N. 64 - Aprile 2013
(XCV)
Verso lo stato moderno
parte II - Le costituzioni melfitane
di Laura Ballerini
Lo
scopo
di
Federico
II
era
quello
di
far
diventare
il
Regno
un
modello
per
gli
altri
popoli,
scrivendo
delle
leggi
che
potessero
regolamentare
il
vivere
comune,
combattere
il
sistema
feudale,
eliminare
i
privilegi
delle
autorità
intermedie
(baroni,
conti,
etc.)
e
accentrare
intorno
al
sovrano
–
inteso
come
rappresentante
di
Dio
sulla
terra
– e
al
suo
governo
ogni
potere.
All’interno
del
castello
di
Melfi,
Federico,
Pier
delle
Vigne
e,
si
ritiene,
anche
l’Arcivescovo
di
Capua
Giacomo
Amalfitano,
davano
vita
al
corpo
di
leggi
raccolto
nel
Liber
Constitutionum
Regni
Siciliae
o
Liber
Augustalis;
fuori
dal
castello,
invece,
il
sovrano
aveva
ordinato
che
fossero
controllati
tutti
i
titoli
e i
privilegi
dei
nobili
del
regno,
punendoli
con
la
confisca
dei
beni
ove
fossero
stati
commessi
abusi,
limitandone
così
la
forte
autorità.
Tornando
alle
costituzioni,
esse
si
basavano
sul
diritto
romano,
in
particolare
sul
Corpus
Iuris
Civilis
di
Giustiniano,
sapientemente
coniugato
con
il
diritto
normanno
–
sono
presenti
infatti
65
leggi
provenienti
dalle
tradizioni
del
popolo
materno
– e
furono
tradotte
anche
in
greco
per
permetterne
una
maggiore
fruizione.
I
255
titoli
delle
Constitutiones
furono
divisi
in
tre
libri,
dove
il
primo
(109
titoli)
si
occupava
di
diritto
penale,
il
secondo
(52
titoli)
di
diritto
pubblico,
e il
terzo
(94
titoli)
del
diritto
feudale,
della
proprietà
e
della
famiglia.
Nel
libro
primo,
rifacendosi
al
diritto
romano,
i
sudditi
venivano
considerati
uguali
di
fronte
alla
legge
e
giudicati
da
un
unico
tribunale
(furono
dunque
aboliti
i
tribunali
ecclesiastici);
i
baroni
e i
membri
del
clero
persero
tutte
le
loro
funzioni
giuridiche,
riversate
in
una
burocrazia
centrale,
i
cui
magistrati,
in
carica
per
un
solo
anno,
venivano
stipendiati
dallo
Stato.
Nel
secondo
libro
l’intero
regno
veniva
riordinato,
poggiandosi
su
una
burocrazia
gerarchica
che
vedeva
il
suo
vertice
nel
sovrano,
seguito
dai
grandi
ufficiali
della
Corona
(Grande
Ammiraglio,
Gran
Protonotaro,
Gran
Camerario,
Gran
Siniscalco,
Gran
Cancelliere,
Gran
Connestabile,
Maestro
Giustiziere),
che
svolgevano
le
funzioni
degli
odierni
ministri.
Questi
ultimi
erano
scelti
direttamente
da
Federico,
non
tra
membri
della
nobiltà,
come
era
uso
precedentemente,
ma
tra
uomini
di
lettere,
di
grande
cultura.
Il
Maestro
Giustiziere
era
a
capo
della
Magna
Curia,
ovvero
la
Corte
di
Giustizia,
investita
del
potere
giuridico
e di
controllo
sui
funzionari.
L’altro
importante
organo
dello
Stato
era
il
Parlamento,
ancora
lontano
dall’odierna
funzione
di
elaborazione
e
approvazione
delle
leggi,
in
quanto
esso
era
una
grande
assemblea
dove
i
feudatari
e i
rappresentanti
delle
università
e
delle
città
venivano
messi
a
conoscenza
delle
leggi
emanate
dal
Re,
senza
avere
la
facoltà
di
discuterle.
Il
territorio
del
Regno
era
suddiviso
in
assemblee
provinciali
presiedute
da
un
giustiziere,
assistito
da
giudici
e
notai
nominati
dal
Re,
tra
questi
figuravano
i
conti
e i
baroni
con
cui
il
sovrano
si
era
scontrato.
In
questo
modo
dunque
Federico
aveva
ridotto
l’autorità
dei
nobili
a
funzionari
regi.
Anche
i
poteri
delle
città
vennero
drasticamente
ridotti,
Federico
infatti
non
poteva
accettare
la
volontà
di
queste
di
diventare
comuni,
in
grado
di
eleggere
i
propri
podestà;
frenò
le
loro
smanie
di
autonomia
arrivando
anche
all’intervento
armato
e
alla
pena
di
morte
per
i
capi,
evitando
così
che
emulassero
i
comuni
del
nord
Italia.
I
militari,
di
cui
Federico
si
era
valso
in
più
occasioni
per
imporsi
sui
nobili
e
gli
aspiranti
comuni,
erano
parte
di
un
esercito
di
Saraceni
dipendente
unicamente
dal
Re.
Così
il
sovrano
arginava
la
precedente
prassi
di
attendere
che
fossero
baroni
e
comuni
a
fornire
la
milizia,
un
dovere
a
cui
spesso
si
sottraevano.
Ai
cittadini
inoltre
era
vietato
il
possesso
di
armi,
così
da
evitare
si
creasse
un
parallelo
esercito
antistatale.
Per
quel
che
riguarda
le
finanze,
invece,
esse
erano
amministrate
da
una
camera
apposita
nota
come
Magna
Curia
Rationum.
Tutti
i
sudditi
dovevano
pagare
i
tributi
regi,
riscossi
da
organi
addetti
e
vennero
introdotti
i
monopoli
di
Stato
su
seta,
sale,
ferro
e
grano.
Vennero
abolite
le
dogane
e i
dazi
per
incentivare
i
commerci
e
introdotte
nuove
colture
per
stimolare
l’agricoltura.
Nel
terzo
libro
veniva
combattuto
il
potere
feudale
e
limitate
le
grandi
proprietà.
Veniva
proibita
la
vendita
dei
feudi,
di
qualsiasi
dimensione
e
valore,
in
quanto
appartenenti
unicamente
allo
Stato.
I
baroni
quindi
perdevano
tutti
i
privilegi
che
si
erano
attribuiti,
e
allo
stesso
modo
gli
ecclesiastici
perdevano
ogni
diritto
di
proprietà,
con
l’obbligo
di
vendere
quella
che
ereditavano.
Federico
II
di
Svevia
era
riuscito
nel
suo
intento:
aveva
creato
uno
Stato
modello
dall’economia
florida,
rigidamente
organizzato,
riportando
nelle
sue
mani
tutto
il
potere
e
affossando
il
sistema
feudale.
Aveva
creato
uno
Stato
moderno.
Potrà
sembrare
azzardato
parlare
di
Stato
moderno
nel
1231,
ma i
più
illustri
storici,
come
Wolfgang
Reinhard
e
Paolo
Prodi,
concordano
nel
definire
moderno,
un
Stato
che
abbia
portato
a
termine
i
processi
di
burocratizzazione,
accentramento
del
potere
e
secolarizzazione,
tutti
procedimenti
portati
brillantemente
a
termine
da
Federico
II
di
Svevia,
che
può
quindi
essere
ritenuto
il
primo
sovrano
moderno
d’Europa.