“Quel “pasticciaccio brutto”
Sull’antagonismo
israeliano-palestinese
di Francesco Biscardi
La prima settimana di ottobre 2023
si è chiusa con la terribile notizia
del violento attacco di Hamas contro
Israele, con la susseguente
dichiarazione di guerra da parte del
regime di Tel Aviv. Subito sono
saltati fuori i soliti discorsi di
democrazia e dittatura, diritti e
libertà, aggressore e aggredito, a
cui i nostri media ci hanno
semplicisticamente abituato già per
il conflitto russo-ucraino,
sorvolando sulla complessa storia di
una terra dove è sostanzialmente in
corso una perdurante belligeranza
centennale che dura dai tempi della
prima guerra mondiale: un
“pasticciaccio brutto”, parafrasando
Carlo Emilio Gadda, spesso ignoto o
celato.
Fu infatti durante la Grande Guerra
che britannici e francesi, nello
scontro con l’Impero ottomano,
iniziarono a prendere in
considerazione, o meglio a
sfruttare, le volontà
indipendentiste dei popoli soggetti
a Istanbul.
In Medio Oriente aleggiava sia un
acceso nazionalismo arabo che un
vivo sionismo (ideologia che
reclamava una patria per il popolo
ebraico in “diaspora” per il mondo
dai tempi della conquista romana di
Gerusalemme del 70 d.C.). Londra si
accordò con uno dei capi locali, Ibn
Hussein Alì, emiro della Mecca e
fondatore della dinastia hashemita,
affinché sobillasse la rivolta
contro il dominatore turco, in
cambio del benestare inglese alla
nascita di un grande regno arabo
indipendente comprendente Arabia,
Mesopotamia e Siria.
Tuttavia le vere intenzioni della
Gran Bretagna erano ben altre:
segretamente si accordò con Parigi
per una suddivisione di queste terre
(accordi Sykes-Picot del maggio
1916). In più, il governo londinese,
per bocca del suo ministro degli
Esteri, Arthur James Balfour, si
fece portavoce, nel 1917, di
un’altra promessa, anch’essa
destinata a essere tradita: quella
di appoggiare la nascita di una sede
nazionale per il popolo ebraico
nell’antica terra di Sion.
Vinta la guerra, il 10 agosto 1920
venne siglato il Trattato di Sèvres
con il morente Impero ottomano, che
sancì l’accettazione dei “mandati”
di amministrazione da parte della
Società delle Nazioni alla Francia
di Siria e Cilicia e all’Inghilterra
di Iraq (ex Mesopotamia) e
Transgiordania (futura Giordania),
seppur sotto formale governo
hashemita.
Già nel 1920-1921 scoppiarono i
primi violenti scontri fra coloni
israeliti e residenti arabi. La
situazione divenne ancora più tesa
negli anni Trenta a causa della
situazione economica mondiale e del
varo delle leggi antisemite prima
nella Germania nazista e poi anche
nell’Italia fascista, cosa che
spinse molti ebrei a emigrare nella
“Terra promessa”, acuendo ulteriori
tensioni e risentimenti presso la
popolazione araba (sembra che fra
1936 e 1939 siano morti circa cento
inglesi, cinquecento ebrei e duemila
arabi). Era cominciato un conflitto
che avrebbe insanguinato la regione
fino a questo nuovo millennio, come
testimoniato dalle tristi vicende
odierne.
Diventata la situazione esplosiva,
il Regno Unito optò per trovare una
soluzione internazionale. Dopo la
conclusione della Seconda guerra
mondiale, nel 1947, l’ONU adottò una
Risoluzione, la 181, per la
divisione della Palestina (termine
di antica, ma incerta origine, usato
per indicare l’intera regione a Sud
della Siria) in due Stati, uno arabo
e uno ebraico, precisando che
Gerusalemme e Betlemme sarebbero
state poste sotto amministrazione
internazionale, cosa che scontentò
soprattutto gli arabo-musulmani. La
crisi non tardò a precipitare: i
nuclei più radicali dell’estremismo
ebraico entrarono in azione per
allargare lo spazio nazionale,
distruggendo villaggi e passando per
le armi gli abitanti
arabo-palestinesi, mentre gli
inglesi, fiutando un’escalation
cruenta, abbandonarono il campo, e
il leader ebraico David Ben Gurion
proclamò, nel maggio 1948,
l’indipendenza d’Israele, che venne
riconosciuta da Stati Uniti e Unione
sovietica.
Immediata fu la reazione militare
dei paesi arabi, dall’Egitto alla
Siria, dall’Arabia all’Iraq, dalla
Transgiordania al Libano, che si
scagliarono contro il comune nemico.
Gli scontri durano fino al febbraio
1949 e furono, sorprendentemente,
vinti da Israele (grazie anche
all’appoggio militare e logistico
americano). La nuova nazione,
ammessa all’ONU, rivendicò una
maggior quota di territorio rispetto
a quella prospettata dalle stesse
Nazioni Unite, rifiutando
l’indipendenza di Gerusalemme, che
fu allora divisa fra una parte
ebraica e una araba, mentre l’Egitto
occupò la Striscia di Gaza, la
stretta fascia costiera ai confini
con la Palestina.
Pochi anni dopo, nel 1952, il
colonnello Gamal Ab-al-Nasser
conquistò il potere in Egitto e non
tardò a finire al centro delle
cronache mondiali per la crisi di
Suez (1956). La presenza del
pericoloso vicino, appoggiato dal
nazionalismo panarabo, il quale, nel
maggio 1967, decise di chiudere alla
flotta israeliana lo stretto di
Aqaba, passaggio obbligato per
Israele verso il Mar Rosso, spinse
quest’ultimo a un attacco
preventivo. La guerra, iniziata il 5
giugno, venne stravinta in meno di
una settimana, tanto da essersi
meritata l’epiteto di “Guerra dei
sei giorni”: le alture del Golan,
Gerusalemme, la Cisgiordania, Gaza e
l’interno Sinai finirono sotto
controllo israelita, il quale per la
prima volta riunificò la Palestina.
Nei territori assoggettati venne
avviata una politica di insediamenti
ebraici, mentre Gerusalemme fu
nominata capitale dello stato,
sebbene senza che vi fossero le
condizioni politico-diplomatiche
necessarie a legittimare la cosa
(tuttora essa non è
internazionalmente riconosciuta come
capitale dello Stato ebraico e,
pertanto, la maggior parte delle
sedi governative e delle ambasciate
si trovano a Tel Aviv). L’ONU
stessa, con la Risoluzione 242,
chiese il ritiro israeliano dai
territori occupati e il ritorno allo
status quo prebellico di
Gerusalemme.
Tuttavia Israele, con una certa
connivenza occidentale, non fece
marcia indietro, mentre il popolo
palestinese, senza patria, fu
costretto a una difficile
peregrinazione nelle nazioni vicine
le quali, nel complesso, non si
mostrarono favorevoli
all’accoglienza dei profughi. Fu in
questa circostanza che nacque, nel
1964, l’OLP (Organizzazione per la
Liberazione della Palestina), la
quale, dal 1969, fu guidata da un
energico leader quale Yasser Arafat.
Essa si erse a organismo
rappresentante il popolo palestinese
a livello internazionale, aizzando
nel contempo i suoi combattenti, i
feddayn, contro gli
oppressori-nemici. Prese avvio una
stagione di attentati terroristici
contro Israele e i suoi alleati, di
cui il più tristemente noto fu il
sequestro e l’uccisione di 11 atleti
ebraici alle Olimpiadi di Monaco del
1972.
In Egitto, il successore di Nasser,
Anwar al-Sadat si persuase che, per
poter ottenere indietro il Sinai
che, come si diceva, non era stato
restituito da Israele, fosse
necessario riallacciare i contatti
con l’Occidente. Tuttavia, le
esitazioni e le ambiguità
statunitensi non impedirono lo
scoppio di una nuova, breve ma
atroce, guerra, nel 1973: il 6
ottobre, in occasione della festa
ebraica di Yom Kippur, per una
settimana, gli egiziani penetrarono
in territorio nemico, colto stavolta
impreparato. Solo otto giorni dopo
partì la controffensiva che portò
l’esercito di Israele oltre il
Canale di Suez. Il 22 ottobre l’ONU,
con la Risoluzione 338, votò il
“cessate il fuoco”, ma le ostilità
proseguirono fino al 26 ottobre
quando, a causa della minaccia di
intervento sovietica e della volontà
americana di porre fine alle
ostilità, furono deposte le armi.
Frattanto nell’OLP si erano create
spaccature fra formazioni
palestinesi ed esercito libanese,
che contribuirono all’esplodere di
una crisi interna in Libano,
culminata nella guerra civile del
1975. Israele, nei primi mesi del
1978, ne approfittò per trasformare
i suoi ripetuti sconfinamenti nel
Libano meridionale in una vera e
propria invasione, ponendo le basi
per quella che fu ribattezzata “Pace
in Galilea”, chiusa con la resa di
Beirut nell’agosto dello stesso
anno. Questi avvicendamenti spinsero
l’OLP a trasferirsi a Tunisi.
Sadat decise definitivamente di
abbandonare la strategia della forza
per imboccare quella della
risoluzione pacifica: si allontanò
dall’“amica” Urss e si avvicinò
all’Occidente, avviando trattative
con Israele. Grazie anche alla
mediazione americana, si trovò, nel
1978, un punto di incontro a Camp
David in Texas: qui il leader
egiziano strinse la mano al Primo
Ministro israeliano, Menachem Begin,
davanti al commander in chief Jimmy
Carter.
Tuttavia, l’accondiscendenza di
Sadat non fu ben vista dal mondo
arabo, tanto da farlo cadere vittima
di un attentato nel 1981, mentre la
speranza di una pacificazione della
regione mediorientale venne
compromessa da due rivolte scoppiate
in due paesi strategici dal punto di
vista geopolitico, l’Iran e
l’Afghanistan. Accadde che il
conflitto fra israeliani e
palestinesi assunse dimensioni
drammatiche, scandite da rivolte e
massacri come quello condotto nel
1982 da milizie libanesi, con la
complicità di Israele, nei campi
profughi palestinesi di Sabra e
Shatila (nei pressi di Beirut),
costato almeno un migliaio di morti.
Fra 1987 e 1993 si ebbe la prima
intifada (“sollevazione”),
conosciuta anche come “rivolta delle
pietre” (perché usate soventemente
dai rivoltosi), scatenata contro
l’esercito e i civili israeliani dai
giovani delle comunità,
sovrappopolate e degradate, dei
territori di Gaza e Giordania. Venne
avviato un ennesimo processo di
pace, grazie alla mediazione del
presidente americano Clinton. Si
giunse, nel 1994, al reciproco
riconoscimento da parte degli
israeliani di Yitzhak Rabin e
dell’OLP di Arafat, con
l’accettazione di un’enclave a Gaza
e nella zona di Gerico quale primo
nucleo territoriale di una sorta di
sovranità palestinese.
Nonostante l’impegno profuso, la
mancata nascita di un vero e proprio
stato arabo in Palestina non placò
gli attentati, i quali suscitarono
nella società israeliana un senso di
insicurezza culminata
nell’assassinio del premier Rabin.
La sua morte causò la rovina del suo
partito, quello laburista, e la
vittoria alle elezioni di una
coalizione di destra, nazionalista,
guidata da Benjamin Netanyahu, che
si era opposta alle trattative con
l’OLP. Tuttavia, il cammino verso la
pace non si interruppe del tutto,
tanto che il neo premier e Arafat
firmarono un nuovo accordo negli
States, nell’ottobre 1998, regolante
il ritiro israeliano dai territori
occupati. Ancora nell’estate del
2000, su spinta di Clinton,
desideroso di concludere
positivamente il suo secondo
mandato, fu patrocinata una nuova
stretta di mano fra i due leader
nuovamente a Camp David.
Questa volta Israele sembrava più
accondiscendente, ma fu sulla
questione della sovranità su
Gerusalemme e sul destino dei
profughi palestinesi che il cammino
verso la pace per l’ennesima volta
si arenò. A innescare lo scontro fu,
nel settembre del 2000, una visita
compiuta dal generale Ariel Sharon,
della destra ebraica, alla spianata
delle moschee di Gerusalemme: il
risentimento palestinese si tradusse
in una seconda intifada. Dagli
scontri che ne seguirono nacque
Hamas (in arabo “entusiasmo
religioso”), un’organizzazione
islamica tesa ad affiancare
terrorismo e attività assistenziali
per la popolazione palestinese senza
patria. Da allora, un po’ tutta la
terra, ma soprattutto la Striscia di
Gaza, alterna momenti di scontro a
momenti di relativa pace. Il clima
di violenza e di barbarie non è
estraneo il regime di Netanyahu che,
secondo dati ufficiali, solo nel
2022 pare abbia massacrato
impunemente 127 civili palestinesi,
e la stessa decisione presa in
questi giorni di togliere la
corrente elettrica agli ospedali di
Gaza potrebbe ben essere
definita“terrorismo di stato”.
Da quanto qui riassunto dovrebbe
emergere come la situazione sia
estremamente complessa e di come da
oltre settant’anni Israele occupi
territori che non gli sono mai stati
riconosciuti da accordi o
risoluzioni internazionali, a
detrimento del popolo palestinese,
vistosi ripetutamente negare una
patria, paradossalmente come
accaduto agli stessi ebrei fino a
metà Novecento.
Se non ci si può tirare indietro dal
condannare le azioni assassine che
sono state perpetrate dai terroristi
palestinesi, non si può nemmeno non
capire come l’estremismo sia spesso
il triste esito di guerre, promesse
o accordi non mantenuti e di come
l’unica soluzione valida sembra
essere quella di schierarsi compatti
per una pace internazionale disposta
a rispettare tutte le fedi ed etnie
della regione, tenendo in seria
considerazione la sorte che ha
contraddistinto un popolo, quale
quello palestinese, che cerca una
terra dove poter vivere da decadi.
Riferimenti bibliografici:
Amoretti B.S., Il mondo musulmano. Quindici
secoli di storia, Carocci, Roma 2015.
Campanini M., Storia del Medio
Oriente contemporaneo, Il
Mulino, Bologna 2016.
Cardini F., Il califfato e
l’Europa. Dalle crociate all’ISIS:
mille anni di paci e guerre, scambi,
alleanze e massacri, DeAgostini,
Novara 2015.