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N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
Italia profeta in patria
Storia dei mondiali di calcio - parte II
di Simone Valtieri
Se
la
prima
edizione
dei
mondiali
si
può
definire
una
sorta
di
Coppa
America
allargata
a
squadre
europee,
la
stessa
cosa
si
può
dire,
a
parti
invertite,
per
raccontare
la
seconda.
Nel
1934
in
Italia
si
danno
battaglia
ben
dodici
formazioni
provenienti
dal
Vecchio
Continente
sulle
sedici
totali
che
vanno
a
comporre
un
tabellone
ad
eliminazione
diretta.
E’
una
ritorsione
sportiva,
visto
che
quattro
anni
prima
in
Sud
America
solo
Francia,
Jugoslavia,
Belgio
e
Romania
si
erano
presi
la
briga
di
attraversare
l’Atlantico
per
partecipare
alla
Coppa.
Non
c’è
l’Uruguay,
campione
in
carica,
e
anche
Brasile
e
Argentina,
due
delle
quattro
formazioni
sudamericane
inizialmente
iscritte
alle
qualificazioni
insieme
a
Cile
e
Perù,
si
presentano
nella
Penisola
senza
schierare
i
loro
migliori
giocatori.
L’organizzazione
della
Coppa
del
Mondo
era
stata
assegnata
all’Italia
due
anni
prima,
a
Stoccolma.
Una
scelta
obbligata,
visto
che
la
Svezia
(unica
altra
candidata)
aveva
rinunciato
pochi
giorni
prima
per
problemi
economici,
ma
anche
fortemente
voluta
e
caldeggiata
dal
governo
fascista.
Mussolini
stesso
aveva
propugnato
la
candidatura
italiana
in
un
periodo
in
cui
lo
sport
destava
molto
interesse
nel
Bel
Paese
con
le
vittorie
di
Binda
e
Guerra
sui
pedali
e di
Tazio
Nuvolari
al
volante.
Sono
trentadue
le
formazioni
che
richiedono
di
partecipare,
tra
cui
spicca
l’assenza
dell’Inghilterra,
da
anni
in
polemica
con
la
FIFA.
Viene
quindi
organizzata
una
breve
fase
di
qualificazione
nei
mesi
precedenti
al
mondiale,
dalla
quale
non
è
esentata
neanche
la
nazione
ospitante.
Oltre
all’Italia,
che
il
25
marzo
a
Milano
segna
quattro
gol
alla
Grecia
e
passa
il
turno
senza
giocare
l’incontro
di
ritorno
per
rinuncia
degli
avversari
(si
mormora
che
gli
ellenici
non
abbiano
disputato
il
ritorno
perché
lautamente
rimborsati
dalla
federazione
italiana),
ottengono
il
biglietto
per
la
competizione
iridata
Austria,
Belgio,
Cecoslovacchia,
Francia,
Germania,
Olanda,
Romania,
Spagna,
Svezia,
Svizzera
e
Ungheria
dall’Europa,
l’Egitto
dalla
zona
afro-asiatica,
gli
Stati
Uniti
dal
Nord
America
e le
già
citate
Brasile
e
Argentina,
a
causa
della
rinuncia
delle
altre
due
formazioni
sudamericane
impegnate.
L’organizzazione
è
fastosa
e
portata
avanti
dal
generale
della
milizia
Giorgio
Vaccaro,
presidente
della
FIGC.
Tre
impianti,
come
moltissimi
altri
in
tutta
la
nazione,
sono
di
recente
costruzione:
quello
del
PNF
a
Roma
(che
sorgeva
dove
oggi
è lo
Stadio
Flaminio),
lo
Stadio
Mussolini
a
Torino
e lo
Stadio
Berta
a
Firenze.
Gli
altri
cinque
teatri
del
mondiale
sono
San
Siro
a
Milano,
Marassi
a
Genova,
lo
Stadio
Civico
Municipale
di
Napoli,
lo
Stadio
del
Littorio
a
Trieste
e
quello
del
Littoriale
a
Bologna.
Il
27
maggio
si
parte
con
tutti
gli
incontri
in
programma
per
gli
ottavi
di
finale
che
si
giocano
quasi
in
contemporanea.
La
rosa
dell’Italia
era
composta
da
giocatori
scrupolosamente
selezionati
durante
quattro
turni
di
scrematura,
in
cui
il
numero
degli
aspiranti
azzurri
era
stato
ridotto
dai
70
iniziali
ai
22
finali.
Esordisce
a
Roma
con
un
secco
7-1
agli
Stati
Uniti,
grazie
ai
gol
di
Schiavio
(tre),
Orsi
(due)
Meazza
e
Ferrari.
Della
formazione
guidata
da
Vittorio
Pozzo
fanno
parte
campioni
del
calibro
di
Giuseppe
Meazza
e
Luisito
Monti,
oriundo
già
iridato
con
l’Uruguay
quattro
anni
prima
e da
poco
naturalizzato.
A
difendere
la
porta
azzurra
nel
primo
incontro
è
Giampiero
Combi,
chiamato
all’ultimo
momento
a
sostituire
il
titolare,
l’infortunato
Carlo
Ceresoli;
in
difesa
Rosetta
e
Allemandi,
coperti
dagli
esterni
Pizziolo
e
Bertolini
e
dal
centrale
Monti.
Il
pentagono
offensivo
era
composto
da
Guarisi,
Ferrari,
Meazza,
Schiavio
e
Orsi.
Tra
le
altre
partite
degli
ottavi
di
finale
spicca
l’equilibratissimo
match
tra
Austria
e
Francia,
terminato
3-2
per
il “Wunderteam”,
uno
dei
favoriti
per
la
vittoria
finale.
I
tempi
regolamentari
terminano
1-1,
poi
nei
supplementari
l’Austria
allunga
con
Schall
e
Bican,
non
concedendo
chance
di
rimonta
ai “Bleus”.
La
“squadra
delle
meraviglie”
poteva
contare
su
un
organico
di
assoluta
qualità
e
sulla
bravura
del
suo
regista,
Matthias
Sindelar,
direttore
d’orchestra
della
sua
nazionale.
Il
“Mozart
del
football”,
così
era
appunto
soprannominato
nell’ambiente
(al
pari
di
“Carta
velina”
per
la
sua
fragilità
fisica),
era
un
calciatore
completo:
dribbling,
tiro,
palleggio.
“Era
cresciuto
senza
scarpe,
soffrendo
la
fame.
Era
il
migliore
e
non
c’è
perché.
Sindelar
aveva
tutto.
Sindelar
era
tutto”,
aveva
dichiarato
ai
giornalisti
Angelo
Schiavio,
bomber
azzurro.
Gli
altri
verdetti
degli
ottavi
di
finale
vedono
passare
il
turno
le
sole
squadre
europee:
Fuori
Argentina
e
Brasile,
per
mano
di
Svezia
e
Spagna
(3-2
e
3-1
i
risultati),
accedono
agevolmente
altre
due
favorite,
la
Cecoslovacchia
superando
per
2
gol
a 1
la
Romania,
e
l’Ungheria
che
fatica
per
due
terzi
dell’incontro
prima
di
superare
per
4-2
l’arrembante
Egitto.
Completano
il
quadro
la
Svizzera
(3-2
sull’Olanda)
e la
Germania
che
segna
cinque
gol
al
Belgio
incassandone
due.
I
quarti
di
finale
presentano
incroci
interessanti.
A
Bologna
l’Austria
di
Sindelar
se
la
vede
contro
i
forti
ungheresi
e li
batte
per
2-1
grazie
ad
un
rigore
di
György
Sarosi.
A
Torino
la
Cecoslovacchia
si
sbarazza
dell’ostica
formazione
Svizzera
solo
a
sette
minuti
dal
termine,
grazie
a un
gol
del
cannoniere
Oldrich
Nejedly,
che
fissa
il
risultato
sul
3-2.
A
Milano
la
Germania
continua
la
sua
marcia
grazie
ad
Karl
Hoffmann,
che
durante
il
secondo
tempo
sigla
una
doppietta
nel
giro
di
due
minuti
e
abbatte
la
Svezia.
L’incontro
che
vede
impegnati
gli
Azzurri
è il
più
equilibrato.
Di
fronte
la
fortissima
Spagna
del
“Divino”
Ricardo
Zamora,
da
molti
considerato
come
il
miglior
portiere
di
tutti
i
tempi.
La
formazione
iberica
passa
in
vantaggio
al
31’
con
Luis
Rigueiro
sugli
sviluppi
di
un
calcio
di
punizione.
Stessa
dinamica
per
il
pareggio
italiano,
avvenuto
al
45’
grazie
ad
un
tiro
di
Ferrari.
Non
mancarono
polemiche
per
il
gol
italiano
da
parte
di
entrambe
le
formazioni,
dato
che
Zamora
non
parò
il
tiro
di
Ferrari
probabilmente
perché
trattenuto
a
terra
fallosamente
da
Schiavio
e
che
Meazza
fu
colpito
alla
testa,
riportando
un
infortunio
e
non
riuscendo
a
rientrare
se
non
dopo
l’intervallo.
Il
match
si
chiude
comunque
sul
risultato
di
1-1
anche
dopo
i
tempi
supplementari
e
come
da
regolamento,
non
essendo
ancora
previsti
i
calci
di
rigore,
viene
disputato
nuovamente
l’indomani.
Segnati
dalle
fatiche
del
giorno
precedente,
gli
spagnoli
sono
costretti
a
cambiare
sette
giocatori
tra
cui
Zamora,
ufficialmente
infortunato,
ma
sulla
cui
assenza
aleggia
un
alone
di
mistero.
Gli
italiani
si
limitano
a
quattro
nuovi
innesti,
tra
cui
quello
di
Virginio
Ferraris
IV,
che
dopo
questo
match
diventerà
titolare
inamovibile.
L’incontro
è
tiratissimo
e
con
molti
infortuni
a
causa
della
stanchezza
accumulata,
tra
cui
quello
di
Mario
Pizziolo
che
lascerà
i
compagni
all’indomani
del
passaggio
del
turno
e a
cui
la
Figc
farà
lo
sgarbo
di
non
consegnare
la
medaglia
spettante
ai
vincitori,
nonostante
lo
stesso
avesse
giocato
i
primi
due
incontri
da
titolare.
Tale
vicenda
sarà
risolta
soltanto
54
anni
dopo,
nel
1988,
quando
la
federazione
gli
consegnerà
una
copia
in
oro
della
medaglia
mondiale.
Il
gol
risolutivo
del
match
arriva
al
12’
del
primo
tempo
grazie
ad
un
colpo
di
testa
di
Meazza,
su
assist
di
Orsi,
che
si
insacca
alle
spalle
del
portiere
Juan
José
Nogues:
L’
“1-0”
verrà
strenuamente
difeso
fino
al
novantesimo
dagli
azzurri
che
otterranno
così
il
passaggio
del
turno.
Il 3
giugno
è il
giorno
delle
semifinali.
La
Cecoslovacchia
si
impone
sulla
sorprendente
Germania
grazie
al
suo
bomber
Oldrich
Nejedly,
un
rapace
d’area
che
si
fionda
su
ogni
pallone
vagante
e
trafigge
per
ben
tre
volte
il
portiere
avversario.
La
partita
è
equilibrata
fino
a
venti
minuti
dal
termine
quando
“Olda”
segna
il
suo
secondo
gol,
appena
sei
minuti
dopo
il
momentaneo
pareggio
di
Rudolf
Noack.
La
terza
marcatura
arriva
a
dieci
minuti
dal
fischio
finale
e lo
issa
al
comando
della
classifica
cannonieri,
regalandogli
il
trono
dei
gol
con
cinque
marcature.
Nella
seconda
semifinale
è
l’Austria
la
favorita
d’obbligo,
non
solo
perché
vanta
dei
precedenti
a
dir
poco
favorevoli
con
l’Italia,
dato
che
su
tredici
incontri
disputati
aveva
messo
in
fila
ben
otto
vittorie,
quattro
pareggi
ed
una
sola
sconfitta
(nel
1931,
2-1
con
gol
di
Meazza
e
Orsi),
ma
anche
perché
gli
italiani
erano
costretti
a
giocare
a
distanza
di
soli
due
giorni
dalla
doppia
massacrante
sfida
con
la
Spagna.
L’incontro
è
comunque
equilibrato.
Il
genio
Sindelar
viene
marcato
a
uomo
da
Luisito
Monti
che
gli
dedica
attenzioni
ai
limiti
del
regolamento,
sulle
quali
l’arbitro
chiude
un
occhio
più
di
una
volta.
Il
passaggio
del
turno
si
decide
con
un
episodio
concitato
al
19’
del
primo
tempo.
Su
tiro
del
rientrante
Schiavio,
il
portiere
Platzer
respinge
il
pallone
che
finisce
tra
i
piedi
di
Giuseppe
Meazza.
Il
“Balilla”,
come
veniva
chiamato
dai
tifosi,
si
appresta
a
tirare
in
porta
ma
al
momento
di
colpire
il
pallone
l’estremo
difensore
austriaco
gli
si
scaglia
contro
costringendolo
ad
un
tiro
sbilenco.
Sullo
stesso
arriva
in
velocità
l’oriundo
Enrique
Guaita
siglando
il
gol
che
consegna
all’Italia
le
porte
della
finale.
Allo
Stadio
Civico
Municipale
di
Napoli
ha
luogo
il
gustoso
antipasto
della
finalissima:
l’incontro
che
assegna
il
terzo
posto,
tra
le
due
squadre
sconfitte
in
semifinale,
Germania
e
Austria.
Al
momento
di
scendere
in
campo
l’arbitro
si
accorge
che
entrambe
le
formazioni
indossano
una
divisa
bianca,
perciò
vengono
in
fretta
e
furia
recuperate
dai
magazzini
delle
casacche
d’allenamento
del
Napoli
e
fatte
indossare
al
“Wunderteam”
austriaco.
L’incontro
parte
col
botto:
dopo
appena
trenta
secondi
di
gioco
Ernst
Lehner
porta
in
vantaggio
i
tedeschi
che
raddoppiano
al
29’
con
Edmund
Conen,
alla
quarta
segnatura
nel
torneo.
Un
minuto
più
tardi
è la
volta
dell’Austria
con
Johann
Horwath
ma è
un
fuoco
di
paglia.
Al
42’
Lehner
riallunga
ed a
poco
serve
il
gol
del
3-2
di
Karl
Sesta.
La
Germania
è
sul
terzo
gradino
del
podio.
Il
10
giugno
1934
è la
data
della
finalissima.
A
Roma,
dopo
una
settimana
per
ricaricare
le
pile,
l’Italia
se
la
dovrà
vedere
con
lo
squadrone
cecoslovacco.
Tremila
sono
i
sostenitori
arrivati
nella
capitale
da
Praga
con
quattro
treni
speciali;
il
resto
dello
stadio
è
tutto
per
gli
azzurri.
L’Italia
intera
è
incollata
alla
radio
a
seguire
la
cronaca,
che
per
una
settantina
di
minuti
non
è
stata
memorabile,
di
un
giovanissimo
Niccolò
Carosio.
Infatti
solo
al
71’
la
partita
si
accende
e
l’entusiasmo
dei
cinquantamila
tifosi
italiani
presenti
si
spegne.
Segna
Antonin
Puc
e di
lì a
poco
il
suo
compagno
di
squadra
Jiri
Sobotka
coglie
il
palo.
L’Italia
è
frastornata
ma
grazie
a un
bolide
di
Orsi
da
oltre
venti
metri
la
partita
torna
in
parità.
Nei
supplementari
il
tecnico
Pozzo
ha
un’intuizione
decisiva:
Decide
di
scambiare
di
posizione
l’ala
Guaita
con
la
punta
Schiavio,
mandando
in
tilt
gli
schemi
difensivi
avversari.
Quattro
minuti
dopo
la
ripresa
del
gioco,
Schiavio,
ben
servito
da
Guaita,
insacca
un
tiro
angolatissimo
alle
spalle
del
portiere
cecoslovacco
Frantisek
Planicka.
Mancano
25
minuti
alla
fine
ma
il
risultato
non
cambierà
più.
L’Italia
diventa
campione
del
mondo
per
la
prima
volta
nella
sua
storia
e al
termine
dell’incontro
l’allenatore
Vittorio
Pozzo,
portato
in
trionfo
dai
giocatori,
dichiarerà
entusiasta
ai
cronisti:
“Volete
che
vi
dica
le
mie
impressioni?
Guardatemi!
Credo
che
sul
mio
viso,
in
questo
momento,
debba
esserci
scritto
tutto”.
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