N. 113 - Maggio 2017
(CXLIV)
Le
statue di Riace e le origini dell’encausto
L’importanza di una goccia di bronzo
di Paolo Fundarò
I
recenti
restauri
dei
bronzi
di
Riace
hanno
permesso
di
ottenere
dati
certi
sulla
tecnica
di
fusione
antica
delle
due
celebri
statue.
Una
goccia
di
bronzo,
causata
dalla
colatura
della
cera
utilizzata
per
la
fusione
all’interno
della
coscia
del
bronzo
B,
ha
permesso
di
stabilire
con
certezza
che
l’antico
guerriero
è
stato
realizzato
con
la
tecnica
indiretta
a
cera
persa.
Questa
conferma
può
far
luce
su
un
argomento
assai
dibattuto
e
controverso,
su
cui
pende
ancora
un
velo
di
mistero:
le
origini
della
pittura
a
encausto.
.
A
sinistra
il
"bronzo
A",
a
destra
il
"B".
Plinio,
il
noto
enciclopedista,
nella
storia
naturale
afferma
«non
si
sa
chi
per
primo
abbia
avuto
l’idea
di
dipingere
a
cera
e
poi
scaldare
il
dipinto;
taluni
l’attribuisco
ad
Aristide
il
vecchio».
Per
poi,
aggiunge,
essere
perfezionata
da
Prassitele,
lo
scultore
in
bronzo
e
maro
(N.H.
35,
122).
Erroneamente
questa
pratica
viene
assegnata
all’antico
Egitto
prima
che
in
Grecia,
ma
le
evidenze
archeologiche
ci
dicono
che
la
cera
fu
usata
nella
pittura
della
XVIII
dinastia
(per
intenderci,
quella
di
Tutankhamon)
esclusivamente
in
qualità
di
protettivo
per
le
pareti,
una
sorta
di
vernice
detta
Gànosis.
Nel
mondo
egizio,
dunque,
la
cera
non
è
mescolata
coi
pigmenti
per
essere
sovrapposta
in
strati
pittorici,
ottenendo
effetti
di
chiaroscuro
e un
intenso
realismo,
come
invece
avverrà
nell’arte
greca.
È
certamente
curioso
osservare
che
secondo
il
racconto
di
Plinio
i
più
antichi
pittori
ad
encausto
come
Polignoto
di
Taso
(attivo
nel
480-450
a.C.),
Nikanor,
Mnesilaos
di
Paro,
ed
Elasippo
di
Egina,
risalgono
tra
l’inizio
e la
metà
del
V
secolo
a.C.
Operavano
in
botteghe
oltre
che
come
pittori
anche
come
bronzisti,
cesellatori,
ecc.
Plinio
elenca
numerosi
pittori
del
V e
IV
secolo
a.C.
famosi
nell’arte
della
pittura
e
della
statuaria.
Sorge
dunque
naturale
l’interrogativo
se
le
due
pratiche
possano
avere
una
relazione.
Per
fare
luce
su
questo
tema
assai
incerto,
la
domanda
che
dobbiamo
porci
è la
seguente:
“Se
sei
un
pittore
a
encausto
del
V
secolo
a.C.
(l’epoca
delle
statue
ritrovate
a
Riace,
460-430
a.C
circa),
e
adoperi
cera
d’api
pigmentata
per
l’esecuzione
di
dipinti
su
tavola
e
nello
stesso
tempo
impieghi
cera
d’api
per
realizzare
il
modello
di
fusione
sull’anima
in
argilla
di
una
statua
in
bronzo;
se
per
rifinire
questi
manufatti
usi
pennelli
e
spatole,
sia
per
spalmare
la
cera
e
ottenere
specifici
effetti
artistici
di
modellato
nella
statuaria,
sia
per
ottenere
particolari
effetti
pittorici,
possibile
che
in
te,
stesso
artista,
le
due
pratiche
siano
distinte?”.
Notare
che
le
fonti
antiche
adottate
da
Plinio
nel
libro
35
sui
pittori,
i
dati
biografici
e le
origini
dell’encausto
sono
fornite
da
due
autori
operanti
in
varie
località,
tra
cui
Pergamo,
intorno
alla
metà
del
III
sec.
a.C.,
ovvero
Senocrate
e
Antigono
di
Caristo.
Ambedue
gli
artisti
scrissero
di
pittura
e
arte
del
bronzo.
Sono
ritenuti
i
fondatori
della
critica
d’arte
antica,
sebbene
con
una
predisposizione
a
favore
della
scuola
sicionica.
Può
essere
che
questi
due
autori
forniscano
ai
lettori
di
Plinio
spunti
di
riflessione
sulla
nascita
della
pittura
a
cera
nella
Grecia
antica
senza
averne
una
chiara
consapevolezza?
Esaminiamo
ora
l’esecuzione
delle
due
pratiche
e
cerchiamo
di
coglierne
i
nessi
in
una
prospettiva
storica.
La
tecnica
dei
grandi
bronzi
con
metodo
indiretto,
che
si
sviluppa
in
Grecia
verso
la
fine
dell’età
arcaica,
prevedeva
come
soluzione
innovativa
la
saldatura
di
arti
e
testa
in
una
fase
secondaria
rispetto
la
realizzazione
della
figura
centrale
(diversamente
accadeva
nel
Medioevo
e
Rinascimento,
quando
la
pratica
della
saldatura
era
andata
perduta
e si
riutilizza
il
metodo
diretto,
che
riprende
l’uso
di
un’unica
gettata,
fondendo
cioè
la
statua
in
un
blocco
unico
–
come
ad
esempio,
secondo
le
più
recenti
indagini,
la
lupa
capitolina
risalente
al
Medioevo).
Questo
stratagemma
consentiva
pose
(rhythmoi)
ardite
e
più
articolazioni
nei
movimenti.
La
tecnica
indiretta
rendeva
possibile
la
preparazione
di
singole
parti
in
cera
(troppo
macchinose
col
metodo
diretto)
ottenute
dai
negativi
del
modello
originario
in
argilla
e la
loro
fusione
separata.
La
ricomposizione
dell’insieme
delle
parti
avveniva
mediante
una
raffinata
saldatura,
sviluppatasi
in
Grecia
verso
la
seconda
metà
del
VI
secolo
a.C.
Tutte
le
statue
antiche,
nessuna
esclusa,
sono
riassemblate
per
mezzo
di
saldatura.
Nei
nudi
di
statue
maschili
sono
sempre
separate
testa,
braccia,
una
o
ambedue
le
gambe,
mani,
in
alcuni
casi
i
genitali
e
sovente
metà
dei
piedi
e il
dito
medio
di
quest’ultimi.
Il
metodo
di
fusione
in
parti
divise
e
della
loro
successiva
saldatura
perdura
fino
all’età
tardo
antica;
nel
Medioevo
e
nel
Rinascimento
l’ingegnosa
abilità
delle
giunture
metallurgiche
è
perduta,
cosicché
in
caso
di
riparazioni
si
ricorreva
ad
aggiunte
agganciate
con
meccanismi
ad
incastro.
Utilizzando
la
fusione
in
un
unico
getto,
difatti,
si
evita
la
complicata
e
laboriosa
ricomposizione
delle
parti
abilmente
mascherate
(come
accade
nelle
“giornate”
nella
tecnica
pittorica
dell’affresco);
ma è
impossibile
ottenere
o
conservare
preziosi
dettagli
anatomici
come
i
brevi
spazi
vuoti
tra
le
dita
dei
piedi
o il
leggero
intervallo
nelle
pieghe
di
una
veste
o
nelle
ciocche
dei
capelli.
Nei
bronzi
di
Riace,
la
complessità
della
chioma
ondeggiante
è
ottenuta
dalla
fusione
separata
di
riccioli
singoli
o in
coppie,
e
dalla
loro
successiva
saldatura
nella
testa
in
tre
strati
sovrapposti
a
riprova
della
validità
della
singolare
e
sofisticata
tecnica
ideata,
la
quale
permetteva
di
mutare
l’aspetto
ottico
della
statua
grazie
ai
vari
e
cangianti
toni
di
luce
nelle
diverse
ore
del
giorno.
Rimarchevole
è
che
i
segni
rivelatori
del
metodo
indiretto
sono
le
assenze
di
tracce
degli
strumenti
che
hanno
modellato
l’anima
in
argilla,
mentre
è
evidente
la
presenza
di
segni
di
spatole
e
pennelli
per
la
lavorazione
della
cera.
Tenuto
conto
che
le
statue
in
bronzo,
una
volta
fuse,
venivano
levigate
accuratamente
col
periodico
ausilio
manuale
di
morchia
d’olio
o
bitume,
in
maniera
tale
che
col
tempo
si
depositasse
una
patina
scura
o
persino
nerastra,
e
considerata
l’importanza
di
alcuni
elementi,
come
gli
occhi,
preparati
a
parte
con
materiali
di
pregio
(avorio,
ambra,
pasta
vitrea
o
calcite)
e
inseriti
come
rifinitura
finale
da
una
specifica
categoria
di
artigiani
detti
artifices
oculararii,
non
è
escluso
che
il
modello
in
cera,
prima
della
fusione,
fosse
colorato
con
pigmenti
che
dovevano
rendere
in
maniera
netta
e
chiara
il
risultato
finale
e
integrale
della
statua.
La
pratica
e
l’uso
della
cera
nei
grandi
bronzi
antichi,
applicata
con
pennelli
e
spatole,
a
caldo
o a
freddo,
per
la
realizzazione
del
modello
sull’anima
di
argilla,
deve
sicuramente
avere
una
relazione
con
l’uso
del
pennello
e di
strumenti
metallici
per
sovrapporre
strati
di
colori
a
cera
e
ritoccare
dettagli
pittorici,
se a
farlo
è il
medesimo
artefice
che
adotta
e si
esprime
con
la
stessa
materia
e
gli
stessi
utensili,
anche
se
per
ottenere
risultati
differenti.
Le
origini
della
pittura
ad
encausto
sono
dunque
da
ricercare
nelle
officine
dei
pittori-bronzisti
del
V
secolo
a.C.,
visto
che
la
realizzazione
tecnica
dei
grandi
bronzi
del
periodo
sembra
quasi
schiudersi
come
un
indiretto
manuale
di
pittura.