N. 83 - Novembre 2014
(CXIV)
storia della Jugoslavia
Parte Ii - dalla fine della seconda guerra mondiale
alle
guerre
d'indipendenza
di Laura Ballerini
Già
dai
primi
anni
della
guerra
fredda
si
rese
evidente
l’importante
ruolo
strategico
della
Jugoslavia.
La
rottura
tra
Tito
e
Stalin
nel
1948
aveva
rassicurato
l’intero
occidente,
in
particolare
l’Italia,
che
vi
vedeva
un
ulteriore
cuscinetto
che
la
separava
dal
pericolo
rosso.
I
governi
di
Washington
e
Londra
non
tardarono
ad
offrire
aiuti
economici
e
militari
a
Tito,
affinché
si
mantenesse
autonomo,
accrescendo
così
la
grande
fiducia
che
il
leader
jugoslavo
nutriva
per
il
futuro
del
suo
paese.
Questa
acquisita
indipendenza
politica
determinò
anche
una
rottura
ideologica
e
una
nuova
interpretazione
della
dottrina
di
Marx.
Lo
stalinismo
venne
sottoposto
a
una
critica
spietata
dagli
uomini
di
cultura
jugoslavi,
che
ritenevano
invece
che
lo
Stato
dovesse
gradualmente
esaurirsi,
man
mano
che
il
socialismo
si
rafforzava,
per
lasciare
poi
spazio
a
una
società
di
cittadini
indipendenti
e
liberi
produttori.
Alla
morte
di
Stalin
nel
1955,
in
Jugoslavia
scemò
la
paura
di
una
vendetta
sovietica
e la
successiva
politica
estera
si
orientò
verso
i
paesi
del
Terzo
Mondo.
In
mezzo
ai
due
blocchi
(anche
geograficamente),
la
Jugoslavia
si
pose
a
capo
del
cosiddetto
movimento
dei
paesi
non
allineati,
che
vantava
un’incredibile
varietà
etnica:
uomini
europei,
africani,
indiani
e
asiatici
cercavano
un
proprio
spazio
tra
le
due
superpotenze
mondiali
e i
loro
satelliti.
In
politica
interna,
invece,
Tito
portò
la
società
jugoslava
dall’essere
prevalentemente
agricola
al
divenire
per
lo
più
industriale.
Questo
processo
di
rinnovamento,
però,
doveva
fare
i
conti
con
le
profonde
differenze
che
intercorrevano
tra
il
nord
e il
sud
del
paese.
La
parte
settentrionale,
ossia
quella
slovena
e
croata,
mirava
al
rafforzamento
del
sistema
federale
per
garantirsi
maggiore
autonomia
e
spingeva
per
riforme
sociali,
politiche
ed
economiche
e
per
l’apertura
del
paese
verso
il
mondo
e il
mercato
occidentale.
La
parte
meridionale,
invece,
prevalentemente
serba,
era
maggiormente
attratta
dal
centralismo
patriottico
e
osteggiava
l’apertura
di
mercato
voluta
dal
nord,
in
nome
del
rafforzamento
del
regime.
Nel
corso
degli
anni
`60
il
maresciallo
Tito
si
sbilanciò
a
favore
dei
cosiddetti
liberali.
Nel
1966,
uno
degli
uomini
chiave
dello
Stato
e
del
Partito,
Aleksandar
Rankovic,
fu
costretto
a
dimettersi
per
l’accusa
di
abuso
di
potere.
Questo
avvenimento
rappresentò
la
caduta
del
primo
tassello
del
domino.
Negli
anni
successivi,
infatti,
si
assistette
a un
ricambio
professionale
all’interno
dei
Servizi
Segreti
jugoslavi
e
nella
classe
dirigente
delle
sei
Repubbliche.
Si
instaurò
un
clima
di
maggior
tolleranza
e
libertà
di
parola,
che
aprì
la
strada
a
nuove
riforme
sociali
ed
economiche.
Tuttavia
mancò
un
progetto
organico
che
si
adattasse
alle
diverse
realtà
sociali
del
paese.
Riemersero,
così,
quelle
problematiche
etnico-religiose
rimaste
irrisolte
e
nascoste.
La
scintilla
scoppio
in
Croazia,
con
il
movimento
degli
ustascia
che
chiedeva
maggiore
autonomia
e il
riconoscimento
linguistico
e
culturale,
contrariando
notevolmente
i
serbi.
Allo
stesso
modo
anche
i
mussulmani
bosniaci
e i
macedoni
avanzarono
le
loro
istanze
preoccupando
oltre
modo
la
fazione
serba.
Il
governo
cercò
allora
un
modo
per
mantenere
l’unità
del
regime
attraverso
piccole
concessioni:
i
macedoni
si
scissero
dalla
Chiesa
ortodossa
formando
una
Chiesa
autocefala,
mentre
i
mussulmani
bosniaci
vennero
riconosciuti
come
una
delle
nazionalità
della
Bosnia-Erzegovina.
A
preoccupare
l’etnia
serba,
oltre
i
mussulmani,
era
la
regione
autonoma
del
Kosovo,
focolaio
del
nazionalismo
albanese.
Nel
1968,
per
distendere
la
situazione,
il
governo
riconobbe
alla
regione
una
maggiore
autonomia
amministrativa
e
culturale,
equiparando
la
lingua
albanese,
come
lingua
ufficiale,
a
quella
serba.
Sotto
il
malcontento
serbo
la
Jugoslavia,
agli
inizi
degli
anni
`70,
arrivò
a un
bivio.
Continuare
con
le
riforme
sociali,
nonostante
avessero
riacceso
le
antiche
discordie
nel
paese,
oppure
ripristinare
un
potere
più
austero.
Tito,
esasperato
dal
riformismo
sloveno
e
croato,
scelse
la
seconda
opzione.
Procedette
dunque
alla
purga
della
classe
dirigente
di
questi
due
paesi,
riportando
l’“ordine
socialista”.
Nel
1974
venne
varata
una
nuova
costituzione
e
Tito
venne
nominato
presidente
a
vita.
La
situazione
cambiò
nuovamente
nel
1980,
alla
morte
del
presidente
Tito,
che
lasciò
una
Jugoslavia
piena
di
debiti
e
insofferenze.
A
far
traboccare
il
vaso,
fu
la
seconda
rivolta
in
Kosovo
del
1981,
dove
la
popolazione
albanese,
ormai
superiore
a
quella
serba,
voleva
divenire
repubblica
autonoma.
La
reazione
di
Belgrado
fu
un’intensissima
campagna
patriottica
in
favore
dell’etnia
serba,
che
ne
infervorò
il
già
forte
nazionalismo.
Anche
i
serbi
che
abitavano
la
Bosnia
Erzegovina
ne
furono
influenzati,
nel
timore,
però
più
che
degli
albanesi,
dei
mussulmani.
Sull’onda
di
questi
contrasti
etnici
si
inserirono
quelli
politici
di
origine
slovena
e
croata.
Tutto
questo
non
fece
che
acuire
l’insoddisfazione
dei
serbi:
nel
1986
alcuni
esponenti
dell’Accademia
delle
Scienze
e
delle
Arti
serbe
scrissero
un
Memorandum,
poi
pubblicato,
che
analizzava
i
motivi
del
caos
nel
paese
e
lamentava
i
costanti
soprusi
sui
serbi,
da
sempre
deturpati
delle
loro
vittorie.
A
questo
memorandum
seguì
una
vastissima
mobilitazione
nelle
piazze
della
Serbia,
di
quanti
si
rivedevano
nell’insoddisfazione
presentata
nel
documento.
A
capo
di
questo
movimento
si
pose
Slobodan
Milosevic,
che
nel
1987,
con
un
golpe,
andò
ai
vertici
del
Partito
Comunista
di
Serbia.
In
pochi
anni
egli
divenne
un
leader
carismatico,
che
portò
avanti
le
istanze
della
proprio
etnia.
Il
più
importante
strumento
dell’affermazione
del
suo
potere
fu
l’Armata
popolare.
Quest’ultima
era
nata
con
Tito
durante
la
lotta
per
la
liberazione
ed
era
sempre
rimasta
il
fedele
braccio
destro
del
governo.
Vantando
ufficiali
di
nazionalità
per
lo
più
serba
o
montenegrina,
l’Armata
popolare
vide
in
Milosevic
il
suo
nuovo
leader.
Questa
situazione
non
poteva
che
scontentare
le
fazioni
slovene
e
croate,
che
da
sempre
avevano
cercato
di
opporsi
al
giogo
dei
serbi.
Scoppiò
allora
un’incontenibile
serie
di
proteste
in
questi
due
paesi,
che
sfociarono
nelle
libere
elezioni
e
nella
guerra
per
l’indipendenza,
che,
con
alterne
vicende
che
coinvolsero
anche
la
Bosnia
Erzegovina,
portarono
alla
dissoluzione
dello
Stato
di
Jugoslavia,
rendendo
i
paesi
di
Slovenia,
Croazia,
Bosnia
Erzegovina,
Montenegro,
Serbia
e
Macedonia,
stati
indipendenti.