CHE COS’È LA STORIA?
LA DISPUTA DI FINE OTTOCENTO TRA CROCE E
VILLARI / Parte I
di Stefano De Stefano
Nella Prefazione ai Primi Saggi,
pubblicati nel 1918 e comprendenti
la Memoria intitolata La
storia ridotta sotto il concetto
generale dell’arte letta
all’Accademia Pontaniana il 5 marzo
1893, Benedetto Croce sottolinea il
disorientamento provato nel
rileggere quegli scritti giovanili
(si vedano le pp. VIII e IX della
prefazione) e lo sforzo compiuto per
arrivare a comprenderne i motivi
collegandoli alle «condizioni della
cultura d’allora».
Fa parte della cultura della fine
del secolo XIX la polemica con
Pasquale Villari sulla natura della
storia, polemica nel corso della
quale il giovane Croce ebbe modo di
manifestare tutta la sua avversità
per la filosofia positivista alla
quale era indubbiamente legato il
Villari, accademico, ex Ministro,
storico di fama internazionale,
personaggio di spicco anche dal
punto di vista politico.
Polemica aspra, condotta con toni
molto accesi dal giovane Croce,
forse vissuta anche come una critica
alla cultura accademica della quale
senz’altro Villari poteva
considerarsi un esponente. Ci si
potrebbe domandare se il
disorientamento di cui sopra possa
riguardare anche i toni aspri usati
nei confronti del Villari. La
risposta, probabilmente negativa, ci
è fornita da due riferimenti di
molti anni dopo e che confermano la
posizione fortemente polemica di
Croce.
Nel saggio La questione del
Machiavelli, pubblicato in Indagini
su Hegel e schiarimenti filosofici
nel 1952, il Villari, che fra gli
anni Settanta e Ottanta del XIX
secolo si era occupato del
Machiavelli, viene descritto come
«tutt’altro che adusato e disposto
alla tensione speculativa»; Villari,
secondo Croce, «dimostrò di non aver
compreso nulla di nulla del
Machiavelli». Recensendo il volume
di Gaetano Salvemini su Storia e
scienza, pubblicato nel 1948, Croce
richiama il saggio del Villari
dell’ormai lontano 1891 e lo
definisce «lungagnata
inconcludente», come si vede,
riprendendo toni e accenti di oltre
cinquant’anni prima.
Questo disaccordo tra i due studiosi
napoletani nasce sul finire di un
secolo durante il quale, per tutta
la sua durata, gli studi storici
hanno sempre occupato posizioni di
rilievo nella cultura. E non solo
per la fama degli intellettuali che
ne sono stati protagonisti ma anche,
e forse soprattutto, per i numerosi
eventi che hanno sollecitato
cambiamenti, rivoluzioni,
affermazioni di identità e che
quindi hanno connotato il XIX secolo
come secolo della storia. Pasquale
Villari e Benedetto Croce hanno
storie diverse, formazioni diverse,
età anagrafiche diverse ma entrambi
sono animati da una fortissima
tensione civile che li porta a
pensare agli studi storici, sia pure
ciascuno con proprie peculiari
sensibilità, come a un ambito molto
importante per l’educazione degli
Italiani e per la costruzione della
giovane società italiana.
La loro polemica sulla natura della
storia riprende un tema che ha
attraversato tutto l’Ottocento: la
storia è scienza e/o arte?
Dal punto di vista storiografico si
può dire che la disputa abbia tre
filoni di riferimento: l’eredità
hegeliana, il positivismo e la nuova
scuola storica tedesca. Presento
qui, molto sommariamente, i tratti
essenziali di questi tre filoni.
Eredità hegeliana: il concetto
fondamentale è che la storia è
storia del mondo come manifestazione
della razionalità. Ciò comporta che
l’accidentale, pur in sé
ininfluente, esprima la
realizzazione individuale concreta
della razionalità. Da qui il ruolo
della storia: studiare e
rappresentare le prove dello
svolgimento dello Spirito razionale,
dare concretezza alla totalità di
tutti i punti di vista e
rappresentare «un pensiero
universale che permea il tutto».
Il positivismo comtiano sostiene che
la storia sia scienza e assume come
modello le scienze naturali: è il
modello obiettivistico che separa
nettamente soggetto e oggetto e con
ciò pone le premesse per una storia
intesa come descrizione
naturalistica e imparziale secondo
canoni che, per i positivisti,
possono applicarsi a ogni forma di
sapere.
Sempre sul piano della scienza, ma
con un’altra impostazione rispetto
al positivismo, si posiziona la
scuola storica tedesca (Ranke,
Droysen e poi Bernheim). Non viene
accettata l’assimilazione alle
scienze naturali perché l’oggetto
della storia è il mondo umano e non
la natura; il carattere scientifico
si fonda su criteri metodologici che
riguardano l’identificazione e la
selezione delle fonti e la funzione
soggettiva dello storico viene
rigorosamente guidata dal rigore del
metodo critico-filologico.
Nell’ambito dello storicismo tedesco
un’importanza particolare ha Wilhelm
Dilthey con l’Introduzione alle
scienze dello spirito, studio
pubblicato nel 1883 e dunque
conosciuto sia da Pasquale Villari
che da Benedetto Croce. In esso
Dilthey sostiene che la scienza
riguarda una procedura che non può
rimanere prerogativa degli studi
naturalistici, com’era nei programmi
positivisti. Anche i fatti
spirituali, i fatti umani, possono
essere oggetto di scienza, di una
scienza che si fonda sulla
comprensione e che aspira a trovare
legami, collegamenti tra le azioni
degli uomini così da costruire un
significato che ne renda ragione.
Per i positivisti la scienza della
natura costituisce il paradigma
anche per i fatti dell’uomo;
diversamente Dilthey ritiene che il
mondo degli uomini, il mondo
sociale, sia prodotto assolutamente
diverso dal mondo della natura e
tragga da se stesso procedure e
categorie di spiegazione.
Nella raccolta Illustrazioni e
discussioni, inserita nei
Primi saggi, Croce cita Dilthey
a proposito della classificazione
delle scienze con particolare
riferimento alle «scienze pratiche o
di valori»; nella stessa raccolta,
in un intervento sulla filosofia
della storia, Croce, parlando di
Bernheim, ne corregge
l’interpretazione data sulla
posizione di Dilthey nei confronti
della filosofia della storia. A
proposito di Pasquale Villari
conviene fare riferimento al
concetto di «connessione logica dei
fatti»che può richiamare le
osservazioni di Dilthey sul problema
relativo alla connessione generale
della realtà storico sociale,
connessione che non può essere
ricavata deduttivamente ma deve
fondarsi sul «metodo
dell’esperienza».
Sempre nell’ambito dello storicismo
tedesco è con Georg Simmel che il
giovane Croce trova le maggiori
consonanze. Nei Primi Saggi
troviamo riferimenti ai Problemi
della filosofia della storia di
Simmel, opera pubblicata nel 1892 e,
soprattutto, il netto rifiuto della
narrazione storica intesa come
rispecchiamento meccanico di una
realtà oggettiva. In effetti è la
funzione della individualità che
viene riconosciuta sia da Croce che
da Simmel, anche se con accenti
diversi.
Nel caso di Simmel l’individualità è
guidata dalla funzione di quegli
apriori psicologici, come la
causalità, che consentono
l’organizzazione degli eventi e
dunque, kantianamente, la
costruzione dell’esperienza e,
conseguentemente, della narrazione
storica. Questo percorso si sottrae
completamente a ogni determinazione
oggettivistica e meccanicistica e,
anche se raffigurato da Simmel come
scienza, consente a Croce di poterlo
accostare alla sua posizione sul
rapporto storia-arte.
Questo, schematicamente, il contesto
filosofico e storiografico di
riferimento all’interno del quale si
confrontano i due saggi: La
storia è una scienza? di
Pasquale Villari e La storia
ridotta sotto il concetto generale
dell’arte di Benedetto Croce.
Molti studiosi hanno considerato la
Memoria del 1893 come una forma di
esordio filosofico di Croce, quasi
come l’annuncio del successivo
percorso filosofico, eppure lo
stesso Croce, nel corso della sua
vita, interviene con significativi
aggiustamenti nei confronti della
tesi del 1893.
Nella mia analisi cercherò di
attenermi ai termini della disputa
con Villari, confrontando i due
saggi e, ove il caso, svolgendo dei
riferimenti a testi comunque
anteriori alla controversia in
oggetto.