N. 134 - Febbraio 2019
(CLXV)
STORIA DELL’AGRICOLTURA ITALIANA
Parte
I -
DALL’UNIFICAZIONE
AL
PRIMO
CONFLITTO
MONDIALE
di
Raffaele
Pisani
Nei
primi
anni
dell’unificazione
politica
della
penisola
la
situazione
geo-antropico-agraria
era
talmente
varia
che
aveva
poco
senso
parlare
di
agricoltura
italiana
in
termini
generali.
La
moderna
coltura
intensiva
di
certi
territori
si
accompagnava
al
latifondo;
la
coltura
promiscua
finalizzata
all’autoconsumo
conviveva
con
quella
specializzata
di
alto
pregio
che
puntava
all’esportazione.
Ci
vorrà
qualche
decennio
per
poter
cogliere
dei
tratti
comuni
sulla
situazione
agraria
italiana.
La
produzione
cerealicola,
frumento,
mais
e,
in
zone
ben
definite,
il
riso,
era
predominante;
buona
parte
del
prodotto
veniva
consumata
in
loco
da
una
popolazione
ancora
in
larga
parte
rurale.
L’idea
ingenuamente
ottimistica,
che
vedeva
l’Italia
particolarmente
felice
per
la
varietà
dei
suoi
climi
e
dei
suoi
terreni
tanto
da
farne
il
Giardino
d’Europa,
lasciava
il
posto
a
più
realistiche
constatazioni.
Le
possibilità
certamente
non
mancavano
ma
bisognava
in
primo
luogo
avere
un
quadro
dettagliato
della
situazione
agricola
nazionale
per
poter
agire
di
conseguenza.
Nella
seconda
metà
dell’Ottocento
le
mutate
condizioni
internazionali
per
ciò
che
riguardava
la
produzione
e il
trasporto
dei
prodotti
agricoli
misero
in
seria
difficoltà
diverse
regioni
italiane.
Paesi
molto
estesi
geograficamente
e
provvisti
di
tecniche
moderne
avevano
buon
gioco
a
produrre
grandi
quantità
di
cereali
a
costi
bassi
e il
trasporto,
anche
transoceanico,
non
veniva
a
incidere
più
di
tanto
sul
prezzo
finale.
La
crisi
internazionale
già
iniziata
negli
anni
Settanta
dell’Ottocento
rese
la
situazione
esplosiva
in
diverse
zone
d’Italia.
Già
nel
1876
Leopoldo
Franchetti
e
Sidney
Sonnino
compirono
un’indagine
sul
campo,
con
lo
scopo
di
rilevare
le
condizioni
economico-amministrative
della
Sicilia.
Pur
non
essendo
definita
inchiesta
agraria,
aveva
come
oggetto
la
situazione
delle
campagne
e i
rapporti
tra
contadini,
nobili
locali
e
una
rete
di
criminalità
molto
influente.
L’inchiesta
agraria
più
nota,
che
porta
il
nome
del
senatore
Stefano
Jacini,
iniziata
nel
1877
e
resa
pubblica
dalla
metà
degli
anni
Ottanta,
si
proponeva
vari
scopi.
Bisognava
fotografare
la
realtà
agraria
nazionale,
oltre
che
per
l’aspetto
agronomico,
per
quello
economico,
sociale
e
politico,
pensando
all’Italia
nei
suoi
rapporti
con
gli
stati
europei
ed
extra
europei.
Si
dovevano
individuare
quelle
potenzialità
che
con
opportuni
interventi,
avrebbero
portato
a un
miglioramento
del
sistema
produttivo.
Si
temeva
che
un’estrema
miseria
fomentasse
rivolte
più
o
meno
ampie
nelle
campagne.
È
difficile
rilevare
quanto
l’aspetto
filantropico,
pur
presente
di
fronte
a
condizioni
assai
disagiate
di
masse
contadine,
abbia
guidato
questa
ricerca.
I
componenti
la
commissione,
portatori
di
interessi
particolari
di
varie
categorie
sociali
e
produttive,
manifestavano
sensibilità
diverse;
prevalse
la
linea
del
presidente
Jacini
,
che
vedeva
nell’aspetto
tecnico-agrario
il
punto
principale
da
chiarire,
mentre
lasciava
un
po’
in
ombra
quelli
di
natura
più
politica
e
sociale.
Alla
fine
del
1877
iniziarono
i
lavori
e
nel
1881
fu
dato
alle
stampe
il
Proemio
su “Il
problema
agrario
in
Italia
e
l’inchiesta”
mentre
i
risultati
definitivi
vedranno
la
luce
solo
alla
metà
degli
anni
Ottanta.
In
esso
si
ribadiva
come
fosse
auspicabile
un
intervento
dello
Stato
per
alleggerire
la
pressione
fiscale
nei
confronti
della
proprietà,
pensando
che
questo
avrebbe
indotto
gli
stessi
possidenti
a
provvedere
al
benessere
delle
popolazioni
agricole.
Uno
sguardo
d’insieme
sulla
situazione
dell’agricoltura
italiana
mostrava
più
ombre
che
luci
e
rilevava
in
alcuni
casi
addirittura
una
decadenza
rispetto
a
qualche
decennio
prima.
Le
cause,
oltre
ai
motivi
sopraccennati
di
concorrenza
internazionale,
erano
dovute
a
fattori
interni:
una
mentalità
immobilista
legata
a
una
visione
tradizionale
della
conduzione
agricola.
D’altra
parte
gli
imprenditori
più
intraprendenti
erano
spinti
ad
acquistare
i
beni
demaniali
piuttosto
che
a
investire
per
il
miglioramento
dei
propri
fondi
agricoli.
Scrive
lo
stesso
Jacini
ne
I
risultati
dell’inchiesta:
«Si
aprì
la
prospettiva
degli
acquisti
a
ottime
condizioni
dei
beni
demaniali
e
dell’asse
ecclesiastico
posti
in
vendita
a
grossi
e
piccoli
lotti,
accessibili
cioè
a
tutte
le
borse»
e
ancora:
«Approfittiamo
dell’oggi
–
dicevano
gli
uomini
danarosi
(…)
– i
miglioramenti
li
eseguiremo
con
comodo,
quando
non
vi
saranno
più
beni
da
acquistare
a
buon
prezzo».
Analisi
più
recenti
danno
una
visione
meno
pessimistica:
Valerio
Castronovo
in
Storia
economica
d’Italia.
Dall’Ottocento
ai
nostri,
nota
che,
pur
nella
discontinuità,
un
certo
progresso
dagli
anni
Sessanta
alla
soglia
degli
anni
Ottanta
c’è
pure
stato,
anche
se
non
sufficiente
a
produrre
quell’accumulazione
di
capitale
capace
di
generare
un
ulteriore
sviluppo.
Jacini
delineava
anche
delle
linee
generali
d’azione;
era
contrario
al
protezionismo:
proteggere
la
cerealicoltura
comporterebbe
un
aumento
del
prezzo
del
pane
con
il
serio
rischio
di
sollevazioni
popolari.
Bisognava
invece
migliorare
le
tecniche
agricole
con
l’aiuto
della
meccanica
e
anche
della
chimica,
coltivare
i
cereali
solo
nei
terreni
adatti
e
puntare
a
produrre
quelle
«
derrate
preziose
che
richiedono
abbondante
e
intelligente
mano
d’opera».
Faceva
riferimento
in
particolare
agli
agrumi
all’olio
e al
vino,
per
i
quali
non
si
aveva
da
temere
la
concorrenza
statunitense,
semmai
bisognava
prestare
attenzione
agli
altri
paesi
mediterranei
simili
all’Italia
per
condizioni
ambientali
e
per
abbondanza
di
lavoratori
agricoli.
Il
passaggio
da
una
politica
commerciale
liberista
a
una
protezionistica,
necessaria
per
tutelare
la
nascente
industria,
sconvolse
i
fragili
equilibri
dell’agricoltura
italiana.
Giova
ricordare
che
il
protezionismo
venne
praticato
da
tutte
le
nazioni
europee
a
eccezione
dell’Inghilterra
e
che
comunque
l’Italia
non
fu
la
prima
a
introdurlo.
L’approvazione
della
tariffa
nel
1887
segnò
un
passaggio
importante
per
l’economia
e
per
la
società
italiana.
Le
tecnologie
produttive
italiane
non
reggevano
nel
confronto
con
quelle
dei
paesi
di
più
lunga
tradizione
industriale,
ne
derivava
che
un
prodotto
italiano
veniva
a
costare
di
più
e
senza
una
protezione
dello
Stato
non
avrebbe
trovato
accesso
al
mercato.
È
evidente
che
le
tariffe
doganali
sono
reciproche
e
che
ciò
porta
a
delle
guerre
doganali;
l’Italia
si
trovò
in
contrasto
in
particolare
con
la
Francia,
oltre
che
per
motivi
economici
anche
per
ciò
che
concerneva
le
mire
espansionistiche
di
entrambe
sul
Mediterraneo.
Tornando
al
problema
della
produzione
agricola,
si
può
notare
che
la
chiusura
dei
mercati
esteri
influì
più
o
meno
fortemente
a
seconda
delle
zone.
Se
l’agricoltura
delle
pianure
del
Nord,
grazie
ai
miglioramenti
tecnici
ormai
consolidati
non
ebbe
a
subirne
gran
danno,
al
Sud
le
produzioni
pregiate
di
vino,
olio
e
grano
ne
soffrirono
grandemente.
A
poco
valsero
gli
accordi
commerciali
con
l’Austria-Ungheria,
con
la
Germania
e
con
la
Svizzera
che
vedevano
una
reciproca
limitazione
delle
tariffe
doganali.
La
precaria
condizione
della
popolazione
rurale
provocò
dal
Nord
al
Sud
dei
moti
di
ribellione
più
o
meno
organizzati
che
assunsero
talvolta
un
carattere
violento.
Un’altra
forma
di
risposta
a
questa
situazione
di
indigenza
generalizzata
fu
l’emigrazione,
da
quella
d’oltralpe,
talvolta
anche
stagionale,
a
quella
nelle
Americhe,
che
generalmente
portava
a
una
sistemazione
definitiva
nei
nuovi
paesi.
La
situazione
di
crisi
spinse
anche
creare
scuole
e
cattedre
ambulanti
di
agricoltura,
al
fine
di
diffondere
quelle
moderne
tecniche
capaci
di
aumentare
la
produttività.
Il
governo
s’impegnò
anche
a
stanziare
appositi
fondi
per
lavori
di
bonifica
idraulica
e di
dissodamento
di
terreni
potenzialmente
produttivi.
Negli
ultimi
anni
dell’Ottocento
quando
l’Italia
attraversava
una
profonda
crisi
sociale
e
istituzionale,
a
livello
internazionale
già
si
vedevano
i
segni
di
una
ripresa
economica
che
avrebbe
investito
anche
il
nostro
paese.
L’industrializzazione
nel
Nord-Ovest,
ma
anche
in
certe
zone
del
Veneto,
procedeva
a un
buon
ritmo
con
conseguenti
fenomeni
di
abbandono
delle
campagne
e di
concentrazione
di
popolazione
delle
città
industriali.
Il
censimento
del
1911
contava
36
milioni
di
cittadini
con
un
incremento
di
circa
tre
milioni
rispetto
dieci
anni
prima,
pur
essendo
un
periodo
d’intensa
emigrazione.
Il
periodo,
denominato
Età
giolittiana,
i
primi
13-14
anni
del
Novecento,
vide
un
dinamismo
politico
che
pur
con
tutti
i
suoi
limiti
portò
a un
innegabile
sviluppo
in
tutti
i
campi
e
pure
l’agricoltura
ne
trasse
beneficio.
In
politica
estera
Giolitti
tentò
di
riallacciare
rapporti
più
amichevoli
con
la
Francia,
pur
non
rinnegando
l’alleanza
con
la
Germania
e
l’Austria-Ungheria.
In
una
situazione
di
crescita
globale,
com’era
quella
del
Novecento
d’anteguerra,
era
interesse
di
tutti
aprirsi
agli
scambi
commerciali
internazionali,
inoltre,
il
miglioramento
delle
condizioni
di
vita
della
popolazione
provocava
un
aumento
della
domanda
interna.
Tutto
questo
doveva
essere
ben
governato,
anche
con
un’adeguata
politica
fiscale
che
stimolasse
la
crescita
e
redistribuisse
la
ricchezza
a
una
fascia
sufficientemente
ampia
della
popolazione.
La
produzione
granaria
nazionale
in
questo
periodo
vedeva
una
crescita
significativa;
altrettanto
si
può
dire
per
il
riso,
che
un
paio
di
decenni
prima
era
in
profonda
crisi
per
motivi
commerciali
e
anche
fitosanitari,
mentre
ora
parte
della
produzione
trova
accesso
ai
mercati
esteri.
Per
ciò
che
riguarda
le
produzioni
del
Sud,
aumentarono
soprattutto
le
esportazioni
degli
agrumi.
La
produzione
dell’olio
e
del
vino
rimase
statica;
fattori
climatici
avversi,
per
la
vite
c’era
anche
il
problema
della
fillossera
e
delle
malattie
fungine
non
ancora
completamente
risolto,
determinarono
una
certa
stasi.
Giova
anche
ricordare
un
evento
internazionale:
la
guerra
ispano-americana
del
1898,
capace
di
incidere
anche
sulla
nostra
economia.
La
difficoltà
a
reperire
lo
zucchero
di
canna
proveniente
dalla
zona
caraibica
portò
a un
notevole
aumento
della
coltivazione
della
barbabietola
e
allo
sviluppo
dell’industria
saccarifera
italiana.
Con
un’agricoltura
che
cresceva
annualmente
del
2%
aumentava
anche
l’esigenza
dei
lavoratori
agricoli
di
organizzarsi,
ormai
coscienti
della
propria
importanza
nel
sistema
produttivo;
cresceva
di
pari
passo
l’esigenza
di
formare
tecnici
agrari
a
vario
livello
che
agissero
direttamente
nella
pratica
agricola.
I
consorzi
di
bonifica
ebbero
un
significativo
incremento
e
pure
gli
istituti
sperimentali
di
ricerca.
Non
è
che
tutto
procedesse
in
perfetta
armonia,
abbiamo
accennato
a
forme
di
rivendicazione
che
assumevano
talvolta
carattere
violento
a
cui
i
governi,
quasi
sempre
guidati
da
Giolitti,
risposero
con
moderazione.
Tale
stato
di
cose
si
protrasse
fino
alle
soglie
del
primo
conflitto
mondiale.