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N. 135 - Marzo 2019 (CLXVI)

STORIA DELL’AGRICOLTURA ITALIANA
PARTE II - IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE E IL TORMENTATO DOPOGUERRA

di Raffaele Pisani

 

L’Italia, ancora neutrale nel primo anno del conflitto, era un paese eminentemente agricolo con il 59% di addetti al settore primario che contribuivano per il 43% del PIL.

 

Chi pensava che si potesse agevolmente produrre e commerciare spuntando buoni prezzi con i paesi in conflitto rimase ben presto deluso; troppi ostacoli si frapponevano alla circolazione delle merci e la stessa produzione ne era ostacolata.

 

I paesi belligeranti già mettevano in atto misure volte a impedire l’esportazione di beni e materiali, la chiusura degli stretti che consentivano il passaggio tra il Mar Nero e il Mediterraneo indicarono ben presto la situazione che si stava delineando. È cosa nota la partecipazione dell’Italia a fianco di Francia e Inghilterra contro gli Imperi centrali nel 1915, con tutto quello che ne seguirà.

 

Si sa che ogni guerra divora velocemente una grande quantità di risorse e mette i sistemi produttivi in condizione di estrema difficoltà a procedere nelle normali attività.

 

Se l’utilizzo del materiale boschivo era perlopiù attuato in loco dai militari stessi, la produzione dei cereali, quella zootecnica e quella ortofrutticola era affidata a coloro che non si trovavano al fronte, generalmente vecchi, donne e bambini. Le assenze in alcuni punti chiave dell’attività agricola rischiavano di far precipitare la situazione.

 

Se si considera che il conflitto al quale l’Italia partecipò dal 1915 al 1918 aveva dimensioni incomparabilmente diverse da quelle delle guerre risorgimentali del secolo che l’aveva preceduto, ci si rende conto di come potesse presentarsi la situazione del paese in generale e, per quel che riguarda per il presente discorso, quella agricola.

 

Lo stato assunse la direzione della produzione in un conteso di economia di guerra, attuò una politica annonaria approvvigionandosi di cereali, che talvolta trasformava direttamente oppure si serviva di privati provvisti delle attrezzature necessarie, lo stesso più o meno avvenne per tutti i prodotti agricolo-zootecnici.

 

È evidente che in tale situazione di carenza di manodopera, macchine, attrezzi, concimi chimici e anche di bestiame, che ancora in gran parte serviva per il lavoro, si cercava di ottenere il massimo, non badando più di tanto al logoramento di tutto l’insieme produttivo. Si può dire che i contadini, donne e vecchi soprattutto, diedero il loro indispensabile contributo in una lunga battaglia, non combattuta nelle trincee ma nei campi che faticosamente coltivavano e nelle stalle che accudivano.

 

La fine del conflitto vide una situazione agraria molto compromessa, i terreni super sfruttati diminuirono la loro produttività, il patrimonio zootecnico ebbe a subire una significativa diminuzione. I danni diretti ai territori boschivi trasformarono radicalmente certe zone come l’Altopiano di Asiago, causando anche dissesti idrogeologici.

 

Nelle zone del Friuli e del Veneto orientale occupate dall’esercito austro-ungarico vi furono notevoli danni alle opere di canalizzazione a causa del passaggio delle truppe che provocò anche casi di sommersione di terreni e impaludamenti.

 

Inutile rimarcare che la guerra, peraltro seguita da una terribile pestilenza denominata Spagnola, aveva provocato oltre alle centinaia di migliaia di morti, riferendosi solo all’Italia, anche una grande massa di uomini feriti nel corpo e nell’anima, delusi e impoveriti, pronti a rivendicare la propria posizione pure con metodi violenti.

 

Spirava anche il vento della rivoluzione bolscevica, che molti credevano rispondente alle loro istanze di libertà e di egualitarismo economico. Per contro, nella congiuntura della guerra alcuni si erano arricchiti a dismisura, vennero definiti: i pescicani, questi ostentavano in modo pacchiano la loro nuova posizione, provocando il risentimento di quanti avevano combattuto al fronte e ora si trovavano in condizione di miseria. Il timore per l’occupazione delle terre da parte dei braccianti contribuì a determinare una diminuzione del valore dei fondi agricoli; i grandi proprietari terrieri erano indotti a vendere parte dei loro terreni, questo in certi luoghi favorì l’acquisto di piccoli poderi da parte di contadini che avevano accumulato qualche risparmio.

 

Si trattava di un piccolo e certamente insufficiente fenomeno che comunque portava nella direzione di una certa stabilizzazione sociale.

 

Lo Stato da parte sua cercava di attuare il reinserimento dei reduci nel mondo dell’agricoltura promuovendo forme d’istruzione tramite gli Istituti agrari. Agricoltori più preparati avrebbero potuto aspirare a un salario più alto, se erano dipendenti, o agire con più competenza nel proprio fondo se erano coltivatori diretti.

 

L’Opera Nazionale Combattenti, già costituita dal 1917 aveva fra i suoi scopi quello di acquisire alcuni terreni demaniali, o anche semplicemente terreni incolti o scarsamente utilizzati appartenenti a enti ecclesiastici e a privati, per distribuirli a singoli agricoltori o a cooperative agricole; nacquero pure delle forme associative sindacali per meglio regolare la produzione e il commercio dei prodotti.

 

Ma al di là di questi timidi tentativi lo Stato liberale non volle o non fece in tempo ad attuare una riforma agraria organica capace di venire incontro a questa situazione critica. La promessa: terra ai contadini, che il primo ministro Salandra aveva pronunciato all’indomani della rotta di Caporetto, aveva creato delle aspettative che non trovarono adeguata risposta, ne seguì una delusione generale che si trasformò ben presto in rivolta sociale.



 

 

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