Con la caduta di
Mussolini a seguito del deliberato del Gran Consiglio
del Fascismo del 25 luglio 1943 si apre una fase
convulsa della storia nazionale, che, per comodità di
studio, divideremo in tre periodi: dal 25 luglio all’8
settembre 1943, contraddistinto dal tentativo monarchico
di restaurazione statutaria; fino al giugno 1944 nel
quale si espresse forte il conflitto tra monarchia e
Comitato di Liberazione Nazionale; fino al giugno 1946
caratterizzato dal governo luogotenenziale.
Caduto, dunque,
il fascismo il 25 luglio 1943, sembrò che il Re
riprendesse il proprio ruolo di protagonista. Come
sappiamo, anche se durante il fascismo era rimasto
formalmente in vigore lo Statuto Albertino, in realtà
esso era stato sovvertito, erano stati
istituzionalizzati i nuovi poteri e le libertà
statutarie dei cittadini erano state soppresse. Gli
organi costituzionali tradizionali, dal Parlamento al
Governo, pur formalmente mantenuti, erano stati o
svuotati delle loro funzioni o trasformati del tutto. La
stessa Monarchia era stata relegata in un angolo a un
ruolo di semplice notaio delle decisioni del Regime.
L’arresto di
Mussolini all’indomani della riunione del Gran Consiglio
del Fascismo rappresentò, dunque, il tentativo de Re di
riprendere in mano le redini della politica nazionale.
Ma si trattò anche dello stesso tentativo della
monarchia di trasferire tutte le responsabilità della
catastrofe su Mussolini. Come ha evidenziato Costantino
Mortati (Istituzioni di Diritto Pubblico, Ed.
Cedam, Padova 1962, p. 157), il Re volle fare apparire
il mutamento di governo come espressione dei poteri a
lui conferiti dallo Statuto, nel presupposto che questo
fosse da considerare automaticamente tornato in vita,
nella sua struttura originaria, dopo l’eliminazione
delle leggi fasciste.
A presiedere il
nuovo governo venne chiamato Pietro Badoglio il quale si
limitò alla abolizione formale di quegli istituti
giuridici dell’ordinamento fascista più compromettenti,
lasciando in vita l’impalcatura giuridica complessiva,
per evitare di aprire la strada a quelle forze
antifasciste ritenute sovversive. Badoglio cominciò a
sopprimere mediante decreti legge il Partito Fascista e
numerose sue appendici. In questo modo – afferma Paolo
Barile (Istituzioni di diritto pubblico, Ed.
Cedam, Padova 1978, p. 79) – sia pure implicitamente
accadde che, vietato l’unico partito ammesso nel
precedente regime, venisse “a contrario” a riconoscersi
la liceità di una pluralità di partiti. Di qui il
ritornare alla luce o il ricostituirsi delle formazioni
politiche antifasciste.
Ma traspare
subito una netta opposizione tra il gabinetto Badoglio e
i partiti democratici che insistono per un governo di
unità nazionale e per la rottura immediata ad ogni costo
con la Germania. A tale proposito i partiti il 13 agosto
approvano un ordine del giorno con il quale si
dissociano dalle responsabilità di Badoglio e della
monarchia. Ma anche all’interno degli stessi partiti si
distinguono varie posizioni: “alcuni, già ora,
sostengono la necessità di un programma più decisamente
rivoluzionario e dichiaratamente ostile nei riguardi
della monarchia che dev’essere abbattuta; altri invece
sono disposti ad appoggiarla e persino a favorirla
concedendole una possibilità di salvezza per i meriti
che si è acquistata di fronte al popolo italiano con il
colpo di stato del 25 luglio, infine non bisogna
dimenticare i comunisti i quali, pur riservandosi il
futuro e piena libertà d’azione a guerra finita, sono
disposti a rinviare ogni discussione sulla questione
istituzionale al termine delle ostilità, e a collaborare
per l’istante con la monarchia, a patto che essa accetti
l’alleanza col popolo, cioè la linea di condotta
proposta dai partiti” (Federico Chabod, L’Italia
contemporanea 1918-1948, Ed. Einaudi, Torino 2006,
p. 115).
Arriviamo così
all’8 settembre 1943, giorno dell’annuncio
dell’armistizio firmato il 3. Tra le 7 e le 8 di sera,
gli italiani apprendono dalla radio l’annuncio
dell’armistizio con gli alleati. All’alba del giorno
dopo il Re e Badoglio abbandonano Roma e raggiungono
Pescara per imbarcarsi per Brindisi dove, per qualche
mese, si frasferisce formalmente il governo italiano.
L’Italia è in piena confusione, divisa in due dalla
guerra ed in ognuna di esse impera la legge di un
diverso esercito di occupazione.Gli alleati erano,
infatti, sbarcati a Salerno e nel nord, liberato
Mussolini il 12 settembre, si era costituitata la
Repubblica di Salò che si impegnava a continuare la
guerra con i tedeschi. E’ ormai guerra civile.
A Roma, intanto,
il 9 settembre 1943, sotto la presidenza di Ivanoe
Bonomi, si erano riuniti i rappresentanti dei 6 partiti
antifascisti (liberali, democristiani, democratici del
lavoro, partito d’azione, socialisti, comunisti) che
avevano dato vita al Comitato di Liberazione Nazionale
per chiamare gli italiani alla lotta e per conquistare
all’Italia il posto che le competeva nel consesso delle
libere Nazioni. Di qui il moltiplicarsi di tali
organismi nelle varie realtà del territorio nazionale i
quali, specialmente nel settentrione, assunsero spesso
le funzioni di governi provvisori e comandi militari. Il
16 novembre 1943, su incarico del Re, Badoglio
costituisce il suo secondo governo, anch’esso senza la
presenza di politici ma con soli tecnici.
Da subito i
partiti antifascisti mostrano la propria contrarietà
alla prosecuzione del governo Badoglio e ai progetti
dello stesso Re di cui chiedono l’abdicazione. Il 28 e
il 29 gennaio 1944, infatti, si celebra a Bari un grande
congresso delle forze politiche antifasciste dove si
chiede, altresì, la convocazione di una assemblea
costituente da eleggersi appena finita la guerra.
A questo punto
interviene un colpo di scena. Il governo Badoglio, che
non era stato ancora formalmente riconosciuto dalle
potenze alleate, il 13 marzo viene riconosciuto
dall’Unione Sovietica di Stalin che batte d’anticipo le
nazioni democratiche. Gli Ango-americani, presi alla
sprovvista e tutt’altro che soddisfatti, sono costretti
anche loro alla ripresa ufficiale delle relazioni
diplomatiche e a cambiare il proprio atteggiamento nei
confronti delle forze politiche antifasciste italiane.
Fino ad allora, infatti, gli Alleati non avevano voluto
accettare le richieste, avanzate dai partiti, di un
governo politico italiano, ma ora, con il riconoscimento
dell’URSS, si rendono conto dell’impossibilità di
proseguire in tale atteggiamento: “comprendono che
irrigidendosi e continuando a scoraggiare gli
antifascisti dall’occuparsi di politica, tutte le
simpatie finirebbero con l’andare ipso facto alla
parte sovietica”.
Anche Togliatti,
nuovo capo del Partito Comunista, è ormai convinto della
necessità di rinviare la “questione monarchica” al
dopoguerra e della costituzione di un governo con
l’appoggio dei partiti democratici, mostrando la propria
disponibilità a collaborare con Badoglio. Fra la Corona
e la c.d. “esarchia” la fase di scontro aperto viene
così sostituita da una tregua fondata sulla rinuncia, da
ambedue le parti, degli aspetti più estremi delle
diverse tesi. E’ una vera a propria “tregua
istituzionale”, garantita dal “patto di Salerno”,
stipulato nella primavera del’44 nella città che è la
nuova sede del governo Badoglio. Partiti e monarchia si
accordano nel rinviare la questione istituzionale alla
fine della guerra quando una consultazione popolare
avrebbe deciso il futuro monarchico o repubblicano
dell’Italia. Il 21 aprile 1944 il governo Badoglio viene
sostituito da un nuovo governo guidato dallo stesso
Badoglio, primo governo di politici e non di soli
tecnici, con la partecipazione dei sei partiti
antifascisti. Il 4 giugno Roma viene liberata.
Con la
liberazione della capitale inizia il terzo periodo che
stiamo esaminando. Seguiamone brevemente i passaggi: a)
5 giugno 1944, dimissioni di Badoglio, Vittorio Emanuele
III nomina il principe Umberto “Luogotenente Generale
del Regno”per l’esercizio di tutte le prerogative regie
dopo la rinuncia “definitiva e irrevocabile” del Re
(R.D. n. 140 del 5 giugno 1944); b) 18 giugno 1944,
governo Bonomi, con ministri scelti in pari numero nei
sei partiti del CLN; c) 25 giugno 1944, Decreto Legge
Luogotenenziale n. 151, il Governo assume l’impegno di
promuovere, alla fine delle ostilità, una consultazione
popolare che risolva il problema istituzionale mediante
“referendum” e insieme elegga i deputati di una
“Assemblea Costituente” per redigere la nuova carta
costituzionale dello Stato; d) 28 febbraio 1945, il
Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia si vede
affidati due importanti compiti di rilievo
costituzionale: la rappresentanza del governo italiano
nella lotta contro i nazi-fascisti e la predisposizione
del ritorno delle zone occupate alla vita civile e
politica; e) 5 aprile 1945, D.L.L. n. 146 (seguito dal
D.L.L. n. 168 del 30 aprile 1945), istituzione della
Consulta Nazionale, organismo di espressione delle forze
politiche e di collaborazione all’azione di governo; f)
25 aprile 1945, giorno della liberazione, avviene
l’insurrezione generale in tutto il nord. Le città
vengono liberate dai partigiani prima dell’arrivo delle
truppe alleate; g) 10 dicembre 1945, Alcide De Gasperi,
leader della Democrazia Cristiana, diventa Presidente
del Consiglio dei Ministri; h) 9 maggio 1946,
abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del
Luogotenente che assume il titolo di Re d’Italia con il
nome di Umberto II; i) 2 giugno 1946, il popolo italiano
vota per la Repubblica ed elegge i deputati
all’Assemblea Costituente.
Il 2 giugno
1946, dunque, gli italiani con almeno 21 anni di età
vengono chiamati alle urne per il referendum tra
monarchia e repubblica e per l’elezione dei componenti
dell’Assemblea Costituente. La partecipazione al voto è
consistente: su una popolazione di 45.685.888 abitanti,
vota l’89,10 % degli aventi diritto (28.005.449) per un
totale di 24.946.878 votanti. Oltre il 54 % degli
elettori sceglie la Repubblica, con un margine di appena
2 milioni di voti, decretando la fine della monarchia.
Il 10 giugno il
Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giuseppe
Pagano, preso atto dei voti espressi, sul cui computo
non mancano polemiche, proclama ufficialmente il
risultato favorevole alla Repubblica. Umberto II,
passato alla Storia con l’appellativo di “Re di maggio”,
il 13 giugno lascia l’Italia con la propria famiglia,
prendendo la strada dell’esilio. Il sistema elettorale
prescelto per la consultazione è quello proporzionale,
con voto “diretto, libero e segreto a liste di candidati
concorrenti”, in 32 collegi plurinominali, per eleggere
573 deputati. In realtà i deputati eletti sono 556
perché le elezioni della provincia di Bolzano e della
circoscrizione Trieste-Venezia Giulia-Zara non vengono
effettuate. Alla consultazione elettorale per la prima
volta prendono parte le donne.
In base
all’esito elettorale l’Assemblea Costituente risulta
così formata: DC 35,2%, PSIUP 20,7%, PCI 19%, Unione
Democratica Nazionale (liberali, demolaburisti ed
indipendenti) 6,8%, Uomo Qualunque 5,3%, PRI 4,3%,
Blocco Nazionale delle Libertà 2,5%, Partito d’Azione
1,4%. Questa la divisione dei seggi: DC 207, PSIUP 115,
PCI, 104, UDN 41, Uomo Qualunque 30, PRI 23, Blocco Naz.
Libertà 16, Partito d’Azione 7, Mov. Indip. Sicilia 4,
Partito Sardo d’Azione 2. Concentr. Dem. Repub. 2, altri
5.
L’Assemblea si
riunì per la prima volta a Montecitorio il 25 giugno
1946. Presiedette la seduta, in qualità di decano dei
deputati, Vittorio Emanuele Orlando che tenne un breve
discorso di saluto nel quale sottolineò essere quella la
prima assemblea della storia d’Italia che rappresentasse
il popolo “nella sua totalità perfetta, senza
distinzione né di sesso, né di classi, né di regioni o
di genti”. Il compito immane che avevano di fronte i
Costituenti era – continuò Orlando – la ricostruzione
dello Stato italiano in un momento in cui nella eterna
battaglia tra la libertà e la tirannide sembrava che i
popoli cercassero un “ubi consistam” fra il tramonto del
governo parlamentare e il delinearsi di un ordine nuovo
in cui i partiti, da semplici forze politiche, sarebbero
venuti assumendo “figura e caratteri di natura giuridica
costituzionale, come organizzazioni delle masse sociali
rappresentative del lavoro, considerato quest’ultimo
come il fattore ormai assolutamente prevalente nella
produzione e nella distribuzione della ricchezza” (AA.VV.,
Storia del Parlamento italiano, vol. XIII,
Flaccovio Editore, Palermo 1969, p. 243).
Nel corso della
seduta fu eletto (con 401 voti su 468 votanti)
Presidente Giuseppe Saragat che dopo si dimise e fu
sostituito, l’8 febbraio 1947, da Umberto Terracini. La
durata dell’organismo venne prorogata due volte: fino al
24 giugno 1947 con Legge Costituzionale n. 1 del 21
febbraio 1947 e, infine, fino al 31 dicembre 1947 con
Legge Costituzionale n. 2 del 17 giugno 1947, entrambe
approvate dalla stessa Assemblea. L’Assemblea
Costituente rimase tuttavia in attività fino al 31
gennaio 1948, in applicazione della XVII disposizione
della Costituzione per approvare la legge elettorale per
il Senato e la legge per la stampa.
Ai sensi del
D.Lgs. Luogotenenziale n. 98/1946 la Costituente assunse
anche le funzioni di organo legislativo, stabilendo nel
proprio regolamento interno, che tutti i disegni di
legge provenienti dal Governo dovessero, salvo casi di
estrema urgenza, esserle trasmessi. L’Assemblea avrebbe,
poi, deciso di volta in volta quali di tali disegni
dovessero essere deferiti alla propria deliberazione.
L’Assemblea discusse, così, le comunicazioni dei vari
governi succedutisi nel periodo della sua vigenza,
votando, dunque, la fiducia al II, III e IV governo De
Gasperi. Approvò anche le leggi elettorali della Camera
e del Senato, nel luglio del 1947 si occupò della
ratifica del Trattato di pace ed esercitò persino
un’attività di controllo sulle azioni del Governo a
mezzo di interrogazioni ed interpellanze.
Il 28 giugno la
Costituente elesse Enrico De Nicola “Capo provvisorio
dello Stato” con il compito di esercitare tali funzioni
fino ad elezione del nuovo Capo dello Stato a norma
della Costituzione. L’Assemblea deliberò anche la nomina
di una commissione ristretta, composta da 75 membri
scelti dal Presidente sulla base delle designazioni dei
gruppi parlamentari, con il compito di predisporre,
senza una preventiva indicazione di criteri e principi
direttivi, il progetto di Costituzione da sottoporre
all’approvazione dell’intera Assemblea.
La c.d.
Commissione dei 75 venne nominata il 19 luglio 1946 e
iniziò i suoi lavori il giorno successivo. Presieduta da
Meuccio Ruini, si divise in 3 sottocommissioni: la prima
sui diritti e doveri dei cittadini, presieduta dal
democristiano Umberto Tupini; la seconda
sull’organizzazione costituzionale dello Stato,
presieduta dal comunista Umberto Terracini; la terza
“Lineamenti economici e sociali”, presieduta dal
socialista Gustavo Ghidini. Mentre la prima e la terza
erano composte ciascuna di 18 membri, la seconda, a
causa dei compiti più ampi e gravosi, era formata da 38
deputati. La seconda sottocommissione venne articolata
in due sezioni, una per il potere esecutivo, presieduta
da Umberto Terracini, e l’altra per il potere
giudiziario, presieduta da Giovanni Conti. Essa,
inoltre, affidò ad un comitato di 10 suoi componenti,
presieduto da Gaspare Ambrosini, la redazione di un
progetto sull’ordinamento regionale.
Come ben ha
sottolineato Leopoldo Elia (La Commissione dei 75, il
dibattito costituzionale e l’elaborazione dello schema
di Costituzione, in “Il Parlamento Italiano”, Vol.
XIV, Nuova CEI Ed., Milano 1989, p. 130), le
sottocommissioni non furono affatto articolazioni
tecniche della Commissione dei 75 ma, come lo stesso
Comitato di redazione, “assunsero natura di organismi
politici, che riproducevano nel microcosmo le dimensioni
delle forze politiche presenti in Assemblea ed in
Commissione”.
Si noti che
dalla Commissione dei 75 vennero esclusi gli ex
Presidenti del Consiglio Bonomi, Nitti e Orlando e lo
stesso Benedetto Croce non fu chiamato a farne parte. La
scelta voleva rappresentare “un chiaro distacco dalla
tradizione politico-istituzionale del liberalismo
italiano”, indicando la predominanza dei partiti che si
presentavano ormai “come i nuovi protagonisti di una
scena politica profondamente trasformata rispetto al
passato” (