[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

190 / OTTOBRE 2023 (CCXXI)


contemporanea

“Quel “pasticciaccio brutto”

Sull’antagonismo israeliano-palestinese

di Francesco Biscardi

 

La prima settimana di ottobre 2023 si è chiusa con la terribile notizia del violento attacco di Hamas contro Israele, con la susseguente dichiarazione di guerra da parte del regime di Tel Aviv. Subito sono saltati fuori i soliti discorsi di democrazia e dittatura, diritti e libertà, aggressore e aggredito, a cui i nostri media ci hanno semplicisticamente abituato già per il conflitto russo-ucraino, sorvolando sulla complessa storia di una terra dove è sostanzialmente in corso una perdurante belligeranza centennale che dura dai tempi della prima guerra mondiale: un “pasticciaccio brutto”, parafrasando Carlo Emilio Gadda, spesso ignoto o celato.

Fu infatti durante la Grande Guerra che britannici e francesi, nello scontro con l’Impero ottomano, iniziarono a prendere in considerazione, o meglio a sfruttare, le volontà indipendentiste dei popoli soggetti a Istanbul.

In Medio Oriente aleggiava sia un acceso nazionalismo arabo che un vivo sionismo (ideologia che reclamava una patria per il popolo ebraico in “diaspora” per il mondo dai tempi della conquista romana di Gerusalemme del 70 d.C.). Londra si accordò con uno dei capi locali, Ibn Hussein Alì, emiro della Mecca e fondatore della dinastia hashemita, affinché sobillasse la rivolta contro il dominatore turco, in cambio del benestare inglese alla nascita di un grande regno arabo indipendente comprendente Arabia, Mesopotamia e Siria.

Tuttavia le vere intenzioni della Gran Bretagna erano ben altre: segretamente si accordò con Parigi per una suddivisione di queste terre (accordi Sykes-Picot del maggio 1916). In più, il governo londinese, per bocca del suo ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, si fece portavoce, nel 1917, di un’altra promessa, anch’essa destinata a essere tradita: quella di appoggiare la nascita di una sede nazionale per il popolo ebraico nell’antica terra di Sion.

Vinta la guerra, il 10 agosto 1920 venne siglato il Trattato di Sèvres con il morente Impero ottomano, che sancì l’accettazione dei “mandati” di amministrazione da parte della Società delle Nazioni alla Francia di Siria e Cilicia e all’Inghilterra di Iraq (ex Mesopotamia) e Transgiordania (futura Giordania), seppur sotto formale governo hashemita.

Già nel 1920-1921 scoppiarono i primi violenti scontri fra coloni israeliti e residenti arabi. La situazione divenne ancora più tesa negli anni Trenta a causa della situazione economica mondiale e del varo delle leggi antisemite prima nella Germania nazista e poi anche nell’Italia fascista, cosa che spinse molti ebrei a emigrare nella “Terra promessa”, acuendo ulteriori tensioni e risentimenti presso la popolazione araba (sembra che fra 1936 e 1939 siano morti circa cento inglesi, cinquecento ebrei e duemila arabi). Era cominciato un conflitto che avrebbe insanguinato la regione fino a questo nuovo millennio, come testimoniato dalle tristi vicende odierne.

Diventata la situazione esplosiva, il Regno Unito optò per trovare una soluzione internazionale. Dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, nel 1947, l’ONU adottò una Risoluzione, la 181, per la divisione della Palestina (termine di antica, ma incerta origine, usato per indicare l’intera regione a Sud della Siria) in due Stati, uno arabo e uno ebraico, precisando che Gerusalemme e Betlemme sarebbero state poste sotto amministrazione internazionale, cosa che scontentò soprattutto gli arabo-musulmani. La crisi non tardò a precipitare: i nuclei più radicali dell’estremismo ebraico entrarono in azione per allargare lo spazio nazionale, distruggendo villaggi e passando per le armi gli abitanti arabo-palestinesi, mentre gli inglesi, fiutando un’escalation cruenta, abbandonarono il campo, e il leader ebraico David Ben Gurion proclamò, nel maggio 1948, l’indipendenza d’Israele, che venne riconosciuta da Stati Uniti e Unione sovietica.

Immediata fu la reazione militare dei paesi arabi, dall’Egitto alla Siria, dall’Arabia all’Iraq, dalla Transgiordania al Libano, che si scagliarono contro il comune nemico. Gli scontri durano fino al febbraio 1949 e furono, sorprendentemente, vinti da Israele (grazie anche all’appoggio militare e logistico americano). La nuova nazione, ammessa all’ONU, rivendicò una maggior quota di territorio rispetto a quella prospettata dalle stesse Nazioni Unite, rifiutando l’indipendenza di Gerusalemme, che fu allora divisa fra una parte ebraica e una araba, mentre l’Egitto occupò la Striscia di Gaza, la stretta fascia costiera ai confini con la Palestina.

Pochi anni dopo, nel 1952, il colonnello Gamal Ab-al-Nasser conquistò il potere in Egitto e non tardò a finire al centro delle cronache mondiali per la crisi di Suez (1956). La presenza del pericoloso vicino, appoggiato dal nazionalismo panarabo, il quale, nel maggio 1967, decise di chiudere alla flotta israeliana lo stretto di Aqaba, passaggio obbligato per Israele verso il Mar Rosso, spinse quest’ultimo a un attacco preventivo. La guerra, iniziata il 5 giugno, venne stravinta in meno di una settimana, tanto da essersi meritata l’epiteto di “Guerra dei sei giorni”: le alture del Golan, Gerusalemme, la Cisgiordania, Gaza e l’interno Sinai finirono sotto controllo israelita, il quale per la prima volta riunificò la Palestina.

Nei territori assoggettati venne avviata una politica di insediamenti ebraici, mentre Gerusalemme fu nominata capitale dello stato, sebbene senza che vi fossero le condizioni politico-diplomatiche necessarie a legittimare la cosa (tuttora essa non è internazionalmente riconosciuta come capitale dello Stato ebraico e, pertanto, la maggior parte delle sedi governative e delle ambasciate si trovano a Tel Aviv). L’ONU stessa, con la Risoluzione 242, chiese il ritiro israeliano dai territori occupati e il ritorno allo status quo prebellico di Gerusalemme.

Tuttavia Israele, con una certa connivenza occidentale, non fece marcia indietro, mentre il popolo palestinese, senza patria, fu costretto a una difficile peregrinazione nelle nazioni vicine le quali, nel complesso, non si mostrarono favorevoli all’accoglienza dei profughi. Fu in questa circostanza che nacque, nel 1964, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), la quale, dal 1969, fu guidata da un energico leader quale Yasser Arafat. Essa si erse a organismo rappresentante il popolo palestinese a livello internazionale, aizzando nel contempo i suoi combattenti, i feddayn, contro gli oppressori-nemici. Prese avvio una stagione di attentati terroristici contro Israele e i suoi alleati, di cui il più tristemente noto fu il sequestro e l’uccisione di 11 atleti ebraici alle Olimpiadi di Monaco del 1972.

In Egitto, il successore di Nasser, Anwar al-Sadat si persuase che, per poter ottenere indietro il Sinai che, come si diceva, non era stato restituito da Israele, fosse necessario riallacciare i contatti con l’Occidente. Tuttavia, le esitazioni e le ambiguità statunitensi non impedirono lo scoppio di una nuova, breve ma atroce, guerra, nel 1973: il 6 ottobre, in occasione della festa ebraica di Yom Kippur, per una settimana, gli egiziani penetrarono in territorio nemico, colto stavolta impreparato. Solo otto giorni dopo partì la controffensiva che portò l’esercito di Israele oltre il Canale di Suez. Il 22 ottobre l’ONU, con la Risoluzione 338, votò il “cessate il fuoco”, ma le ostilità proseguirono fino al 26 ottobre quando, a causa della minaccia di intervento sovietica e della volontà americana di porre fine alle ostilità, furono deposte le armi.

Frattanto nell’OLP si erano create spaccature fra formazioni palestinesi ed esercito libanese, che contribuirono all’esplodere di una crisi interna in Libano, culminata nella guerra civile del 1975. Israele, nei primi mesi del 1978, ne approfittò per trasformare i suoi ripetuti sconfinamenti nel Libano meridionale in una vera e propria invasione, ponendo le basi per quella che fu ribattezzata “Pace in Galilea”, chiusa con la resa di Beirut nell’agosto dello stesso anno. Questi avvicendamenti spinsero l’OLP a trasferirsi a Tunisi.

Sadat decise definitivamente di abbandonare la strategia della forza per imboccare quella della risoluzione pacifica: si allontanò dall’“amica” Urss e si avvicinò all’Occidente, avviando trattative con Israele. Grazie anche alla mediazione americana, si trovò, nel 1978, un punto di incontro a Camp David in Texas: qui il leader egiziano strinse la mano al Primo Ministro israeliano, Menachem Begin, davanti al commander in chief Jimmy Carter.

Tuttavia, l’accondiscendenza di Sadat non fu ben vista dal mondo arabo, tanto da farlo cadere vittima di un attentato nel 1981, mentre la speranza di una pacificazione della regione mediorientale venne compromessa da due rivolte scoppiate in due paesi strategici dal punto di vista geopolitico, l’Iran e l’Afghanistan. Accadde che il conflitto fra israeliani e palestinesi assunse dimensioni drammatiche, scandite da rivolte e massacri come quello condotto nel 1982 da milizie libanesi, con la complicità di Israele, nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila (nei pressi di Beirut), costato almeno un migliaio di morti.

Fra 1987 e 1993 si ebbe la prima intifada (“sollevazione”), conosciuta anche come “rivolta delle pietre” (perché usate soventemente dai rivoltosi), scatenata contro l’esercito e i civili israeliani dai giovani delle comunità, sovrappopolate e degradate, dei territori di Gaza e Giordania. Venne avviato un ennesimo processo di pace, grazie alla mediazione del presidente americano Clinton. Si giunse, nel 1994, al reciproco riconoscimento da parte degli israeliani di Yitzhak Rabin e dell’OLP di Arafat, con l’accettazione di un’enclave a Gaza e nella zona di Gerico quale primo nucleo territoriale di una sorta di sovranità palestinese.

Nonostante l’impegno profuso, la mancata nascita di un vero e proprio stato arabo in Palestina non placò gli attentati, i quali suscitarono nella società israeliana un senso di insicurezza culminata nell’assassinio del premier Rabin. La sua morte causò la rovina del suo partito, quello laburista, e la vittoria alle elezioni di una coalizione di destra, nazionalista, guidata da Benjamin Netanyahu, che si era opposta alle trattative con l’OLP. Tuttavia, il cammino verso la pace non si interruppe del tutto, tanto che il neo premier e Arafat firmarono un nuovo accordo negli States, nell’ottobre 1998, regolante il ritiro israeliano dai territori occupati. Ancora nell’estate del 2000, su spinta di Clinton, desideroso di concludere positivamente il suo secondo mandato, fu patrocinata una nuova stretta di mano fra i due leader nuovamente a Camp David.

Questa volta Israele sembrava più accondiscendente, ma fu sulla questione della sovranità su Gerusalemme e sul destino dei profughi palestinesi che il cammino verso la pace per l’ennesima volta si arenò. A innescare lo scontro fu, nel settembre del 2000, una visita compiuta dal generale Ariel Sharon, della destra ebraica, alla spianata delle moschee di Gerusalemme: il risentimento palestinese si tradusse in una seconda intifada. Dagli scontri che ne seguirono nacque Hamas (in arabo “entusiasmo religioso”), un’organizzazione islamica tesa ad affiancare terrorismo e attività assistenziali per la popolazione palestinese senza patria. Da allora, un po’ tutta la terra, ma soprattutto la Striscia di Gaza, alterna momenti di scontro a momenti di relativa pace. Il clima di violenza e di barbarie non è estraneo il regime di Netanyahu che, secondo dati ufficiali, solo nel 2022 pare abbia massacrato impunemente 127 civili palestinesi, e la stessa decisione presa in questi giorni di togliere la corrente elettrica agli ospedali di Gaza potrebbe ben essere definita“terrorismo di stato”.

Da quanto qui riassunto dovrebbe emergere come la situazione sia estremamente complessa e di come da oltre settant’anni Israele occupi territori che non gli sono mai stati riconosciuti da accordi o risoluzioni internazionali, a detrimento del popolo palestinese, vistosi ripetutamente negare una patria, paradossalmente come accaduto agli stessi ebrei fino a metà Novecento.

Se non ci si può tirare indietro dal condannare le azioni assassine che sono state perpetrate dai terroristi palestinesi, non si può nemmeno non capire come l’estremismo sia spesso il triste esito di guerre, promesse o accordi non mantenuti e di come l’unica soluzione valida sembra essere quella di schierarsi compatti per una pace internazionale disposta a rispettare tutte le fedi ed etnie della regione, tenendo in seria considerazione la sorte che ha contraddistinto un popolo, quale quello palestinese, che cerca una terra dove poter vivere da decadi.
 
 
Riferimenti bibliografic
i:

 

Amoretti B.S., Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, Carocci, Roma 2015.

Campanini M., Storia del Medio Oriente contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2016.

Cardini F., Il califfato e l’Europa. Dalle crociate all’ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri, DeAgostini, Novara 2015.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]