N. 82 - Ottobre 2014
(CXIII)
storia della Jugoslavia
Parte I - Dalla nascita alla fine della seconda guerra mondiale
di Laura Ballerini
La
prima
guerra
mondiale
aveva
lasciato
un’Europa
in
ginocchio,
spaventata
dal
nemico
tedesco,
dalla
minaccia
comunista
e
con
nuovi
confini
da
tracciare.
I
nuovi
protagonisti
dello
scenario
mondiale
erano
gli
Stati
Uniti,
mentre
i
quattro
grandi
imperi
(austriaco,
russo,
ottomano,
tedesco),
erano
caduti.
Le
ceneri
dell’impero
austro-ungarico
e di
quello
ottomano
lasciavano
scoperto
un
territorio
da
sempre
conteso
e
ambito
tra
gli
Stati
europei,
che
costituiva
un
importante
nodo
strategico:
i
Balcani.
Per
evitare
un
ulteriore
conflitto,
i
paesi
europei
cercarono
un
modo
di
risolvere
il
problema
balcanico.
Emerso
tre
soluzioni:
la
prima
era
un
regno
triplicista
di
Vienna,
ossia
un
Regno
austro-ungarico-slavo;
la
seconda
era
il
panserbismo
di
Belgrado,
ossia
la
volontà
di
creare
un
grande
Regno
di
Serbia;
si
scelse
una
terza
opzione.
Nel
1918
vennero
accorpati
con
il
patto
di
Corfù
gli
attuali
paesi
di
Slovenia,
Croazia,
Serbia,
Montenegro,
Bosnia-Erzegovina
e
Macedonia
e
l’allora
regioni
di
Kosovo
e
Voivodina:
paesi
molto
diversi
tra
loro
per
storia,
tradizioni
culturali
e
politica.
Durante
la
Grande
Guerra,
infatti,
questi
paesi
avevano
combattuto
su
fronti
opposti:
la
Slovenia
e la
Croazia,
parte
dell’Impero
austriaco,
al
fianco
degli
Imperi
centrali,
mentre
gli
altri
quattro
dalla
parte
dell’Intesa.
L’unione
con
il
vincente
Regno
serbo
sembrò
a
Croazia
e
Slovenia
l’occasione
di
liberarsi
dal
giogo
dello
sconfitto
impero
austriaco.
Nacque
così,
sotto
la
dinastia
serba
dei
Karadjordjevic,
il
Regno
dei
Croati
degli
Sloveni
e
dei
Serbi.
L’opinione
che
si
diffuse
nei
circoli
internazionali,
però,
era
che
alla
fin
fine
non
fosse
altro
che
una
“Grande
Serbia”.
Iniziò
a
covarsi
così
il
nazionalismo
dei
serbi,
convinti
di
aver
semplicemente
ampliato
il
loro
regno,
e il
risentimento
di
croati
e
sloveni,
che
videro
tradite
le
loro
aspettative,
passando
dal
giogo
austriaco
a
quello
serbo.
In
Croazia
si
formò
un
movimento
di
estrema
destra
chiamato
“ustascia”,
capeggiato
da
Ante
Pavelic,
che
portò
molto
disordine
nel
paese.
Il
Re
Alessandro
decise
di
ristabilire
l’ordine
dando
vita
alla
sua
dittatura
nel
1929.
Cambiò
anche
il
nome
dei
paese
in
Regno
di
Jugoslavia.
Venne
poi
ucciso
in
un
attentato
degli
Ustascia
il 6
ottobre
1934
e il
regno
passò
al
fratello
Pietro.
A
questi
scontri
si
aggiunsero
conflitti
anche
sul
fronte
religioso:
la
Jugoslavia,
infatti,
contava
oltre
agli
ortodossi,
anche
i
croati
cattolici
e i
mussulmani
bosniaci.
Queste
problematiche,
rimaste
irrisolte,
costituirono
il
fattore
determinante
delle
future
guerre
jugoslave
degli
anni
`90.
Allo
scoppio
del
secondo
conflitto
mondiale,
la
Jugoslavia
era
così
frammentata
che
cessò
quasi
di
esistere:
la
Slovenia
venne
spartita
tra
Italia
e
Germania;
la
Croazia
si
dichiarò
Stato
indipendente
sotto
il
controllo
degli
Ustascia,
che
presero
anche
la
Bosnia-Erzegovina;
la
Serbia
divenne
protettorato
tedesco
e la
Bulgaria
si
espanse
in
Macedonia.
Nel
corso
della
guerra,
gli
Ustascia
cercarono
di
eliminare
l’etnia
serba
presente
sul
territorio
croato
e
bosniaco,
creando
una
guerra
di
tutti
contro
tutti
che
ebbe
le
sue
più
cruente
conseguenze
in
Bosnia.
Oltre
a
combattersi
tra
loro,
i
popoli
della
Jugoslavia
dovevano
affrontare
anche
gli
invasori
tedeschi
e
italiani.
Sorsero
allora
i
movimenti
dei
cetnici
e
dei
partigiani
di
Tito.
I
primi
erano
di
etnia
serba
e
combattevano
per
riportare
la
monarchia
dei
Karadjordjevic
(Pietro
era
in
esilio
a
Londra),
mentre
i
secondi
combattevano
per
respingere
italiani
e
tedeschi
e
iniziare
una
rivoluzione
bolscevica
che
portasse
al
potere
il
Partito
comunista,
di
cui
Tito
era
segretario
generale.
Questa
profonda
differenza
ideologica
rese
impossibile
una
collaborazione
tra
i
due
movimenti,
che
finirono
così
per
guerreggiarsi
tra
loro.
Il
movimento
di
Tito
riuscì
a
fare
più
proseliti
sul
territorio
e
grazie
all’appoggio
inglese
respinse
il
nemico
nazista.
L’aiuto
britannico,
ovviamente,
non
arrivò
per
simpatia
nei
confronti
del
leader
comunista,
ma
per
la
necessità
di
colpire
Hitler
su
più
fronti.
Nel
1945,
conclusa
la
seconda
guerra
mondiale,
i
comunisti
di
Tito
avevano
raggiunto
il
potere
e
iniziarono
un
processo
di
trasformazione
socialista
della
società
jugoslava,
seguendo
le
indicazioni
dell’Unione
Sovietica.
La
Jugoslavia
divenne
una
Federazione
formata
da
sei
repubbliche:
Slovenia,
Croazia,
Serbia,
sotto
la
cui
amministrazione
erano
le
regioni
di
Kosovo
e
Voivodina,
Macedonia,
Bosnia-Erzegovina
e
Montenegro.
Questa
divisione
acuì
ancor
di
più
i
conflitti
già
esistenti
sul
territorio:
sia
la
Croazia
che
la
Slovenia
accampavano
pretese
sul
territorio
bosniaco,
i
mussulmani
bosniaci
non
avevano
ricevuto
riconoscimento
e i
serbi
lamentavano
la
perdita
del
Montenegro.
Questo
risentimento,
tuttavia,
venne
covato
in
segreto
per
via
del
rigido
controllo
della
Partito
e
della
sua
polizia
segreta.
Conclusa
la
guerra,
il
mondo
venne
divise
in
due
blocchi
contrapposti:
quello
occidentale
guidato
dagli
Stati
Uniti
e
quello
orientale
sotto
l’egida
dell’Unione
Sovietica.
In
questa
profonda
divisione,
la
Jugoslavia
accettò
solo
per
pochi
anni
di
seguire
il
modello
sovietico.
Tito,
infatti,
si
sentiva
ancora
forte
per
aver
respinto
da
solo
il
nemico
nazista,
e
pertanto
non
vedeva
il
motivo
di
doversi
riparare
sotto
l’ombrello
sovietico
o
statunitense.
Nel
1948
vi
fu
la
rottura
tra
Stalin
e
Tito,
che
smise
di
seguire
le
indicazioni
di
Mosca
e
uscì
dal
Comintern.
D’altronde
il
termine
Jugoslavia
voleva
dire
“terra
degli
slavi
del
sud”,
non
degli
slavi
del
nord,
ossia
i
russi.
La
Jugoslavia
si
fece
allora
promotrice
del
cosiddetto
movimento
dei
“paesi
non
allineati”,
che,
seppur
ininfluente,
costituì
una
notevole
spina
nel
fianco
per
l’Unione
Sovietica,
che
per
tutta
la
durata
della
guerra
fredda
temette
l’emergere
di
nuovi
Tito
(anche
lo
stesso
Mao
Tse
Tung,
quando
allontanò
la
Cina
dall’URSS,
venne
definito
il
“Tito
asiatico”).
La
Jugoslavia
acquisì
così
un
importante
ruolo
strategico.