N. 137 - Maggio 2019
(CLXVIII)
STORIA DELL’AGRICOLTURA ITALIANA
parte
iv -
IL
SECONDO
DOPOGUERRA
di
Raffaele
Pisani
La
liberazione
dell’Italia
settentrionale
e la
fine
della
guerra,
nell’aprile
del
1945,
vedeva
un
paese
estremamente
provato,
affamato
e
nell’impossibilità
di
produrre
il
necessario
per
la
propria
sussistenza
alimentare.
Senza
gli
aiuti
americani
per
le
necessità
immediate
una
parte
della
popolazione
italiana
rischiava
la
sopravvivenza
stessa.
L’agricoltura,
che
durante
il
Ventennio
aveva
pur
compiuto
degli
innegabili
progressi,
era
ancora
molto
indietro
riguardo
l’uso
delle
moderne
tecniche
rispetto
i
principali
paesi
europei,
questo
anche
a
prescindere
dalla
tragica
vicenda
della
guerra.
La
conduzione
della
terra
si
basava
ancora
su
rapporti
arcaici
in
tante
regioni
d’Italia.
La
grande
proprietà
che
conduceva
le
aziende
con
sistemi
relativamente
moderni
conviveva
con
il
vecchio
latifondo
e
con
la
piccola
proprietà
contadina.
Spesso
i
grandi
proprietari
gestivano
direttamente
solo
una
parte
del
loro
territorio
mentre
l’altra
la
destinavano
a
colonìa
parziaria,a
mezzadria
o ad
affittanza.
A
questo
proposito
introdurranno
significative
novità
le
leggi
sui
contratti
agrari
degli
anni
1962
e
1971.
I
proprietari
di
fondi
piccoli
o
piccolissimi
erano
molto
numerosi
e
praticavano
un’agricoltura
di
sussistenza
consumando
quasi
tutto
ciò
che
producevano,
solo
una
piccola
quota
del
prodotto
veniva
immessa
sul
mercato
permettendo
così
agli
agricoltori
di
disporre
di
un
po’
di
denaro
liquido.
In
gran
parte
del
territorio
italiano
vi
era
una
popolazione
eccedente
rispetto
il
reddito
ricavabile
dall’esercizio
agricolo
e
questo
portava
a
vedere
l’emigrazione
come
unica
via
di
sopravvivenza,
prima
nel
Nord-Europa
e
pure
oltreoceano,
poi
anche
nelle
zone
industriali
d’Italia,
che
dalla
seconda
meta
degli
anni
Cinquanta
cominciarono
a
crescere
a un
ritmo
insperato.
In
quegli
anni
nella
nostra
penisola
avvenne
un
mescolamento
delle
popolazioni,
in
seguito
a
spostamenti
lungo
varie
direttrici
che
talvolta
si
sovrapponevano:
da
Sud
a
Nord,
da
Est
a
Ovest,
dalle
zone
montuose
a
quelle
pianeggianti,
da
quelle
rurali
a
quelle
urbane.
Questo
provocava
una
crescita
tumultuosa
delle
città
industriali
accompagnata
dall’abbandono
di
tante
zone
rurali.
La
Riforma
Agraria
attuata
dai
governi
De
Gasperi
all’inizio
degli
anni
Cinquanta
costituì
un
passaggio
fondamentale
per
la
vita
produttiva
e
sociale
di
ampie
zone
del
paese.
Si
trattava
di
una
serie
di
disposizioni
legislative
che
riguardava
in
primo
luogo
la
distribuzione
delle
terre,
non
solo
di
quelle
demaniali
ma
anche
di
quelle
dei
latifondi
privati,
era
dunque
una
riforma
in
primo
luogo
fondiaria.
Furono
messi
dei
limiti
all’ampiezza
delle
proprietà
agricole
e
vennero
espropriate
con
indennizzo
le
eccedenze.
Lo
Stato
provvide
alla
distribuzione
di
queste
terre
suddivise
in
piccoli
appezzamenti
a
tanti
contadini,
che
divennero
piccoli
proprietari
coltivatori
diretti.
Le
zone
interessate
riguardavano
il
Delta
Padano,
parti
della
Maremma
tosco-laziale,
della
zona
campana
del
Volturno,
Garigliano,
Sele,
e
anche
della
Sila,della
Basilicata
della
Puglia
e
della
Sardegna.
Per
la
Sicilia
le
disposizioni
furono
emanate
dal
Consiglio
Regionale.
Al
fine
di
attuare
la
riforma
furono
creati
vari
enti
ad
hoc;
l’istituzione
della
Cassa
per
il
Mezzogiorno
doveva
servire
a
erogare
i
relativi
finanziamenti.
Riformare
la
proprietà
fondiaria
e
anche
migliorare
le
tecniche
agricole
doveva
servire
ad
aumentare
e
migliorare
la
produzione
e di
conseguenza
anche
il
benessere
della
popolazione.
Fondi
troppo
estesi
coltivati
con
tecniche
arcaiche,
che
si
limitavano
perlopiù
a
sfruttare
la
naturale
fertilità
del
suolo
senza
alcun
intervento
che
la
migliorasse,
costituivano
un
fattore
di
grave
stagnazione
oramai
insopportabile
nella
seconda
metà
del
Novecento.
D’altra
parte
anche
fondi
troppo
piccoli,
come
quelli
derivanti
dalla
nuova
suddivisione,
non
sempre
erano
funzionali
a
un’agricoltura
moderna,
tutt’al
più
costituivano
un
fattore
di
stabilità
sociale
che
eliminava
o
almeno
rendeva
meno
frequenti
le
rivolte
e le
occupazioni
di
terre.
La
riforma
ebbe
come
conseguenza
il
declino
o la
trasformazione
in
senso
imprenditoriale
di
quel
ceto
baronale
che,
specie
al
Sud,
ancora
dominava
con
metodi
quasi
feudali.
Solo
dove
l’assegnazione
dei
fondi
fu
accompagnata
da
opere
infrastrutturali
e da
iniziative
di
aggregazione
cooperativa
questo
comportò
un
innegabile
progresso,
che
consentì
un’ascesa
economica
e
culturale
di
tanti
contadini,
ben
presto
trasformatisi
in
moderni
imprenditori
agricoli.
La
crescita
industriale,
che
dalla
fine
degli
anni
Cinquanta
portava
l’Italia
verso
il
cosiddetto
Miracolo
economico,
sottraeva
tante
braccia
all’agricoltura
e
questo
spingeva
anche
i
più
riluttanti
a
riorganizzare
il
lavoro
dando
spazio
alla
meccanica
e
alla
chimica
nelle
aziende.
Sia
per
le
colture
erbacee
che
per
quelle
arboree,
rispettivamente
dalla
semina
o
dall’impianto
fino
alla
raccolta,
tutto
si
svolgeva
cercando
di
ridurre
il
numero
dei
lavoratori.
D’altra
parte
si
richiedeva
una
maggiore
preparazione
tecnica,
a
questo
riguardo
gli
Istituti
di
formazione
professionale
per
gli
agricoltori
fecero
la
loro
parte.
Il
Piano
decennale
del
1953
e i
Piani
verdi
del
1961
e
del
1966
avevano
lo
scopo
di
promuovere
e
coordinare
a
livello
nazionale
il
difficile
cammino
dell’agricoltura
italiana.
Le
aziende
abbandonavano
la
produzione
per
l’autoconsumo
e si
orientavano
sempre
più
verso
produzioni
specializzate
che
tenevano
conto
della
vocazione
dei
terreni
e
delle
esigenze
di
mercato.
Il
numero
di
addetti
al
settore
primario
diminuì
grandemente:
dal
52.53%
del
1951
al
29.57%
del
1971,
attualmente
è al
di
sotto
del
4%.
Tutto
questo
a
fronte
di
un
miglioramento
quantitativo
e
qualitativo
della
produzione
agricola.
Il
trattato
di
Roma
del
1957
e la
conseguente
Politica
agricola
comune
inserirono
l’Italia
nel
contesto
comunitario
europeo
con
i
problemi
ma
anche
con
i
vantaggi
che
ne
derivarono.
Gli
anni
Sessanta
del
Novecento
segnarono
anche
un
cambiamento
del
paesaggio,
le
tipiche
sistemazioni
dei
seminativi
intervallati
da
filari
di
viti
sorrette
(maritate)
da
olmi
o da
altre
essenze
arboree
lasciarono
il
posto
a
grandi
estensioni
sgombre
da
alberi
per
le
colture
cerealicole
o da
frutteti
specializzati.
Finiva
anche
quel
mondo
agreste
che
vedeva
il
lavoro
del
contadino
cadenzato
dai
ritmi
naturali
delle
stagioni
e
caratterizzato
da
una
ritualità
che
faceva
riferimento
ad
arcaiche
concezioni
religiose,
da
lungo
tempo
cristianizzate.
Certamente
questo
mondo
risultava
poetico
e
pittoresco
per
chi
lo
vedeva
dell’esterno
ma
era
estremamente
duro
e
talvolta
insopportabile
per
tanti
braccianti
o
piccoli
proprietari
che
lo
vivevano
in
prima
persona
Riferimenti
bibliografici:
AA.VV,
Storia
dell’agricoltura
italiana.
L’età
contemporanea.
Dalle
“rivoluzioni
agronomiche”
alle
trasformazioni
del
Novecento,
III
Vol.
Accademia
dei
Georgofili
di
Firenze,
Polistampa
2002.
Castronovo
V.,
Storia
economica
dell’Italia.
Dall’Ottocento
ai
nostri
giorni,
Piccola
Biblioteca
Einaudi,
Torino
2006.
Medici
G.,
La
distribuzione
della
proprietà
fondiaria
in
Italia,
Edizioni
italiane,
Roma
1948
Serpieri
A.
Istituzioni
di
economia
agraria,
Edizioni
agricole,
Bologna
1950.