[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

172 / APRILE 2022 (CCIII)


filosofia & religione

SULLA CONDIZIONE NATURALE DELL’UMANITÀ

L’EDUCAZIONE ALLE PASSIONI

di Luisa Tamiro

 

Cosa si intende per stato di natura? Gli uomini si ritrovano in una perfetta condicio di uguaglianza nel cosidetto stato di natura, all’interno del quale non è possibile costituire una forma o struttura sociale cioè una società. Da questo status di parità afferente le attribuzioni fisiche e mentali, ne consegue che sebbene esistano differenze alquanto irrisorie tra uomo e uomo, queste non giustificano o meglio implicano la formazione del potere decisionale in capo a un soggetto piuttosto che un altro.

 

Tutti i soggetti si ritrovano a possedere la stessa forza fisica con le dovute sfumature, e, la stessa forza mentale, tali da spingerli a esternare quella cupidigia nel raggiungimento dei loro fini, nel perseguimento degli stessi ideali e nella materializzazione delle loro idee in termini di potere e di possedimenti. Ecco che subentra in maniera del tutto assiomatica l’osservanza dello Ius Omnium in Omnia ovvero il diritto su ogni cosa, meglio ravvisabile sotto la denominazione di diritto naturale, in virtù del quale l’uomo possa fare riferimento e dunque ricorrere a tutto ciò che necessita per godere del diritto alla vita e di tutte quelle libertà fondamentali da esso scaturenti.

 

Ma come viene visto l’altro, rispetto all’Io che intende raggiungere il proprio scopo?

 

Ciascun altro individuo viene percepito come potenziale e in seguito effettivo nemico, rivale, ostacolo che va eliminato utilizzando tutti gli strumenti a disposizione, considerato che all’uomo all’interno dello stato di natura tutto è concesso, poiché dotato di libertà e potere secondo una mole sconfinata.

 

Si evince così la fragilità dello stato di natura, legata al fatto che non vi è una regola od una norma alla quale soggiacere, un potere compartecipato, e, quindi accettato e condiviso da tutti, un potere regolatore che ponga ordine e rispetto reciproco.

 

La risultante è quella situazione atipica ma a oggi ahimè ancora presente, della lotta di tutti contro tutti, dacché se due uomini esternano bramosia per la stessa cosa, non essendo questa fruibile da entrambi, ad esempio come un bene rivale, economicamente parlando tanto per intendersi, questo porta alla dialettica della sopraffazione edella distruzione, detta in maniera semplicistica a un vero e proprio stato di guerra.

 

Non a caso nello stato di natura tre sono le cause principali di contesa cioè la rivalità di cui è stato poc’anzi confutato, la diffidenza e l’orgoglio, le quali rappresentano il motivo di attuale conflitto all’interno di uno stato di diritto. Tutte queste cause conducono al medesimo risultato ovvero l’aggressione, anche se per ragioni diverse: la prima per trarre vantaggi, la seconda per questioni legate alla sicurezza e la terza per mera reputazione.

 

Da tutto questo discorso, è facilmente desumibile che l’uomo nella condizione naturale non riesce a garantire nulla per sé, vivendo in un perenne stato di incertezza, e, di conseguente lotta con tutti gli altri, ragion per cui Thomas Hobbes definì tale condizione come Homo homini lupus significando che ciascun uomo è il lupo dell’altro, per cui, uccidere diventa persino un diritto.

 

A tal proposito, Hobbes ritenne ineluttabile uscire da questo status, asserendo la propensione dell’uomo alla pace e all’obbedienza di carattere civile, in qualità di essere razionale. Di fatto la ragione è la vera dicotomia tra uomo e animale, l’essere pensante, il cogito ergo sum di Cartesio, è una perfetta trasposizione materiale su questo ambito, dunque la capacità dell’uomo di riconoscere il fenomeno causa-effetto grazie alla razionalità.

 

In realtà secondo Hobbes, l’uomo di per sé stesso è sottoposto a un comando che deriva dalla ragione e che si identifica con la manifestazione della voce di Dio, percepibile appunto solo attraverso la ratio, quest’ultima rende possibile la costituzione di un accordo tra uomini che si concretizza nella formazione con un soggetto terzo di un patto, mediante il quale si esce dalla condizione di contesa, sottoscrivendo così un contratto, il quale prevede e implica la cessione di ogni diritto e conseguente libertà a un soggetto terzo, sul quale grava l’obbligo di ristabilire l’ordine.

 

Questo soggetto si identifica con il famigerato Leviatano, cioè l’essere dotato di capacità amministrative e gestionali, senza un legame particolare, e questo è fondamentale, in virtù delle quali i membri della società non entrano in conflitto e non arrivino a uccidere. Si fonda così la società politica comunemente nota come Stato, il quale per poter funzionare richiede la figura di quel soggetto terzo ossia del Sovrano.

 

John Locke invece diversamente da Hobbes ritenne che lo stato di natura non fosse ex ante contaminato da guerre e disordini di carattere sociale, in virtù dell’esistenza innata della legge di natura all’interno di ciascun individuo e posta a presidio della libertà, della salute e della proprietà. Il cosidetto pactum diviene ineluttabile al fine di limitare il potere del sovrano, che in quanto tale, è soggetto all’osservanza di tale patto, al contrario di quanto teorizzò Hobbes, instaurando così quella forma di potere limitato dal diritto naturale stesso.

 

A distaccarsi dalla teorizzazione Hobbesiana fu il filosofo illuminista francese Jean- Jacque Rousseau, il quale prese le mosse all’insegna di una diversificata concezione antropologica, perché ritenne che l’uomo all’interno dello stato di natura fosse innocente e che solamente con l’introduzione della proprietà privata si diede luogo al conflitto, tendenzialmente intercorrente tra ricchi e poveri, cui si poté porre fine attraverso quel potere dirimente da ascrivere allo Stato. Non a caso in una delle sue opere più importanti quali Il Contratto sociale, il filosofo pose le basi per l’istituzione di un ordinamento repubblicano attento alla cura degli interessi dei molti, quindi della società nella sua integrità, colmando o meglio riducendo l’amplia pletora di disuguaglianze.

 

Andando un po' oltre questo discorso politico, e, quindi soffermandosi sull’aspetto per così dire morale, è opportuno sottolineare come l’agire dell’uomo sia stato sempre mosso dalle passioni. Nel caso della formazione dello stato civile in sostituzione di quello naturale, le passioni che indussero gli uomini alla pace furono la paura di morire e, la spasmodica brama, quindi il desiderio di tutto ciò che inerisce la piacevolezza della vita.

 

Ricollegandosi infatti alla concezione prettamente sensistica di Locke e all’articolazione della sua tesi vista come uno sviluppo delle questioni enucleate da Tommaso D’Aquino secondo le quali “nulla c’è nell’intelletto che non è prima passato dai sensi”, è importante denotare la dicotomia tra sensi esterni e sensi interni, dove per questi ultimi si intende la capacità di percepire il bene e il giusto i quali sottendono alla regolazione del comportamento umano.

 

Sulla stessa lunghezza d’onda si mantenne un altro filosofo settecentesco, Claude Adrien Helvetius, il quale si annovera tra coloro i quali sostennero che l’uomo fosse mosso da passioni ma non solo. Helvetius sostenne che l’educazione alle passioni fosse prioritaria per la società, implicando al contempo l’interdipendenza tra una passione e l’altra, e ammettendo dunque l’esistenza di una vero e proprio fenomeno di genealogia delle passioni.

 

Sulla base di tali assunti, le passioni possono essere viste come risorse sociali, grazie alle quali diventa possibile affrontare la modernità e curare le patologie sociali a essa connesse. L’essere empatici cioè riuscire a mettersi nei panni dell’altro, ammettere la propria vulnerabilità, provare ancora vergogna. Tutto ciò dovrebbe stare a fondamento della società, del buon senso, della conduzione di uno stile di vita sano e produttivo, in cui si ha cura dell’altro e di tutto ciò che si ha intorno.

 

Analizzando il discorso da un punto di vista squisitamente sociologico si può affermare che tutt’ora viviamo la fase dell’interregno gramsciano in cui il vecchio ordine ûrappresentato dalla fase più dinamica della globalizzazione cioè la modernità liquida – muore e il nuovo non riesce a nascere.

 

Pertanto diviene spontaneo chiedersi se siamo davvero usciti dallo stato di natura, o, viviamo in uno stato civile in cui la legge di natura è negata?

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

T. Hobbes, Leviatano, A. Pacchi, A. Lupoli (a cura di), Roma-Bari, Laterza, 2008.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]