gli si dipinge addosso.
Così, da un lato è innegabile che il rapporto con l’URSS
è stato improntato, fin dalla nascita del Partito
comunista d’Italia, ad una certa sudditanza ai suoi
dettami. Si pensi, per esempio, all’assunzione –
fallimentare - della linea politica elaborata dal VI
congresso del Comintern nell’estate del 1929, la quale
considerava «… alla stessa stregua fascismo e
socialdemocrazia [e] indicava nella socialdemocrazia
(per la quale si coniò il termine di “socialfascismo”)
l’ostacolo principale della rivoluzione ».
Oppure si ricordi la
decisione di Togliatti di giustificare l’invasione
sovietica dell’Ungheria nel 1956 adducendo come
motivazioni che non si può riconoscere «… il diritto di
insurrezione nei paesi di democrazia popolare » e che -
in un afflato di orgogliosa lealtà - « Si sta con la
propria parte anche quando questa sbaglia ».
Dall’altro, però, è altrettanto innegabile che il PCI si
è sempre battuto per una autonomia dei partiti comunisti
non sovietici e per un riconoscimento delle specificità
nazionali. Lo testimoniano l’elaborazione anche
gramasciana delle « vie nazionali al socialismo », la
linea togliattiana dell’«unità nella diversità» e,
infine, i berlingueriani « superamento dei due blocchi
militari [dunque] lo scioglimento del Patto atlantico e
di quello di Varsavia », insieme « all’eurocomunismo »
e, sul piano nazionale, alla auspicata « collaborazione
tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista,
cattolica » che si sarebbe articolata nella nota
strategia del « compromesso storico ».
Questa dialettica interna al PCI, in contrasto con il
principio organizzatore del cosiddetto « centralismo
democratico », comportò il dissenso e, in molti casi, la
fuoriuscita, volontaria o “consigliata”, di suoi pur
importanti esponenti – lo stesso Gramsci non condivise
certe adesioni acritiche alle strategie
dell’Internazionale. Certo favorì una fervente attività
culturale.
Quasi a voler tradurre nel
concreto della realtà quotidiana il concetto gramsciano
di « egemonia» , secondo cui vi è la « necessità per il
partito del proletariato di guadagnare – attraverso
l’opera degli intellettuali – il consenso delle classi
popolari prima della conquista del potere politico », il
PCI fu promotore di innumerevoli iniziative editoriali.
Per esempio « tra il 1953
e il 1955, aveva messo in piedi un significativo
apparato di riviste e periodici, alcuni con ampia
tiratura, che coprivano i settori più diversi, sia
quelli propriamente politici e propagandistici (da
“Rinascita”… a “Vie nuove”… al “Calendario del
popolo”...) sia quelli concernenti l’arte, il cinema,
l’economia, la cultura sovietica, la scuola, l’attività
sindacale, quella giovanile e quella delle donne
(“Notizie economiche”, “Riforma agraria”, “Critica
economica”, “Cinema nuovo”, “Realismo”, “La voce della
scuola democratica”, “la voce della donna”,
Avanguardia”, “Pioniere”, “Gioventù comunista”, per fare
qualche nome). [Mentre nel] campo dell’editoria, nel
1953 vennero unificate le sigle nate nel dopoguerra
negli Editori Riuniti ».
Un fuoco così massiccio ed esteso potrebbe fornire il
pretesto per far scivolare l’egemonia gramsciana
nell’egemonia come dominio e occupazione – innanzitutto
simbolica e poi anche reale – di tutti i settori della
vita culturale dell’Italia. E forse la tentazione di
questo scivolamento vi è stata. Ma deve essere
riconosciuto al PCI il merito di avere dato un forte
impulso alla vita “spirituale” dell’Italia del secondo
dopoguerra, di esserne stato uno dei centri propulsori,
uno stimolo e, perché no, anche un pungolo. Ne è un
“piccolo” esempio la battaglia per l’introduzione della
scuola media unica, che avrebbe consentito una
diffusione del sapere più omogenea ed estesa.
Non va infine dimenticato l’impegno del PCI durante la
Resistenza, alla quale innanzitutto fornì un modello di
azione stringendo nel 1934, e a dispetto delle
indicazioni Internazionaliste, «un patto di unità
d’azione contro il fascismo» con i socialisti di Nenni,
che di fatto favorì l’azione unitaria di tutte le
componenti dell’antifascismo durante la guerra di
liberazione.
Ma il PCI, poi, diede al
movimento partigiano un numero di uomini e di strutture
più consistente « rispetto a quella di altre forze
politiche antifasciste: su 1.090 brigate partigiane che
si costituirono durante la Resistenza, 575 furono quelle
a direzione comunista intitolate a Garibaldi.
Complessivamente alla fine del 1944 le Brigate Garibaldi
inquadravano 50.000 partigiani ».
Un impegno profondo,
diffuso e costoso in termini di vite umane, che permette
di comprendere l’attaccamento del PCI alla Resistenza,
la sua caparbia volontà di iscriverlo nella propria più
intima identità, di “monopolizzarne” l’eredità, quasi ci
si trovasse di fronte ad un evento dell’Inizio, un
evento dunque mitico.
La Storia del PCI di Albertina Vittoria,
corredata da una ricca e preziosa “Bibliografia
ragionata”, rappresenta, insomma, un testo importante
per rivolgere al passato nazionale un occhio più maturo
e riflessivo. Un testo, ribadisco, di divulgazione e
introduzione ma che si dimostra capace, forse proprio
per questa sua origina “umile”, di guidare il lettore in
una storia intrecciata e niente affatto lineare.
E, inoltre, di fare
pacata, garbata, ma critica e ferma chiarezza di una
storia su cui il frastuono delle voci contrarie “a
prescindere” e il mormorio della chiacchiera “oggettiva”
ha finito per alzare una cortina cui troppo spesso
acconsentono anche gli eredi più diretti. |