.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

storia & sport


N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

L’inatteso “bis” della Celeste
Storia dei mondiali - IV

di Simone Valtieri

 

I mondiali di calcio del 1950 in Brasile dovevano essere quelli della riconciliazione. Erano i primi ad essere organizzati nel dopoguerra e persino le spocchiose formazioni britanniche, che nelle precedenti edizioni avevano fatto a meno di partecipare, decisero di aderire alla manifestazione. In realtà le defezioni sono parecchie: la Germania, ancora non affiliata alla Fifa dopo gli eventi bellici, l’Austria, la Cecoslovacchia e l’Ungheria sono assenze pesanti, così come quella rocambolesca della Francia, qualificatasi come ripescata ma costretta a rinunciare a causa di una logistica eccessivamente sfavorevole per i mezzi dell’epoca.

Il sorteggio, infatti, avrebbe costretto la nazionale transalpina a due partite in quattro giorni a 3500 chilometri di distanza l’una dall’altra. Manca anche l’Argentina, per insanabili incomprensioni a livello federale con i dirigenti brasiliani, ma ci sono i campioni del mondo dell’Italia. La squadra azzurra, però, non si presenta all’appuntamento nelle migliori condizioni. Gli imbattibili giocatori del Grande Torino, che da soli rappresentavano la quasi totalità della formazione, erano scomparsi neanche un anno prima nel tragico disastro aereo sulla collina di Superga. La commissione tecnica federale guidata dal presidente Ferruccio Novo è così costretta a mettere su una rosa raffazzonata che si dimostrerà poco competitiva, non tanto per la qualità dei giocatori, quanto per il loro scarso affiatamento. Inoltre, lo spossante viaggio di diciotto giorni per mare, soluzione adottata proprio sull’onda emotiva dalla sciagura torinese, aveva a lungo andare logorato i giocatori. Senza contare, inoltre, che tutti i palloni portati dietro dall’Italia erano finiti in acqua nel giro di pochi giorni, durante gli improbabili allenamenti svolti sul ponte della nave.

La Coppa del Mondo, che arriva in Sudamerica nella stiva della nave dell’Italia, viene ribattezzata “Coppa Rimet”, in onore del presidente della Fifa che ebbe il merito di inventarla, Jules Rimet (morirà sei anni dopo) e in Brasile può essere conquistata definitivamente soltanto dagli azzurri, in quanto l’unica nazionale ad averla sollevata già due volte. Cambia la formula del torneo: non più incontri ad eliminazione diretta, come nei due fortunati mondiali vinti in precedenza, ma quattro gironi “all’italiana” di quattro squadre ciascuno che promuovono le vincitrici al prestigioso girone finale. Gli iscritti sono sedici e le defezioni di Scozia, Turchia e India (in realtà squalificata perché i giocatori pretendono di giocare a piedi nudi!) arrivano troppo tardi per poter modificare partite e calendari. Succede così che il girone dell’Italia si riduce a tre sole partecipanti, quello dell’Uruguay addirittura a due. Un fattore importante, forse determinante, per l’esito del campionato, vista la freschezza atletica e fisica con cui la nazionale celeste si presenterà al girone finale. Le partite più importanti sono disputate nell’immenso stadio Maracanà di Rio de Janeiro, la cui prima pietra era stata posata soltanto due anni prima dell’inaugurazione, avvenuta 24 giugno 1950 con la prima partita del mondiale.

In uno stadio ancora in costruzione, scendono in campo per il primo match del gruppo A il Messico di Octavio Vial e la Seleçao brasiliana guidata da Flavio Costa. Non c’è scampo per i centroamericani che soccombono pesantemente per quattro reti a zero contro i fenomeni brasiliani. Di Ademir (doppietta), Jair e Baltazar le reti. Il secondo incontro dei padroni di casa finisce clamorosamente in parità contro la meno quotata Svizzera, che a due minuti dalla fine sigla il gol del 2-2 con Fatton. Questa marcatura inguaia i padroni di casa, costretti a vincere nell’ultimo incontro del girone contro la Jugoslavia, ancora a punteggio pieno dopo le affermazioni su Messico (4-1) e Svizzera (3-0). Il 1° luglio 1950, davanti a 142 mila spettatori (record di pubblico oggi difficilmente raggiungibile) la paura di non farcela per i sudamericani dura appena quattro minuti, il tempo che serve ad Ademir per realizzare il gol dell’1-0. Il raddoppio, che sigilla definitivamente la qualificazione, arriva nel secondo tempo grazie a Zizinho, bravo a insaccare il pallone alle spalle del portiere jugoslavo Vladimir Beara. Su quest’ultimo circola un aneddoto: elegante nei movimenti e con un passato da ballerino, Beara non era considerato una cima. Giunto in Brasile, si dice abbia mandato una cartolina alla madre con su scritto: “Cara mamma, sono a Rio, è una città molto bella, e io sono con i miei compagni da gioco e ti scrivo lentamente perché so che sei anziana e non riesci a leggere velocemente”.

La squadra favorita del secondo raggruppamento è l’Inghilterra, quotata dai bookmakers 3 a 1 per la vittoria finale, in pratica seconda solo ai brasiliani. Gli inventori del football partecipano per la prima volta a un mondiale, esordendo al Maracanà il 25 giugno. Contro l’ostico Cile finisce 2-0 per i britannici, che quattro giorni più tardi si presentano a Belo Horizonte, contro i cugini statunitensi, da ovvi favoriti. Gli Usa, una squadra poco più che dilettantistica, arrivano da sette sconfitte consecutive e sono quotati addirittura 500 a 1. Il match però prende una piega inattesa. In novanta minuti di assedio l’Inghilterra non riesce a segnare e s’infrange ripetutamente contro il muro eretto da Frank Borghi, portiere a stelle e strisce di chiare origini italiane, così come i compagni Pariani e Colombo, tutti e tre provenienti da un quartiere di St. Louis. Al 36’ del primo tempo, in una delle rarissime sortite offensive della nazionale americana, è Joe Gaetjens, un ex lavapiatti di origini caraibiche, a portare clamorosamente in vantaggio gli Stati Uniti. Il punteggio regge clamorosamente fino alla fine e la nazionale inglese esce sconfitta da un’incontro che, se rigiocato altre 99 volte, l’avrebbe vista probabilmente vincente in ogni occasione. Sulla partita saranno scritti fiumi di parole e verrà girato anche un film (“The game of their lives” di David Anspaugh) e gli americani, sebbene quella rimarrà la loro unica affermazione in quei mondiali, saranno accolti da trionfatori al rientro in patria. Dell’eroe della partita, Joe Gaetjens, si perderanno le tracce pochi anni dopo, quando nel 1964 la famiglia sarà arrestata dall’esercito del dittatore haitiano Doc Duvalier a causa del suo attivismo politico.

Per l’ultimo match contro la Spagna, ancora a punteggio pieno, il commissario tecnico inglese Winterbottom gioca tutte le sue carte, schierando anche il fuoriclasse Stanley Matthews, tenuto fino a quel momento precauzionalmente a riposo. Gli inglesi non riescono però a superare gli iberici, difesi magistralmente dal portiere Antonio Ramallets e micidiali a colpire in avanti con Zarra. L’1-0 porta la Spagna direttamente nel girone finale dove, oltre al Brasile, l’attende l’Uruguay, che nel gruppo D della prima fase aveva l’unico incontro in programma contro la modesta Bolivia per 8-0 (clamoroso poker di Juan Alberto Schiaffino e sigillo finale di Alcide Ghiggia). E l’Italia? Il mondiale azzurro dura praticamente novanta minuti. Nonostante gli svedesi arrivassero a San Paolo dopo una nottata di viaggio (il giorno prima della partita con i campioni del mondo in carica avevano assistito al match inaugurale del Brasile a Rio) riescono ad imporsi per 3-2 su una nazionale sciupona e con la traversa, su tiro di Carapellese, a dargli una mano nel finale. Proprio di Carapellese e Muccinelli portano la firma i due gol azzurri. A nulla servirà la vittoria per 2-0 nell’ultimo match contro il Paraguay, con reti di Carapellese e Pandolfini, visto che il pareggio per 2-2 degli scandinavi con i sudamericani aveva di fatto già estromesso l’Italia dalla qualificazione (il girone si era ridotto da quattro a tre squadre per le defezioni di cui si è già detto).

Il caso vuole che l’ultimo incontro in programma nel raggruppamento finale sia Uruguay-Brasile, una sorta di finale non ufficiale in un girone che non prevedeva la finalissima. Infatti le due formazioni sudamericane si presentano all’appuntamento del 16 luglio 1950 allo stadio Maracanà con il primo ed il secondo posto in classifica, frutto di due vittorie impressionanti per il Brasile (7-1 con la Svezia e 6-1 contro la Spagna) e di un pareggio (2-2 con gli iberici) e una sofferta affermazione (3-2 sugli svedesi con rimonta nell’ultimo quarto d’ora) per l’Uruguay. Svezia-Spagna, gara ininfluente che tuttavia assegnava il terzo posto, finì 3-1. Gli eroi, fino a quel momento, erano stati la punta Ademir per i carioca, con 9 reti all’attivo (poker contro la Svezia) e trono di capocannoniere già prenotato, e il capitano uruguagio Obdulio Varela, con un solo decisivo gol a referto (quello del 2-2 contro la Spagna) ma con doti innate da trascinatore sia in campo che fuori. All’arbitro inglese Reader, prima della finale, Varela toglierà la monetina di mano dicendogli: “Signor arbitro, dia ai brasiliani la consolazione di scegliere. Saremo noi i campioni del mondo”. Nel Brasile gioca anche Thomaz Soares da Silva detto Zizinho, l’idolo di un giovane Pelé, tanto bravo che quando contro la Jugoslavia l’arbitro gli annulla una rete, lui ne segna una identica pochi minuti dopo, scartando lo stesso difensore e calciando nello stesso angolo. I presupposti per una partita storica ci sono tutti e l’irripetibile cornice di 203 mila spettatori è da brividi.

Al Brasile in linea teorica basta il pareggio, avendo in classifica un punto in più degli avversari, ma la formazione verdeoro scende in campo per dilagare. È quello che vuole il pubblico, è una di quelle partite dove non si possono fare calcoli, perché a spingere la squadra c’è un popolo intero. L’inizio dei padroni di casa è scoppiettante ma poco concreto e la scarsa propensione difensiva lascia ampi spazi al contropiede dell’Uruguay. Al 18’ Miguez, autore dei due gol in rimonta sulla Svezia che avevano tenute aperte le speranze celesti di conquistare il titolo, coglie il palo. Anche il Brasile prende un legno con un tiro potentissimo di Jair (soltanto omonimo del giocatore che negli anni ’60 giocherà nella “Grande Inter”). Per tutto il primo tempo il “metodo” uruguayano regge agli assalti “sistema” brasiliano, ed il portiere Maspoli dimostra di essere un baluardo insuperabile. Così almeno fino al secondo minuto del secondo tempo, quando Friaça, su assist di Ademir, realizza il gol dell’1-0. La polveriera del Maracanà esplode e duecentomila tifosi sono già sicuri del titolo, l’Uruguay non può rimontare due gol, non in quel contesto, eppure…

Eppure era già successo, e neanche tanto tempo prima, visto che l’anno precedente a San Paolo la formazione celeste si era imposta in amichevole sul Brasile per 4-3, stordendo gli avversari con tre gol in 17 minuti. E poi l’Uruguay aveva fatto l’abitudine alla rimonta, già avvenuta con Spagna e Svezia nelle altre partite del girone finale. Ad esserne cosciente più di tutti è, neanche a dirlo, il capitano Varela, che dopo il gol impiega due minuti per riportare la palla al centro del campo e far sbollire la rabbia ai suoi compagni. Anche la stella Schiaffino è forse consapevole che la rimonta è possibile, anche perché nell’intervallo era stato sbattuto al muro dal suo capitano, che lo aveva visto poco motivato. Fatto sta che, a guardarla dall’esterno, la situazione sembra difficilmente raddrizzabile: gli unici a crederci sono davvero i giocatori uruguaiani, e nessun altro.

Servono le ali per volare, così Ghiggia e Moran, diciottenne buttato nella mischia nella partita più difficile, fanno la loro parte. Il clima si fa teso, il gioco si inasprisce ma l’arbitraggio dell’inglese Reader, appunto… all’inglese, è forse il metodo più efficace per dirigere questa partita. Al 20’ della ripresa è Alcide Ghiggia a servire uno smarcato Schiaffino sottoporta che non si fa sfuggire la rete del pareggio. Il Brasile è sotto shock e per l’Uruguay arriva il momento di affondare il colpo del ko. Ghiggia scambia due volte sulla fascia destra con Julio Perez, detto “Pataloca” (gambe matte, per la sua abilità nel dribbling), supera in corsa il difensore Bigode ed insacca alle spalle di Moacir Barbosa. 2-1 per l’Uruguay. A poco servono i frenetici assalti brasiliani nei minuti finali: Maspoli compie il miracolo su tiro di Ademir e le speranze verdeoro si infrangono poco dopo su un calcio d’angolo andato a vuoto. Scade il novantesimo. In Brasile la delusione è tremenda, decine di persone sono colte da infarto, le strade di Rio restano deserte e si contano addirittura un centinaio di suicidi, anche perché molti avevano scommesso sulla vittoria tutti i loro averi. Fu proclamato il lutto nazionale e quel giorno passò alla storia come il “disastro del Maracanà”. La consegna della coppa al capitano uruguaiano Varela sarà effettuata in sordina e alla svelta, perché tutte le autorità brasiliane si erano dileguate ed era rimasto sul palco il solo, imbarazzatissimo Jules Rimet con il trofeo in mano. E non verrà suonato neanche l’inno dell’Uruguay.

Il responsabile numero uno della sconfitta viene trovato nell’incolpevole Barbosa, roba che neanche il miglior Zoff, con quel sistema di gioco scriteriatamente sbilanciato verso l’attacco, avrebbe potuto far nulla sui contropiedi avversari. Per anni verrà dimenticato, nonostante a livello di club avesse già vinto e avrebbe continuato ad inanellare un successo dopo l’altro. Nel 1993 gli sarà negato di assistere ad un allenamento della nazionale e alla stampa dirà: “In Brasile la pena più lunga per un crimine è di 30 anni, io da 43 anni pago per un crimine che non ho commesso”. Morirà nel 2000 con la sola pensione minima di sussistenza. Quanto all’Uruguay, rientrerà in casa accolto da ali di folla festanti con la seconda coppa vinta su due partecipazioni e con il commissario tecnico Juan Lopez, ultimo inossidabile difensore del “metodo”, portato in trionfo.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.