CHE COS’È LA STORIA?
LA DISPUTA DI FINE OTTOCENTO TRA CROCE E
VILLARI / Parte II
di Stefano De Stefano
Credo di aver riportato i contenuti
essenziali dei due saggi e le tesi che
ne scaturiscono. La posizione di Croce
appare, ed è, ben delineata, costruita
con un argomentare fluido e non
contraddittorio anzi, direi che il
procedere di Croce sia caratterizzato da
contrapposizioni nette dalla cui
soluzione si deducono, quasi
geometricamente, i risultati.
Nel caso di Villari, invece, si ha
l’impressione che la soluzione al
dilemma se la storia sia arte e/o
scienza non sia affatto definita una
volta per tutte. Seguendo l’insegnamento
della scuola storica tedesca, Villari
riconosce nella questione del metodo un
punto importante per la scienza ma,
nell’introdurre la categoria della
vitalità, osserva che i contenuti
storiografici esprimono una loro
peculiarità; a questo punto il compito
importante dovrebbe consistere nel
salvaguardare questa peculiarità
rimanendo nell’alveo della conoscenza
scientifica. Compito arduo, peraltro
avversato da Croce che mira a scardinare
in maniera radicale il possibile
collegamento della storia con la scienza
che darebbe luogo a una nuova filosofia
della storia vista come prerogativa
della filosofia positivistica, intesa
come un tutto unitario e senza crepe.
In un saggio del 1895, Intorno alla
filosofia della storia, alla fine
Croce pone tre domande che riguardano la
possibilità che alla filosofia della
storia sia riconosciuta la legittimità
di una conoscenza scientifica e la sua
risposta è negativa.
In quello stesso saggio Croce cita
alcuni passi di Villari e polemizza
contro l’uso della filosofia della
storia, interpretata da Villari anche
come scienza della storia. Croce vede
riproposto, nel saggio La storia è
una scienza?, proprio quel
finalismo trascendente che avrebbe
privato del tutto la storia dell’uomo di
ogni anelito alla libertà,
trasformandola in una serie di sequenze
meccaniche tutte, appunto,
finalisticamente orientate.
Ora, i rilievi apportati da Croce al
saggio villariano sono espressione di
una critica serrata alle impostazioni di
stampo deterministico riscontrabili, in
generale, nella storiografia
positivistica europea, tuttavia bisogna
chiedersi se, effettivamente, si possa
leggere Villari soltanto entro questo
schema interpretativo.
Nel Discorso inaugurale tenuto
all’Istituto di Studi superiori di
Firenze il 16 novembre 1868, Villari
afferma: «Oggi, però, la storia non è
più un’arte solamente, è divenuta anche
una scienza. Non intendo qui parlare di
quella che chiamano filosofia della
storia, la quale è piuttosto, com’indica
il suo nome, un’applicazione della
filosofia alla storia, e piglia da
questa i fatti, senz’obbligo di
verificarli con nuove ricerche». Qui
non solo risulta problematica
l’assimilazione della storia alla
filosofia della storia ma anche le
relazioni della storia con l’arte e con
la scienza diventano più articolate.
Se poi ci atteniamo alla ricostruzione
fatta da Eugenio Garin dell’ambiente
culturale fiorentino negli anni Sessanta
e Settanta del secolo XIX si può
definire il ruolo di Pasquale Villari
come di un animatore di cultura storica,
sempre attento a non rimanere
invischiato in schemi precostituiti e
forme mentali paralizzanti anche se poi
Gentile lo definirà semplicemente un «grande
entusiasta» non riconoscendogli, in
alcun modo, l’impegno storiografico.
Comunque se è indubbio che Villari si
avvalga più volte dell’espressione
“filosofia della storia”, è altrettanto
vero, però, che egli non intende
connotarla in senso meccanicista e/o
trascendente. Tuttavia Croce, il giovane
Croce, sottolinea con insistenza il
carattere non rigoroso del saggio del
1891 scritto dall’anziano studioso,
napoletano pure lui; è il caso, quindi,
di soffermarsi sulla questione.
Nel 1854 Villari pubblica
Sull’origine e sul progresso della
filosofia della storia. Nel
ricostruire il percorso che ha
caratterizzato l’evoluzione degli studi
storici dall’antichità al secolo XIX, e
nell’evidenziare come lo sforzo
principale sia stato teso a costruire
una narrazione storica con un carattere
sempre più strutturato così che, nel
tempo, questa narrazione potesse
acquisire un valore se non altro utile
per l’orientamento dell’agire umano,
Villari approda al concetto di filosofia
della storia.
Esaminiamo brevemente alcuni passaggi
della ricostruzione di Villari che
toccano il libero arbitrio, il ruolo
delle scienze naturali e il determinismo
filosofico.
Ragionando sulla posizione di Federico
Schlegel in merito alla filosofia della
storia, Villari presenta i termini della
questione relativa alla possibilità di
ricondurre il cammino dell’umanità a
costanti, a leggi, accostandosi al
metodo della conoscenza naturale. Nella
ricostruzione di Villari, Federico
Schlegel, che interviene dopo il
sensismo settecentesco, pone al centro
della storia il libero arbitrio, sia
pure in un contesto in cui il
cattolicesimo costituisce l’orizzonte
valoriale.
Soggetto della storia umana, per
Schlegel, è l’uomo, essere naturale
dotato del libero arbitrio e,
conseguentemente,afferma Schlegel, «senza
l’idea di libertà, la scienza della
storia è impossibile». In questo
modo, però, si genera una situazione
problematica che rischia di portare a
due possibili alternative: o la natura
impone all’uomo leggi che ne strutturano
e finalizzano le scelte o l’uomo è
assolutamente libero di agire secondo il
proprio arbitrio. La Filosofia della
storia esprime la prima condizione
mentre nella seconda non c’è spazio per
alcuna scienza della storia.
Quanto alla storia, o scienza sociale,
chiare e illuminanti appaiono le parole
di Villari nei confronti della filosofia
di Comte e verso ogni tentativo di
applicazione del metodo delle scienze
naturali alla scienza sociale. Così come
per quello che viene chiamato
determinismo delle azioni umane si
sostiene, seguendo J.S. Mill, che non si
intende affidarsi a qualche forma di
fatalismo ma che si vuole solo affermare
che, comunque, le azioni umane sono il
frutto di condizionamenti e non della
assoluta arbitrarietà. Ed è qui che si
innesta la riflessione di Villari su
come interpretare il libero arbitrio
dell’uomo. Villari osserva che «si è
da molti travisato il vero concetto di
libertà». La libertà non è
espressione di una volontà disordinata
ma è la possibilità di seguire la
ragione presente nell’uomo. «La
fisiologia – scrive – è la
ragione della vita animale». Ma le
leggi che guidano il corpo non sono le
stesse che guidano l’anima.
«La differenza che passa tra la
materia e lo spirito, non è già
nell’essere l’una sottoposta a leggi, e
l’altro dipendere da una volontà
disordinata e cieca: vi sono leggi
eterne, irremovibili per l’uno e per
l’altra; ma la ragione di quelle della
materia è tutta fuori di essa, mentre lo
spirito trova in se stesso la ragione
delle sue leggi, egli ha coscienza del
suo essere».
Ecco dunque che «l’idea di libertà
non esclude l’idea di legge» laddove
per legge non s’intende una struttura
trascendente o meccanicistica ma la
capacità di discernimento nei confronti
delle occasioni che ci si presentano.
Perciò, se la ragionevolezza è il
fondamento delle azioni umane e se
ragionevolezza vuol dire non affidarsi
al caso ma scegliere responsabilmente
tra le alternative che, volta per volta,
si incontrano, allora la ricostruzione,
a posteriori, di queste operazioni
guidate dalla ragionevolezza può portare
a quella connessione logica dei fatti di
cui parlerà Villari nella conferenza
La storia è una scienza?, e che è il
tratto fondamentale della storia come
scienza o di una filosofia della storia,
così intesa da Villari, che dovrebbe
consentire di conoscere, guidati
dall’esperienza, i criteri che orientano
le azioni umane, senza annullare il
libero arbitrio ma tenendo conto che la
ragione costituisce un elemento che
tende a orientare il comportamento dei
singoli secondo criteri comuni.
Facciamo quindi il punto sulle due
posizioni. Villari sostiene che non si
possa assimilare totalmente la storia
all’arte e che, nella disciplina
storica, è possibile riscontrare
affinità con la scienza. Si tratta della
raccolta dei dati, del loro confronto,
della loro analisi che si svolge al fine
di trovare quei fattori costanti che ci
consentano di riferirci a tendenze che
potrebbero individuare, a posteriori,
una specie di direzione degli eventi.
Tutte queste attività non esauriscono il
compito della storia ma hanno bisogno di
metodi, strumenti analitici e
sistematici che rimandano a strutture
cognitive ben definite. La scienza
garantisce l’ordine dei dati e, per
questo, la storia è anche scienza
(posizione di Ranke).
Croce, invece, riconosce la storia nella
narrazione (non negata da Villari) e,
riconducendo la narrazione alla retorica
e quest’ultima all’arte, inserisce la
storia nel “concetto generale
dell’arte”. L’arte, per Croce, è
conoscenza, attività cognitiva; l’arte è
anche applicazione costante volta a
rappresentare realtà che vengono
osservate in tutte le loro
caratteristiche. Ciò che viene
osservato, per Croce, è qualcosa di
unico e irripetibile, è la
manifestazione della realtà nei suoi
aspetti più particolari e, appunto,
individuali; si tratta della ricchezza
della realtà che esprime molteplici
peculiarità agli occhi di un
osservatore.
Queste peculiarità possono essere
valorizzate per gli interessi che
sollecitano in senso ampio e generale, e
si ha l’arte, o per quegli interessi
legati al “realmente accaduto” che
diviene “storicamente interessante”, e
si ha la storia. In entrambi i casi,
però, noi ci rappresentiamo
l’individualità, e la conoscenza
dell’individualità ha a che fare con
l’individualità in quanto tale e non con
strutture o leggi aventi carattere
astratto e generale. L’unica tecnica in
grado di esprimere queste attività è la
narrazione e tale è la storia come arte.
L’argomentazione di Croce è svolta in
maniera coerente e rigorosa e le
conclusioni che ne scaturiscono sono
logicamente congruenti. Tuttavia vale la
pena di osservare che a proposito della
relazione storia-scienza Croce non
assume sempre posizioni drastiche come
nella polemica col Villari. Nel 1895 nel
saggio Sulla classificazione dello
scibile, discutendo di scienze dei
concetti e scienze descrittive, non avrà
difficoltà ad accettare che la storia
sia inserita nell’ambito delle scienze
descrittive o improprie e, dunque, possa
essere considerata scienza.
Con il Villari le cose stanno un po’
diversamente. In effetti la posizione
che Villari esprime negli anni Novanta
del secolo XIX è frutto di un sapere che
si è costituito anche attraverso
ripensamenti perfino nei confronti del
positivismo, del quale pure è
considerato l’alfiere in Italia. Per
l’appunto, nel saggio in oggetto (La
storia è una scienza?),
Villari, nell’affrontare la questione
della storia, prende le mosse da Comte,
suo maestro, e cerca di presentare la
storia come un’espressione fra le più
significative del positivismo.
La storia rileva l’evoluzione
dell’umanità e ci spinge a credere che
lo scorrere del tempo inneschi un
continuo miglioramento/accrescimento
dell’esperienza e prepari, per
l’umanità, una serie sempre più ampia di
opportunità proficue. Diventa possibile
perciò sostenere che il progresso
dell’umanità sia direttamente
proporzionale alla capacità, che
l’umanità esplica, di conoscere e
controllare la natura fisica.
Dall’antichità a Comte, passando per
Galilei, le accresciute conoscenze umane
sono state organizzate nella scienza
della natura che, nel corso dei secoli,
ha acquisito tecniche e metodiche sempre
più perfezionate e sempre più in grado
di consentire all’umanità di interagire
positivamente col mondo fisico. È il
modello gnoseologico della scienza della
natura.
Villari si rende conto della forza di un
tale modello ma si rende anche
progressivamente consapevole di un fatto
importante: la conoscenza di ciò che è
fuori di noi non può fungere da modello
totale per la conoscenza di noi stessi.
Ora, la storia si muove su questo
delicato crinale tra il “fuori” e il
“dentro”.
Il positivismo di Comte, invece, non è
sensibile a queste differenze e tende ad
appiattire la conoscenza storica sul
modello delle scienze naturali.
Viceversa Villari coglie due punti: 1)
la storia non può rompere con le scienze
naturali perché queste rappresentano il
fattore positivo dell’umanità, la linea
del progresso e del miglioramento; 2) la
storia si caratterizza diversamente
dalle scienze naturali poiché ha a che
fare col fattore “libertà” (vedi il
saggio villariano del 1854,
precedentemente citato) che richiama la
condizione della possibilità, riferita,
da Croce, all’arte.
Qui, mi pare, si possano riscontrare le
principali differenze tra le due
posizioni: l’anziano Villari riporta
riflessioni sulla storia che tengono
conto di dubbi e ripensamenti frutto di
esperienze pluridecennali a seguito
delle quali sembra capire di non poter
più abbracciare, con l’entusiasmo
giovanile, la filosofia positivista,
almeno nell’accezione comtiana; il
giovane esordiente Croce esprime
posizioni chiare, rigorose e coerenti e
che non conoscono ancora l’influenza del
dubbio.
La sicurezza che Croce manifesta nel
sostenere le posizioni della Memoria
del 1893 lo porta anche a usare
espressioni molto forti nei confronti di
Pasquale Villari dando l’impressione di
non ritenerlo degno di produrre
contributi storiografici seri. «Una
filastrocca senza capo né coda, in cui
né il problema è posto bene o almeno
chiaramente, né la trattazione è
rigorosa, e neanche l’erudizione troppo
scelta, ricorrendo il Villari, con
singolare predilezione, all’autorità di
alcuni meschini articoli filosofici di
riviste inglesi», così scrive Croce
nel 1895.
Villari, sin dall’inizio del saggio del
1891, non elude le difficoltà relative
al rapporto storia-scienza-arte. Non
cerca però di definire deduttivamente la
questione ma cerca di capire quali siano
state le risposte che, fino a quel
momento, sono emerse. Il riferimento
agli storici inglesi, sviluppato nelle
prime pagine, svolge il ruolo di
presentare alcune risposte operative con
le quali, però, Villari mostra di non
concordare completamente. Punto di
riferimento positivo viene considerato
Leopold Ranke la cui posizione ha il
pregio di cogliere la complessità del
problema evitando conclusioni
perentorie. «La storia….. è un’arte e
una scienza nello stesso tempo».
Sempre con l’intento di riferirsi alla
storiografia del secolo XIX, Villari
riporta la posizione della scuola
storica tedesca e di Bernheim proprio in
risposta ai tentativi, avanzati dalla
storiografia positivista, di applicare
alla storia il metodo delle scienze
naturali. Rafforza la prudenza verso il
positivismo anche l’analisi della
posizione di Humboldt dalla quale
Villari ricava che il rapporto della
storia con la scienza e con l’arte va
ponderato e non può essere risolto, dato
il carattere complesso della materia,
con scelte che intendano porsi su un
piano solamente logico. Perciò diventa
difficile interpretare il parere di
Croce, espresso nella Memoria,
secondo il quale, nello scritto del
Villari, «le questioni sono trattate
per lo più in modo comune».
Dalla ricognizione storiografica operata
da Villari, enucleiamo la domanda
essenziale nell’esame del secolo XVIII:
«Ma come mai da una natura immutabile
vengono fuori costumi tanto mutabili?».
La domanda nasce dalle posizioni
illuministiche ed è fondamentale per
cogliere le caratteristiche della
scienza della storia.
L’intento di Villari consiste nel
cercare di capire se sia possibile
riconoscere delle costanti
nell’evoluzione dell’umanità, oggetto
della storia, sfuggendo alla morsa
deterministica del positivismo comtiano
che provoca un appiattimento della
storia sulle scienze naturali;
successivamente si tratterebbe porre le
basi per una scienza della storia che
tenga nel debito conto la libertà
individuale.
Il tema della libertà individuale
diventa cruciale per la filosofia della
storia, disciplina contestata da Croce
perché, sia nella forma hegeliana che in
quella positivistica, finisce per
annullare proprio la funzione autonoma
dell’individualità.
Ricordo le tre domande con le quali
Croce conclude il saggio del 1895 sulla
filosofia della storia e la generale
risposta negativa di Croce circa la
possibilità che alla filosofia della
storia sia riconosciuta la legittimità
di una conoscenza scientifica. La
posizione di Croce è drastica: ogni
accostamento della storia alla scienza
riproporrebbe le deformazioni della
filosofia della storia facendo venire
meno il fattore vitale delle vicende
umane: la libertà. Non così Villari,
come abbiamo già visto, che tuttavia, va
sottolineato, prende le distanze da una
subordinazione della storia alle scienze
naturali senza con questo rinunciare
alla scienza. E, a mio avviso, il nodo è
proprio questo: il diverso concetto di
scienza al quale Croce e Villari
facevano riferimento alla fine del
secolo XIX. Ma qui si entrerebbe in un
ambito molto più ampio sul quale non è
il caso di soffermarsi in queste note.
Riprendendo La storia è una scienza?,
l’indagine storiografica di Villari si
sviluppa per molte pagine cogliendo
l’importanza della soggettività dello
storico nella ricostruzione narrativa. È
come se sostenesse: accanto ai fatti c’è
lo spirito, la coscienza dello storico
che, evidentemente, opera a partire
dalla selezione dei fatti stessi.
Selezione che non è casuale ma risponde
al criterio della “connessione logica
dei fatti”, compito quanto mai difficile
e non risolvibile con procedure
meccanicistiche perché «quando
vogliamo conoscere, in modo sicuro, le
relazioni, che pure esistono tra i fatti
storici e lo spirito umano, allora
cominciano subito i dubbi infiniti, le
divergenze e i sistemi» .
I dubbi e le divergenze derivano dalla
consapevolezza, acquisita a partire
dall’illuminismo, che la storia
dell’uomo non può essere ricondotta a
schemi precostituiti anche perché «L’uomo
non appariva più, quale una volta, come
un essere immutabile in tutti i tempi,
in tutti i luoghi; con facoltà sempre
identiche in ogni età, in ogni razza o
civiltà diversa; ma d’ora in ora
continuamente mutabile, e in questa sua
mutabilità, in questo suo continuo
divenire doveva essere studiato».
In poche parole Villari sostiene che la
stessa espressione “scienza della
storia” deve tener conto di tutto quanto
nell’uomo non sia riconducibile a
causalità meccanica. «I moti
dell’animo non si traducono in formule».
Si può comprendere qui la funzione del
punto interrogativo nel titolo del
saggio villariano: se ritroviamo nella
storia le caratteristiche metodologiche
della scienza, dobbiamo, altrettanto,
tener conto che confluiscono nella
storia esperienze, sentimenti, libertà
non suscettibili di classificazione
meccanicistica: «Il metodo adatto a
ciò che si pesa e che si misura, non
sarà mai adatto a ciò che non si pesa,
né si misura».
In conclusione resta la difficoltà di
comprendere le motivazioni delle
persistenti valutazioni negative di
Benedetto Croce nei confronti di questo
impegnativo studio del Villari sulla
natura della storia e, a tal proposito,
credo che potrebbe risultare
interessante riportare la considerazione
che a questo stesso studio ha riferito
il filosofo Fulvio Tessitore: «un
saggio assai bello, forse il suo più
bello, del 1891, che problematicamente
si domanda, ancora una volta, La storia
è una scienza?».
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