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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
L’inatteso “bis” della Celeste
Storia dei mondiali - IV
di Simone Valtieri
I
mondiali
di
calcio
del
1950
in
Brasile
dovevano
essere
quelli
della
riconciliazione.
Erano
i
primi
ad
essere
organizzati
nel
dopoguerra
e
persino
le
spocchiose
formazioni
britanniche,
che
nelle
precedenti
edizioni
avevano
fatto
a
meno
di
partecipare,
decisero
di
aderire
alla
manifestazione.
In
realtà
le
defezioni
sono
parecchie:
la
Germania,
ancora
non
affiliata
alla
Fifa
dopo
gli
eventi
bellici,
l’Austria,
la
Cecoslovacchia
e
l’Ungheria
sono
assenze
pesanti,
così
come
quella
rocambolesca
della
Francia,
qualificatasi
come
ripescata
ma
costretta
a
rinunciare
a
causa
di
una
logistica
eccessivamente
sfavorevole
per
i
mezzi
dell’epoca.
Il
sorteggio,
infatti,
avrebbe
costretto
la
nazionale
transalpina
a
due
partite
in
quattro
giorni
a
3500
chilometri
di
distanza
l’una
dall’altra.
Manca
anche
l’Argentina,
per
insanabili
incomprensioni
a
livello
federale
con
i
dirigenti
brasiliani,
ma
ci
sono
i
campioni
del
mondo
dell’Italia.
La
squadra
azzurra,
però,
non
si
presenta
all’appuntamento
nelle
migliori
condizioni.
Gli
imbattibili
giocatori
del
Grande
Torino,
che
da
soli
rappresentavano
la
quasi
totalità
della
formazione,
erano
scomparsi
neanche
un
anno
prima
nel
tragico
disastro
aereo
sulla
collina
di
Superga.
La
commissione
tecnica
federale
guidata
dal
presidente
Ferruccio
Novo
è
così
costretta
a
mettere
su
una
rosa
raffazzonata
che
si
dimostrerà
poco
competitiva,
non
tanto
per
la
qualità
dei
giocatori,
quanto
per
il
loro
scarso
affiatamento.
Inoltre,
lo
spossante
viaggio
di
diciotto
giorni
per
mare,
soluzione
adottata
proprio
sull’onda
emotiva
dalla
sciagura
torinese,
aveva
a
lungo
andare
logorato
i
giocatori.
Senza
contare,
inoltre,
che
tutti
i
palloni
portati
dietro
dall’Italia
erano
finiti
in
acqua
nel
giro
di
pochi
giorni,
durante
gli
improbabili
allenamenti
svolti
sul
ponte
della
nave.
La
Coppa
del
Mondo,
che
arriva
in
Sudamerica
nella
stiva
della
nave
dell’Italia,
viene
ribattezzata
“Coppa
Rimet”,
in
onore
del
presidente
della
Fifa
che
ebbe
il
merito
di
inventarla,
Jules
Rimet
(morirà
sei
anni
dopo)
e in
Brasile
può
essere
conquistata
definitivamente
soltanto
dagli
azzurri,
in
quanto
l’unica
nazionale
ad
averla
sollevata
già
due
volte.
Cambia
la
formula
del
torneo:
non
più
incontri
ad
eliminazione
diretta,
come
nei
due
fortunati
mondiali
vinti
in
precedenza,
ma
quattro
gironi
“all’italiana”
di
quattro
squadre
ciascuno
che
promuovono
le
vincitrici
al
prestigioso
girone
finale.
Gli
iscritti
sono
sedici
e le
defezioni
di
Scozia,
Turchia
e
India
(in
realtà
squalificata
perché
i
giocatori
pretendono
di
giocare
a
piedi
nudi!)
arrivano
troppo
tardi
per
poter
modificare
partite
e
calendari.
Succede
così
che
il
girone
dell’Italia
si
riduce
a
tre
sole
partecipanti,
quello
dell’Uruguay
addirittura
a
due.
Un
fattore
importante,
forse
determinante,
per
l’esito
del
campionato,
vista
la
freschezza
atletica
e
fisica
con
cui
la
nazionale
celeste
si
presenterà
al
girone
finale.
Le
partite
più
importanti
sono
disputate
nell’immenso
stadio
Maracanà
di
Rio
de
Janeiro,
la
cui
prima
pietra
era
stata
posata
soltanto
due
anni
prima
dell’inaugurazione,
avvenuta
24
giugno
1950
con
la
prima
partita
del
mondiale.
In
uno
stadio
ancora
in
costruzione,
scendono
in
campo
per
il
primo
match
del
gruppo
A il
Messico
di
Octavio
Vial
e la
Seleçao
brasiliana
guidata
da
Flavio
Costa.
Non
c’è
scampo
per
i
centroamericani
che
soccombono
pesantemente
per
quattro
reti
a
zero
contro
i
fenomeni
brasiliani.
Di
Ademir
(doppietta),
Jair
e
Baltazar
le
reti.
Il
secondo
incontro
dei
padroni
di
casa
finisce
clamorosamente
in
parità
contro
la
meno
quotata
Svizzera,
che
a
due
minuti
dalla
fine
sigla
il
gol
del
2-2
con
Fatton.
Questa
marcatura
inguaia
i
padroni
di
casa,
costretti
a
vincere
nell’ultimo
incontro
del
girone
contro
la
Jugoslavia,
ancora
a
punteggio
pieno
dopo
le
affermazioni
su
Messico
(4-1)
e
Svizzera
(3-0).
Il
1°
luglio
1950,
davanti
a
142
mila
spettatori
(record
di
pubblico
oggi
difficilmente
raggiungibile)
la
paura
di
non
farcela
per
i
sudamericani
dura
appena
quattro
minuti,
il
tempo
che
serve
ad
Ademir
per
realizzare
il
gol
dell’1-0.
Il
raddoppio,
che
sigilla
definitivamente
la
qualificazione,
arriva
nel
secondo
tempo
grazie
a
Zizinho,
bravo
a
insaccare
il
pallone
alle
spalle
del
portiere
jugoslavo
Vladimir
Beara.
Su
quest’ultimo
circola
un
aneddoto:
elegante
nei
movimenti
e
con
un
passato
da
ballerino,
Beara
non
era
considerato
una
cima.
Giunto
in
Brasile,
si
dice
abbia
mandato
una
cartolina
alla
madre
con
su
scritto:
“Cara
mamma,
sono
a
Rio,
è
una
città
molto
bella,
e io
sono
con
i
miei
compagni
da
gioco
e ti
scrivo
lentamente
perché
so
che
sei
anziana
e
non
riesci
a
leggere
velocemente”.
La
squadra
favorita
del
secondo
raggruppamento
è
l’Inghilterra,
quotata
dai
bookmakers
3 a
1
per
la
vittoria
finale,
in
pratica
seconda
solo
ai
brasiliani.
Gli
inventori
del
football
partecipano
per
la
prima
volta
a un
mondiale,
esordendo
al
Maracanà
il
25
giugno.
Contro
l’ostico
Cile
finisce
2-0
per
i
britannici,
che
quattro
giorni
più
tardi
si
presentano
a
Belo
Horizonte,
contro
i
cugini
statunitensi,
da
ovvi
favoriti.
Gli
Usa,
una
squadra
poco
più
che
dilettantistica,
arrivano
da
sette
sconfitte
consecutive
e
sono
quotati
addirittura
500
a 1.
Il
match
però
prende
una
piega
inattesa.
In
novanta
minuti
di
assedio
l’Inghilterra
non
riesce
a
segnare
e
s’infrange
ripetutamente
contro
il
muro
eretto
da
Frank
Borghi,
portiere
a
stelle
e
strisce
di
chiare
origini
italiane,
così
come
i
compagni
Pariani
e
Colombo,
tutti
e
tre
provenienti
da
un
quartiere
di
St.
Louis.
Al
36’
del
primo
tempo,
in
una
delle
rarissime
sortite
offensive
della
nazionale
americana,
è
Joe
Gaetjens,
un
ex
lavapiatti
di
origini
caraibiche,
a
portare
clamorosamente
in
vantaggio
gli
Stati
Uniti.
Il
punteggio
regge
clamorosamente
fino
alla
fine
e la
nazionale
inglese
esce
sconfitta
da
un’incontro
che,
se
rigiocato
altre
99
volte,
l’avrebbe
vista
probabilmente
vincente
in
ogni
occasione.
Sulla
partita
saranno
scritti
fiumi
di
parole
e
verrà
girato
anche
un
film
(“The
game
of
their
lives”
di
David
Anspaugh)
e
gli
americani,
sebbene
quella
rimarrà
la
loro
unica
affermazione
in
quei
mondiali,
saranno
accolti
da
trionfatori
al
rientro
in
patria.
Dell’eroe
della
partita,
Joe
Gaetjens,
si
perderanno
le
tracce
pochi
anni
dopo,
quando
nel
1964
la
famiglia
sarà
arrestata
dall’esercito
del
dittatore
haitiano
Doc
Duvalier
a
causa
del
suo
attivismo
politico.
Per
l’ultimo
match
contro
la
Spagna,
ancora
a
punteggio
pieno,
il
commissario
tecnico
inglese
Winterbottom
gioca
tutte
le
sue
carte,
schierando
anche
il
fuoriclasse
Stanley
Matthews,
tenuto
fino
a
quel
momento
precauzionalmente
a
riposo.
Gli
inglesi
non
riescono
però
a
superare
gli
iberici,
difesi
magistralmente
dal
portiere
Antonio
Ramallets
e
micidiali
a
colpire
in
avanti
con
Zarra.
L’1-0
porta
la
Spagna
direttamente
nel
girone
finale
dove,
oltre
al
Brasile,
l’attende
l’Uruguay,
che
nel
gruppo
D
della
prima
fase
aveva
l’unico
incontro
in
programma
contro
la
modesta
Bolivia
per
8-0
(clamoroso
poker
di
Juan
Alberto
Schiaffino
e
sigillo
finale
di
Alcide
Ghiggia).
E
l’Italia?
Il
mondiale
azzurro
dura
praticamente
novanta
minuti.
Nonostante
gli
svedesi
arrivassero
a
San
Paolo
dopo
una
nottata
di
viaggio
(il
giorno
prima
della
partita
con
i
campioni
del
mondo
in
carica
avevano
assistito
al
match
inaugurale
del
Brasile
a
Rio)
riescono
ad
imporsi
per
3-2
su
una
nazionale
sciupona
e
con
la
traversa,
su
tiro
di
Carapellese,
a
dargli
una
mano
nel
finale.
Proprio
di
Carapellese
e
Muccinelli
portano
la
firma
i
due
gol
azzurri.
A
nulla
servirà
la
vittoria
per
2-0
nell’ultimo
match
contro
il
Paraguay,
con
reti
di
Carapellese
e
Pandolfini,
visto
che
il
pareggio
per
2-2
degli
scandinavi
con
i
sudamericani
aveva
di
fatto
già
estromesso
l’Italia
dalla
qualificazione
(il
girone
si
era
ridotto
da
quattro
a
tre
squadre
per
le
defezioni
di
cui
si è
già
detto).
Il
caso
vuole
che
l’ultimo
incontro
in
programma
nel
raggruppamento
finale
sia
Uruguay-Brasile,
una
sorta
di
finale
non
ufficiale
in
un
girone
che
non
prevedeva
la
finalissima.
Infatti
le
due
formazioni
sudamericane
si
presentano
all’appuntamento
del
16
luglio
1950
allo
stadio
Maracanà
con
il
primo
ed
il
secondo
posto
in
classifica,
frutto
di
due
vittorie
impressionanti
per
il
Brasile
(7-1
con
la
Svezia
e
6-1
contro
la
Spagna)
e di
un
pareggio
(2-2
con
gli
iberici)
e
una
sofferta
affermazione
(3-2
sugli
svedesi
con
rimonta
nell’ultimo
quarto
d’ora)
per
l’Uruguay.
Svezia-Spagna,
gara
ininfluente
che
tuttavia
assegnava
il
terzo
posto,
finì
3-1.
Gli
eroi,
fino
a
quel
momento,
erano
stati
la
punta
Ademir
per
i
carioca,
con
9
reti
all’attivo
(poker
contro
la
Svezia)
e
trono
di
capocannoniere
già
prenotato,
e il
capitano
uruguagio
Obdulio
Varela,
con
un
solo
decisivo
gol
a
referto
(quello
del
2-2
contro
la
Spagna)
ma
con
doti
innate
da
trascinatore
sia
in
campo
che
fuori.
All’arbitro
inglese
Reader,
prima
della
finale,
Varela
toglierà
la
monetina
di
mano
dicendogli:
“Signor
arbitro,
dia
ai
brasiliani
la
consolazione
di
scegliere.
Saremo
noi
i
campioni
del
mondo”.
Nel
Brasile
gioca
anche
Thomaz
Soares
da
Silva
detto
Zizinho,
l’idolo
di
un
giovane
Pelé,
tanto
bravo
che
quando
contro
la
Jugoslavia
l’arbitro
gli
annulla
una
rete,
lui
ne
segna
una
identica
pochi
minuti
dopo,
scartando
lo
stesso
difensore
e
calciando
nello
stesso
angolo.
I
presupposti
per
una
partita
storica
ci
sono
tutti
e
l’irripetibile
cornice
di
203
mila
spettatori
è da
brividi.
Al
Brasile
in
linea
teorica
basta
il
pareggio,
avendo
in
classifica
un
punto
in
più
degli
avversari,
ma
la
formazione
verdeoro
scende
in
campo
per
dilagare.
È
quello
che
vuole
il
pubblico,
è
una
di
quelle
partite
dove
non
si
possono
fare
calcoli,
perché
a
spingere
la
squadra
c’è
un
popolo
intero.
L’inizio
dei
padroni
di
casa
è
scoppiettante
ma
poco
concreto
e la
scarsa
propensione
difensiva
lascia
ampi
spazi
al
contropiede
dell’Uruguay.
Al
18’
Miguez,
autore
dei
due
gol
in
rimonta
sulla
Svezia
che
avevano
tenute
aperte
le
speranze
celesti
di
conquistare
il
titolo,
coglie
il
palo.
Anche
il
Brasile
prende
un
legno
con
un
tiro
potentissimo
di
Jair
(soltanto
omonimo
del
giocatore
che
negli
anni
’60
giocherà
nella
“Grande
Inter”).
Per
tutto
il
primo
tempo
il
“metodo”
uruguayano
regge
agli
assalti
“sistema”
brasiliano,
ed
il
portiere
Maspoli
dimostra
di
essere
un
baluardo
insuperabile.
Così
almeno
fino
al
secondo
minuto
del
secondo
tempo,
quando
Friaça,
su
assist
di
Ademir,
realizza
il
gol
dell’1-0.
La
polveriera
del
Maracanà
esplode
e
duecentomila
tifosi
sono
già
sicuri
del
titolo,
l’Uruguay
non
può
rimontare
due
gol,
non
in
quel
contesto,
eppure…
Eppure
era
già
successo,
e
neanche
tanto
tempo
prima,
visto
che
l’anno
precedente
a
San
Paolo
la
formazione
celeste
si
era
imposta
in
amichevole
sul
Brasile
per
4-3,
stordendo
gli
avversari
con
tre
gol
in
17
minuti.
E
poi
l’Uruguay
aveva
fatto
l’abitudine
alla
rimonta,
già
avvenuta
con
Spagna
e
Svezia
nelle
altre
partite
del
girone
finale.
Ad
esserne
cosciente
più
di
tutti
è,
neanche
a
dirlo,
il
capitano
Varela,
che
dopo
il
gol
impiega
due
minuti
per
riportare
la
palla
al
centro
del
campo
e
far
sbollire
la
rabbia
ai
suoi
compagni.
Anche
la
stella
Schiaffino
è
forse
consapevole
che
la
rimonta
è
possibile,
anche
perché
nell’intervallo
era
stato
sbattuto
al
muro
dal
suo
capitano,
che
lo
aveva
visto
poco
motivato.
Fatto
sta
che,
a
guardarla
dall’esterno,
la
situazione
sembra
difficilmente
raddrizzabile:
gli
unici
a
crederci
sono
davvero
i
giocatori
uruguaiani,
e
nessun
altro.
Servono
le
ali
per
volare,
così
Ghiggia
e
Moran,
diciottenne
buttato
nella
mischia
nella
partita
più
difficile,
fanno
la
loro
parte.
Il
clima
si
fa
teso,
il
gioco
si
inasprisce
ma
l’arbitraggio
dell’inglese
Reader,
appunto…
all’inglese,
è
forse
il
metodo
più
efficace
per
dirigere
questa
partita.
Al
20’
della
ripresa
è
Alcide
Ghiggia
a
servire
uno
smarcato
Schiaffino
sottoporta
che
non
si
fa
sfuggire
la
rete
del
pareggio.
Il
Brasile
è
sotto
shock
e
per
l’Uruguay
arriva
il
momento
di
affondare
il
colpo
del
ko.
Ghiggia
scambia
due
volte
sulla
fascia
destra
con
Julio
Perez,
detto
“Pataloca”
(gambe
matte,
per
la
sua
abilità
nel
dribbling),
supera
in
corsa
il
difensore
Bigode
ed
insacca
alle
spalle
di
Moacir
Barbosa.
2-1
per
l’Uruguay.
A
poco
servono
i
frenetici
assalti
brasiliani
nei
minuti
finali:
Maspoli
compie
il
miracolo
su
tiro
di
Ademir
e le
speranze
verdeoro
si
infrangono
poco
dopo
su
un
calcio
d’angolo
andato
a
vuoto.
Scade
il
novantesimo.
In
Brasile
la
delusione
è
tremenda,
decine
di
persone
sono
colte
da
infarto,
le
strade
di
Rio
restano
deserte
e si
contano
addirittura
un
centinaio
di
suicidi,
anche
perché
molti
avevano
scommesso
sulla
vittoria
tutti
i
loro
averi.
Fu
proclamato
il
lutto
nazionale
e
quel
giorno
passò
alla
storia
come
il
“disastro
del
Maracanà”.
La
consegna
della
coppa
al
capitano
uruguaiano
Varela
sarà
effettuata
in
sordina
e
alla
svelta,
perché
tutte
le
autorità
brasiliane
si
erano
dileguate
ed
era
rimasto
sul
palco
il
solo,
imbarazzatissimo
Jules
Rimet
con
il
trofeo
in
mano.
E
non
verrà
suonato
neanche
l’inno
dell’Uruguay.
Il
responsabile
numero
uno
della
sconfitta
viene
trovato
nell’incolpevole
Barbosa,
roba
che
neanche
il
miglior
Zoff,
con
quel
sistema
di
gioco
scriteriatamente
sbilanciato
verso
l’attacco,
avrebbe
potuto
far
nulla
sui
contropiedi
avversari.
Per
anni
verrà
dimenticato,
nonostante
a
livello
di
club
avesse
già
vinto
e
avrebbe
continuato
ad
inanellare
un
successo
dopo
l’altro.
Nel
1993
gli
sarà
negato
di
assistere
ad
un
allenamento
della
nazionale
e
alla
stampa
dirà:
“In
Brasile
la
pena
più
lunga
per
un
crimine
è di
30
anni,
io
da
43
anni
pago
per
un
crimine
che
non
ho
commesso”.
Morirà
nel
2000
con
la
sola
pensione
minima
di
sussistenza.
Quanto
all’Uruguay,
rientrerà
in
casa
accolto
da
ali
di
folla
festanti
con
la
seconda
coppa
vinta
su
due
partecipazioni
e
con
il
commissario
tecnico
Juan
Lopez,
ultimo
inossidabile
difensore
del
“metodo”,
portato
in
trionfo.
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