[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 151 / LUGLIO 2020 (CLXXXII)


contemporanea

L’ISTRUZIONE NEI PRIMI DECENNI DEL REGNO D’ITALIA

PARTE II / LA LEGGE COPPINO

di Raffaele Pisani

 

Già nel 1867 il ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino operava dei ritocchi ai programmi per la scuola elementare, volti a semplificare ragionevolmente la materia già data dei vecchi programmi e di coordinarla al meglio”, come si legge nelle Considerazioni generali delle Istruzioni del sopraccitato ministro.

 

Il fine della formazione elementare era duplice: per le classi popolari essa costituiva la sola e unica forma di ammaestramento, come si diceva allora; per altri, appartenenti a ceti sociali più elevati, detta istruzione era invece propedeutica agli studi successivi.

 

L’attenzione del legislatore era rivolta in primo luogo agli strati più bassi della popolazione, per liberarla dall’analfabetismo. In questi ritocchi non è menzionata la religione, si parla invece di Nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino. Questa omissione è stata variamente interpretata: c’è chi diceva che si era inteso mettere l’insegnamento religioso in secondo piano, a favore di un’educazione più prettamente civica, altri invece ritenevano che le vecchie disposizioni, ancora valide, non avessero bisogno di altre puntualizzazioni. Del resto, il discorso è incentrato soprattutto sulla lingua italiana, per il motivo che abbiamo detto poco sopra, le disposizioni riguardanti l’aritmetica sono molto ridotte.

 

La notorietà di Coppino è legata soprattutto alla legge del 1877, che porta il suo nome e introduce in maniera più decisa l’obbligo scolastico. L’articolo 1 nella sua prima parte così recita: I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuto l’età di sei anni, e ai quali i genitori o quelli che ne tengono luogo non procaccino la necessaria istruzione, o per mezzo di scuola private ai termini degli articoli 355 e 356 della legge 13 novembre 1859, o coll’insegnamento in famiglia, dovranno essere inviati alla scuola del comune.

 

Il 1876 aveva visto l’avvento della Sinistra storica la potere, che, pur con tutti i limiti del suo moderatismo e della sua tendenza al compromesso, manifestava comunque una diversa sensibilità. La nuova classe politica vedeva nell’istruzione delle masse un elemento fondamentale per lo sviluppo della nazione. Si trattava di educare il popolo ai patri valori e anche di istruirlo sui primi rudimenti del sapere.

 

La legge n. 3961, sull’obbligo dell’istruzione elementare, vide quindi la luce il 15 luglio 1877. Essa si proponeva di rendere effettivo l’obbligo, già peraltro previsto nella precedente legislazione anche se largamente disatteso. Ai comuni fu affidato il compito di sorvegliare e di operare affinché i bambini dai sei ai nove anni frequentassero il corso inferiore della scuola elementare (artt. 3, 4, 5, 6). Per far questo avrebbero dovuto stanziare una parte dei fondi del bilancio, con possibilità anche di aumentare le entrate, nei termini previsti dalla già citata legge Casati.

 

Nel 1888, durante il secondo governo Crispi con Paolo Boselli alla Pubblica Istruzione, vennero emanati i programmi per la scuole elementari, definiti dagli storici come positivistici. La commissione preposta alla loro elaborazione era composta di studiosi che gravitavano intorno a questa linea filosofica.

 

Il più citato è Aristide Gabelli, già autore di un Metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, nel quale si parla della necessità di insegnare una modalità di approccio al sapere che parta dalla percezione sensoriale dei dati concreti. Detti programmi si proponevano quindi in primo luogo l’obiettivo dell’acquisizione di un habitus piuttosto che l’apprendimento di nozioni libresche. Davano inoltre importanza all’educazione civica, alla ginnastica, al canto e alla musica. Mancava invece l’insegnamento della religione, che costituiva materia facoltativa, per la quale lo Stato non intendeva intervenire.

 

I commentatori hanno fatto notare come fra le Istruzioni, che costituiscono la parte preponderante del testo, e i Programmi veri e propri vi sia una notevole distanza, come pure distanti erano le possibilità di realizzazione di quanto si affermava nella concreta prassi didattica.

 

Non passarono che sei anni e il ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, presentava al re i Nuovi Programmi per la scuola elementare, definiti dagli storici della scuola come Programmi del conservatorismo.

 

L’Italia visse l’ultimo scorcio dell’Ottocento in una crisi profonda, alla quale le istituzioni risposero con una chiusura reazionaria che porterà ai noti tragici eventi, tanto per citare quelli più eclatanti, possiamo ricordare i moti di Milano nel 1898, la spietata repressione attuata dal generale Bava Beccaris e il tentativo, peraltro non riuscito, del Primo Ministro Pelloux (1898-1900) di esautorare il parlamento delle sue prerogative. Il regicidio del 1900, avvenuto durante il governo del moderato Saracco, sembrò far precipitare l’Italia in una spirale di insurrezione e repressione, che per fortuna non si verificò.

 

Questo clima di chiusura era già iniziato qualche decennio prima, con i Governi Crispi e Rudinì e, a parte la breve parentesi del Governo Giolitti (1892-93), proseguì con un altro governo Crispi e poi ancora con Rudinì.

 

La scuola del Regno d’Italia svolgeva la sua funzione tentando di inculcare, con i mezzi che le erano propri, i valori della classe dominante; i Programmi del 1894 si proponevano questo obiettivo, considerando i precedenti troppo progressisti. Si temeva da parte dei conservatori che la scuola potesse diventare sobillatrice di pericolose idee; a questo proposito sono emblematiche le parole del già citato ministro Baccelli: Istruire il popolo quanto basta,educalo più che si può. Si trattava chiaramente di educare ai valori che chi era al potere non intendeva mettere in discussione.

 

Il conservatorismo che dominava la scena politica, accompagnato talvolta da punte di pensiero reazionario, vedeva con preoccupazione l’emancipazione della masse a cui la scuola contribuiva; nel corpo insegnante non pochi maestri avevano idee socialiste.

 

Giovanni Giolitti in un libro autobiografico intitolato: Memorie della mia vita, così racconta: «Si raccolse a Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il coraggio di proporre, per tutta riforma, abolizione dell’istruzione elementare, perché i contadini e i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove».

 

In questo clima vennero emanati i nuovi programmi per la scuola elementare (1894), presentati come semplificazione di ciò che era troppo prolisso. Sono stati comunemente considerati dai vari storici della scuola come ispiratori di una spirito conformistico e forse anche controriformistico.

 

Nel 1889 vennero aggiunte ai programmi le Istruzioni per l’insegnamento delle prime nozioni di agricoltura, del lavoro manuale educativo, dei lavori donneschi, dell’igiene e dell’economia domestica. Vi erano scuole rurali con annesso campicello e scuole urbane che in certi momenti diventavano laboratori. Lo scopo era in primo luogo didattico: osservazione della natura e dell’intervento umano nelle coltivazioni agrarie, acquisizione di nozioni teoriche attraverso la pratica ragionata del lavoro manuale; come finalità di più lungo termine questi insegnamenti si proponevano di avvicinare il popolo alla terra e al lavoro in genere.

 

Ciascuno era chiamato a operare nell’ambiente in cui era nato, senza illusioni di cambiamenti sociali, quanto poi agli alunni destinati agli studi superiori, la pratica del lavoro avrebbe dovuto renderli più coscienti del valore e delle fatiche che questo comporta.

 

Arrivando al nuovo secolo, si ricorda la legge Nasi del 19 febbraio 1903, n. 45, questa introduceva la figura del direttore didattico, per i comuni con popolazione superiore a diecimila abitanti, con almeno 20 classi elementari. La legge Orlando dell’otto luglio 1904, n. 407, estendeva l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, prima e seconda costituivano il corso inferiore, terza e quarta quello superiore, quinta e sesta il corso popolare. Le norme applicative per la verità ridimensionavano sensibilmente il dettato legislativo, ai comuni non era fatto obbligo di attuare il corso superiore e quello popolare, se non lo ritenevano opportuno.

 

I primi decenni del Regno d’Italia furono assai ricchi di disposizioni legislative riguardanti la scuola elementare; i nuovi programmi che si susseguirono a breve distanza di tempo non costituivano tuttavia un capriccio del legislatore ma derivavano dalla presa di coscienza di una situazione nazionale che di volta in volta richiedeva degli aggiustamenti.

 

I Programmi del 1905 si collocavano in un’epoca di rilevanti aperture sociali, comunemente denominata Età giolittiana. Il decollo economico portava con sé molti problemi connessi con la concentrazione di popolazione nelle città industriali, d’altra parte l’emigrazione d’oltralpe e d’oltreoceano, già iniziata nei decenni precedenti, ebbe la sua punta massima negli anni del Novecento precedenti il primo conflitto mondiale.

 

La classe politica, anche quella più recalcitrante, prendeva sempre più coscienza dell’importanza dell’istruzione elementare, quantomeno per l’apprendimento della lingua italiana e delle prime nozioni di calcolo Era chiaro inoltre che l’istruzione costituiva il veicolo fondamentale per la trasmissione dei valori nazionali, per completare quell’unione sociale e culturale faticosamente iniziata dopo l’unificazione politica del territorio della penisola.

 

I nuovi programmi miravano quindi al potenziamento della lingua italiana, eliminando il più possibile ogni traccia di dialetti regionali, l’insegnamento storico rivestiva un carattere prettamente patriottico, illuminato, per così dire, dall’educazione morale e civile.

Abbiamo parlato soprattutto dell’istruzione elementare perché è quella che in questo periodo ha caratterizzato maggiormente l’interesse del legislatore.

 

L’educazione dell’infanzia era pressoché totalmente affidata alla Chiesa. A parte qualche rara iniziativa di eccellente valore pedagogico come gli asili aportiani o il Kindergarten, rivisto dalle sorelle Agazzi, i bambini di età prescolare venivano semplicemente accuditi, facendoli giocare e insegnando loro preghiere e qualche filastrocca.

 

Per la secondaria non sono mancati interventi, peraltro limitati, legati a problemi che si venivano a evidenziare nel coso del tempo. La scuola normale triennale, da frequentarsi dopo un triennio di scuola complementare, entrò a pieno titolo nell’ordine secondario, prima la preparazione dei maestri era alquanto irregolare.

 

Il ginnasio-liceo continuava la sua linea senza particolari variazioni; permaneva un solo tipo di liceo: quello classico. Il liceo moderno, già contemplato nella Legge Casati, troverà limitata attuazione nei primi decenni del Novecento. In questo ambito, la Chiesa, pur sotto il controllo dello Stato, manteneva ancora un ruolo rilevante.

 

Qualche novità avveniva nell’istruzione tecnica, scuole comunali e istituti provinciali cercavano di adeguarsi agli sviluppi del mondo produttivo. Veniva potenziato l’istituto nautico, vista l’importanza di questo settore nella nostra penisola. Nel 1871 la sezione fisico-matematica dell’istituto tecnico passava da triennale a quadriennale, nel 1885 anche gli altri indirizzi tecnici diverranno quadriennali.

 

L’accesso all’università era consentito solo a chi aveva conseguito la maturità classica e, in misura limitata, a chi proveniva dalla sezione fisico-matematica di cui abbiamo appena detto. Il dualismo tra cultura umanistica e cultura tecnica rimaneva più che mai saldo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), La Nuova Italia Editrice, Firenze 1990.

F. De Vivo, Linee di storia della scuola italiana, , Editrice La Scuola, Brescia 1983.

G. Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Editori Laterza, Roma-Bari 1998.

S. Santamaita, Storia della scuola. Dalla scuola al sistema formativo, Edizioni Bruno Mondadori, Milano 1999.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]