N. 106 - Ottobre 2016
(CXXXVII)
Lo stato moderno
dalle
costituzioni per ceti alle nazioni
di
Marco Fossati
Lo Stato, istituzione fondamentale del
mondo
contemporaneo,
è il
risultato
di
un
lungo
processo
di
formazione
che
ha
la
sua
fase
essenziale
tra
XIV
e
XVIII
secolo.
Prima
di
tale
periodo
era
inconcepibile
sia
la
funzione
che
l’idea
stessa
di
Stato;
anche
il
termine
latino
originario,
status,
assumeva
un
diverso
significato.
L’Occidente medievale era caratterizzato da due
poteri
universali:
l’Impero
e la
Chiesa.
Semplificando
possiamo
considerarli
al
vertice
di
quel
complesso
sistema
feudale
costituito
da
un
intrico
di
rapporti
personali,
in
cui
il
potere
(considerato
emanazione
di
Dio)
e
quindi
le
funzioni
di
governo
discendevano
verso
il
“basso”.
In
altre
parole,
l’amministrazione,
ovvero
tutto
quello
che
oggi
individuiamo
come
tipica
espressione
dello
Stato,
era
dispersa
in
una
moltitudine
di
soggetti.
Conti,
marchesi
ma
anche
vescovi
o
abati
(la
nobiltà),
controllavano
territori
più
o
meno
vasti
e
gestivano
poteri
statuali
quali
la
giustizia,
la
difesa,
la
gestione
delle
risorse
finanziarie.
In
teoria
essi
erano
parte
ovvero
sottomessi
(vassalli),
sia
all’Impero
che
alla
Chiesa,
ai
quali
dovevano
fare
riferimento
per
ottenere
legittimazione
al
proprio
governo.
Il
secolare
scontro
tra
i
due
poteri
universali
determina
per
entrambi
un
lento
declino
in
termini
di
forza
reale,
che
allenta
sempre
più
i
legami
con
i
vassalli
e
disgrega
la
struttura
feudale.
Tale
situazione
favorisce,
a
partire
dal
XII
secolo,
il
graduale
sviluppo
delle
monarchie
europee.
In molte zone d’Europa, il titolo di Re,
che
all’interno
del
sistema
feudale
aveva
avuto
scarso
valore
pratico,
riprende
vigore
grazie
a
soggetti
che,
per
tradizione
o
carisma
personale,
iniziano
a
diventare
i
punti
di
riferimento
dei
nobili
locali.
Di
conseguenza,
sebbene
senza
un
progetto
consapevole
e
programmato,
intorno
al
monarca
si
forma
lentamente
un
organismo
–
consilum,
curia,
parlamentum,
ecc
–
che
richiama
i
potenti
laici
ed
ecclesiastici
di
un
determinato
territorio,
a
prestare sostegno al
governo
del
re.
Possiamo
citare
Pietro
III
il
Grande
che
convoca
le
Cortes
catalane
a
Barcellona
nel
1283
o
Filippo
IV
che
nel
1301
riunisce
a
Parigi
gli
Stati
generali
francesi,
quali
primi
esempi
concreti
di
assemblee
parlamentari
ormai
formalizzate.
Inoltre,
tra
XIII
e XIV
secolo
si
moltiplicano
documenti
che
definiscono
ufficialmente
tali
situazioni.
Atti
redatti
sotto
forma
di
contratti
di
tipo
feudale
(contratti
di
signoria
basati
su
legami
personali),
nei
quali
i
gruppi
sociali
(ceti),
espressione
dei
poteri
locali,
concordano
con
il
rispettivo
sovrano
i
propri
diritti,
doveri
e i
limiti
del
potere
monarchico.
La
Magna
Charta
inglese
del
1215
è
forse
il
più
famoso
di
tali
documenti.
Si concretizza così un primo stadio nella formazione
dello
Stato
quello
che
gli
storici
chiamano
stato
per
ceti,
o
costituzione
per
ceti.
Un’organizzazione
del
potere
che
inizialmente
mette
sullo
stesso
piano
re e
potentati
locali
in
una
situazione
di
equilibrio
ma
in
realtà
nasconde
un
lento
movimento
di
sovrapposizione
del
sovrano
ai
ceti
stessi.
Un
movimento
sicuramente
influenzato
dai
forti
mutamenti
economico-sociali
che
compaiono
negli
ultimi
secoli
del
Medioevo
e
che
generano
una
conflittualità
diffusa,
di
conseguenza
l’emergere
delle
monarchie
avviene
quasi
sempre
in
modo
violento:
“Quella
militare
resta
sempre
una
funzione
decisiva
del
sovrano,
è
dunque
conseguente
che
la
guerra
e
l’amministrazione
militare
fungano
da
primo
motore
e
volano
di
tutto
il
processo
di
affermazione
del
governo
monarchico
e di
espansione
e
rafforzamento
della
macchina
statale”
(Ortu).
Pertanto, se la Guerra dei Cent’anni
(1337-1453)
vede
definirsi
il
Regno
di
Francia
intorno
alla
dinastia
Valois,
in
Inghilterra
i
conflitti
della
Guerra
delle
Due
Rose
(1455-1485)
favoriscono
l’ascesa
al
trono
della
famiglia
Tudor.
In
Spagna
l’unione
matrimoniale
tra
i
sovrani
d’Aragona
e
Castiglia
(1469)
blocca
le
ambizioni
dell’aristocrazia,
sarà
poi
la
guerra
di
Reconquista
dei
territori
islamici
a
consolidare
il
regno
iberico.
In
Germania
e
soprattutto
in
Italia
tale
fenomeno
di
accentramento
del
potere
avviene
in
modo
frammentario,
dato
che
in
queste
regioni
era
particolarmente
diffuso
e
radicato
il
fenomeno
comunale.
Iniziato
nel
XI
secolo
era
l’esempio
di
una
riorganizzazione
del
potere
dal
“basso”
che
si
inseriva
nel
sistema
feudale
dei
legami
gerarchici;
apportava
elementi
importanti
(che
saranno
ripresi
secoli
dopo)
come
la
condivisione
di
diritti
e
doveri
(statuti),
base
delle
comunità
cittadine,
richiamando
la
gestione
del
“bene
pubblico”
di
tradizione
romana
ed
introducendo
un
principio
di
spersonalizzazione
del
potere.
Non è un caso che il termine “Stato” inizi a
circolare
proprio
nell’Italia
del
Trecento
per
indicare
le
organizzazioni
politiche
che
caratterizzano
la
realtà
urbana
della
Penisola.
Comunque,
tra
XIV
e XV
secolo,
anche
nell’area
italiana
e in
quella
germanica,
le
numerose
guerre
polarizzano
il
potere
intorno
ai
centri
urbani
più
grandi
che
iniziano
a
dominare
il
territorio
circostante.
Si
formano
così
repubbliche
guidate
da
un’oligarchia
di
patriziato
cittadino
(è
il
caso
di
Genova
e
Venezia)
o
principati
(monarchie
in
“formato
ridotto”)
retti
da
una
dinastia
(ad
esempio
la
Toscana
con
i
Medici,
gli
Asburgo
in
Austria,
gli
Hohenzollern
nel
Brandeburgo).
In
questo
periodo
l’aspetto
militare
cambia
profondamente;
non
solo
iniziano
a
comparire
armamenti
particolari
come
la
polvere
da
sparo
e il
cannone
ma
si
diffonde
anche
l’utilizzo
di
eserciti
formati
da
migliaia
di
uomini
(in
gran
parte
mercenari);
elementi
che
fanno
aumentare
notevolmente
i
costi
delle
guerre,
favorendo
pure
l’accentramento
del
potere.
Il
rafforzamento
delle
monarchie
rimane
comunque
limitato
fino
al
Cinquecento,
quando
emergono
con
maggiore
evidenza
i
primi
caratteri
di
quelle
che,
ai
nostri
giorni,
potremmo
definire
strutture
statali.
Il rapido aumento demografico, accompagnato dal
notevole
incremento
degli
scambi
commerciali
e
l’enorme
afflusso
di
metalli
preziosi
dal
continente
americano,
sono
alcuni
dei
fattori
che
determinano,
nel
XVI
secolo,
un
radicale
cambiamento
negli
assetti
economici
europei;
di
fatto,
l’avvio
di
un’economia
pre-capitalistica.
La
società
è
profondamente
scossa
da
tali
cambiamenti
che
si
sommano
alle
contrapposizioni
religiose
seguite
alla
Riforma
luterana
e
alla
successiva
Controriforma
cattolica.
Iniziano
quasi
due
secoli
di
conflitti
religiosi,
economici
e
politici
che
si
sovrappongono,
con
il
risultato
di
un
ulteriore
e
sensibile
aumento
di
guerre
e
spese
militari.
Se
in
precedenza
il
re
copriva
tali
spese
con
i
propri
beni
o
con
il
ricorso
alle
assemblee
dei
ceti
(chiedendo
l’autorizzazione
per
nuove
tasse
o
finanziamenti),
già
dalla
metà
del
Cinquecento
tale
pratica
risulta
inadeguata.
Un secolo dopo, “le spese annuali dei principati
del
continente,
dal
Piemonte
alla
Svezia,
erano
dovunque
dedicate
in
misura
prevalente
e
ripetitiva
alla
preparazione
della
guerra
o
alla
sua
conduzione,
ora
enormemente
più
costosa
che
durante
il
Rinascimento”
(Anderson).
Le
monarchie
sono
in
pratica
costrette
a
reperire
ulteriori
risorse
attraverso
il
sistema
fiscale;
sia
aumentando
i
dazi
e le
tasse
sulle
merci,
sia
introducendo
un
principio
di
imposizione
diretta
(sconosciuto
nel
Medioevo).
Quest’ultimo
aspetto,
che
ebbe
tempi
e
metodi
di
applicazione
diversi
da
una
parte
all’altra
dell’Europa,
introduceva
un
vincolo
di
dipendenza
tra
i
membri
della
società
con
il
concetto
che
tutti
erano
tenuti
a
contribuire
alle
spese
generali
(un
primo
reale
tassello
nella
formazione
dello
Stato).
Nell’Italia
comunale
l’imposizione
diretta
inizia
a
diffondersi
già
nel
XIV
secolo.
In
Francia,
viene
introdotta
alla
metà
del
Quattrocento
la
prima
tassa
applicata
a
tutto
il
Regno
(la
taille
royal)
per
il
finanziamento
delle
unità
militari
(compagnies
d’ordonnance).
In
Spagna
le
imposte
dirette
sono
applicate
regolarmente
dalla
fine
del
XVI
secolo
ma
solo
in
Castiglia.
Mentre
nella
Prussia-Brandeburgo
un
vasto
sistema
fiscale
(da
cui
era
esentata
la
nobiltà)
verrà
introdotto
solo
dopo
il
1653.
Sia le funzioni di difesa che quelle finanziarie
determinano
un’estensione
progressiva
degli
interessi
del
governo
monarchico
che
inizia
ad
occuparsi
anche
di
altri
ambiti
fino
ad
allora
monopolio
dei
potentati
locali:
l’amministrazione
della
giustizia;
la
gestione
delle
risorse
economiche
e la
monetazione;
la
produzione
legislativa.
Tali
nuove
funzioni
vedono
in
tutte
le
monarchie
europee
la
nascita
di
un
apparato
di
funzionari
che
sono
emanazione
del
governo
del
re e
lo
rappresentano
fisicamente
in
tutto
il
territorio
(commissari,
governatori,
magistrati,
ecc.).
Tutto
questo
mette
ovviamente
in
crisi
il
modello
dello
“stato
per
ceti”,
basato
sull’equilibrio
tra
sovrano
e
gruppi
sociali,
che
in
pratica
perde
efficacia
nel
corso
del
XVII
secolo:
“I
sistemi
basati
sugli
stati-ceti
declinarono
mentre
il
potere
di
classe
della
nobiltà
assumeva
la
forma
di
una
dittatura
centripeta
messa
in
pratica
sotto
le
insegne
reali”
(Anderson).
Il punto di svolta avviene quando i sovrani si
appropriano
della
funzione
legislativa
esautorando
lentamente
i
potentati
locali.
Inizia
a
prevalere
il
diritto
regio
scritto
su
tutto
il
complesso
di
norme
di
derivazione
medievale
al
fine
di
conseguire
una
migliore
uniformità
territoriale.
Uno
dei
maggiori
scrittori
politici
del
XVI
secolo,
Jean
Bodin,
nei
I
sei
libri
della
Repubblica
del
1576,
aveva
già
inquadrato
l’aspetto
dal
punto
di
vista
teorico:
“Il
punto
più
alto
della
maestà
sovrana
sta
nel
dar
legge
ai
sudditi
in
generale
e in
particolare
senza
bisogno
del
loro
consenso”.
Il
Code
Henry
III
del
1587
in
Francia,
La
nueva
Recopilacion
de
las
Leyes
de
Espana
emanata
nel
1567
sotto
il
regno
di
Filippo
II o
i
Nuovi
Ordini
(1561-1566)
nel
Piemonte
di
Emanuele
Filiberto
di
Savoia,
sono
i
primi
esempi
di
questo
fenomeno
generalizzato
che
sancisce
l’avvio
della
seconda
fase
di
formazione
dello
stato
moderno:
lo
stato
assoluto.
Esercito permanente, apparato fiscale e amministrativo,
queste
sono
le
caratteristiche
di
un’
organizzazione
politica
che
si
accentra
sempre
più
intorno
alla
figura
del
sovrano;
detentore
di
un
potere
senza
vincoli
e
quindi
assoluto.
Ma
l’affermazione
dell’assolutismo
si
scontra
inevitabilmente
sia
con
la
nobiltà
che,
decaduto
il
sistema
assembleare,
diviene
subalterna
al
potere
monarchico
e
minacciata
nei
suoi
interessi
dallo
Stato-monarchia;
sia
con
la
popolazione,
urbana
e
rurale,
che
non
potendo
più
contrattare
diritti
e
doveri
come
avveniva
nel
sistema
feudale
dei
legami
personali,
è
ridotta
a
semplice
oggetto
di
esazioni
fiscali.
Non sorprende individuare in tutta Europa, dalla
fine
del
Cinquecento
alla
fine
del
Seicento,
oltre
a
numerose
sollevazioni
popolari
nate
da
rivendicazioni
di
natura
economica
(i
Croquant
in
Francia,
i
Lazzari
a
Napoli,
i
cosacchi
nell’Europa
Orientale),
anche
rivolte
aristocratiche
o
dei
poteri
locali
(i
patriziati
cittadini)
contro
la
monarchia,
spesso
confuse
e
nascoste
dai
conflitti
religiosi.
Dall’opposizione
dell’aristocrazia
boema
al
potere
asburgico
(1618-1620)
o la
Fronda
dei
nobili
in
Francia
(1648-1652),
alla
rivolta
della
città
di
Konigsberg
nella
Prussia-Brandeburgo
(1662-1674),
passando
per
il
tentativo
di
secessione
della
Catalogna
(1640-1652).
Brutali
repressioni
decretano
la
definitiva
vittoria
dell’assolutismo
che
nel
XVII
secolo
diviene
il
modello
di
organizzazione
del
potere
a
cui
tutto
l’Occidente
tende,
pur
con
gradi
di
approssimazione
diversi.
Alla metà del Seicento il concetto di una “persona
unica”
che
detiene
il
potere
supremo
(le
repubbliche
oligarchiche
tipo
Genova
o
Venezia
rappresentano
eccezioni)
è
chiaramente
associato
al
termine
“Stato”
divenuto
ormai
di
uso
comune;
identificativo
di
un
organismo
politico
originale
anche
per
i
contemporanei
su
cui
si
elaborano
nuove
riflessioni.
Declinano
i
concetti
circa
il
diritto
divino
del
potere
mentre
prendono
quota
le
concezioni
riguardanti
lo
Stato
come
prodotto
di
un
patto
politico
che
ha
come
fine
il
“pubblico
bene”
(Grozio,
Hobbes,
Locke,
ecc.).
Ecco
che
si
afferma
una
pervasività
dell’autorità
sovrana
non
solo
limitata
al
controllo
del
territorio
ma
tendente
a
modellare
l’intera
vita
sociale.
Settori
come
la
sanità,
l’assistenza,
l’istruzione
e la
cultura
finiscono
gradualmente
sotto
controllo
statale
esautorando
o
limitando
l’azione
di
quei
“corpi
intermedi”
che
dal
Medioevo
svolgevano
tali
funzioni:
Chiese,
confraternite,
poteri
locali,
corporazioni.
Se poi guardiamo alla Chiesa anglicana, al Gallicanesimo
in
Francia
o
alla
chiesa
regalista
spagnola,
notiamo
il
formarsi,
tra
Seicento
e
Settecento,
di
sistemi
statali
ecclesiastici,
che
in
un
certo
senso
piegano
pure
la
religione
alle
esigenze
dell’autorità.
Inoltre:
“Il
problema
del
reperimento
delle
risorse
finanziarie
necessarie
alla
vita
e
alla
crescita
degli
stati
europei
e lo
sforzo
connesso
di
migliorare
il
prelievo
e il
controllo
fiscale,
ispirano
quell’insieme
di
pratiche
di
politica
economica
che
va
sotto
il
nome
di
mercantilismo”
(Ortu).
La
creazione
delle
“manifatture
reali”
(anticipazione
di
un’industria
di
Stato)
da
parte
del
ministro
Colbert
nella
Francia
di
Luigi
XIV
o il
Navigation
act
emanato
da
Lord
Cromwell,
che
disciplina
il
monopolio
inglese
sulle
rotte
commerciali
atlantiche,
sono
solo
alcuni
esempi
del
tentativo
da
parte
dei
nascenti
stati
di
tenere
sotto
controllo
anche
il
campo
economico
e
dell’assumere
sempre
più
fisionomie
di
imprese,
con
il
fine
di
favorire
le
esportazioni
e
penalizzare
le
importazioni
mediante
politiche
protezionistiche.
Nel
Settecento,
però,
la
rivoluzione
industriale
e il
conseguente
stravolgimento
dei
vecchi
assetti
economici,
lo
sviluppo
dei
mercati
finanziari
e
l’inizio
di
un
sistema
capitalistico
(che
maturerà
nel
secolo
successivo),
la
diffusione
delle
teorie
liberiste
che
auspicano
un
limitato
intervento
dello
Stato
nell’economia
(Smith),
assestano
un
duro
colpo
all’assolutismo.
Il XVIII secolo rappresenta l’affermazione dello
stato
assoluto
in
gran
parte
d’Europa
ma
segna
anche
l’inizio
del
suo
declino;
un
declino
per
la
verità
già
iniziato
con
le
rivoluzioni
inglesi
del
secolo
precedente.
Infatti
l’esecuzione
di
Carlo
I
Stuart
nel
1649
determina,
sia
praticamente
sia
simbolicamente,
la
prima
vera
sconfitta
di
una
monarchia
assoluta.
Sconfitta
che
si
concretizza
con
l’introduzione
del
Bill
of
Right
nel
1688;
con
cui
si
introducono
forti
limitazioni
al
potere
monarchico
e si
riafferma
la
forza
dell’assemblea
parlamentare,
definita:
“organo
pienamente
e
liberamente
rappresentativo
di
questa
nazione”.
Un
principio
di
rappresentanza
popolare
che
pone
le
basi
per
una
monarchia
costituzionale
con
al
centro
appunto
il
parlamento.
L’esempio
inglese
sarà
solo
un
primo
tassello
di
un
quadro
che
verrà
a
formarsi
nel
corso
del
Settecento
con
lo
sviluppo
di
nuove
concezioni
politiche
condizionate
dal
pensiero
illuminista.
Ne Lo spirito delle leggi del 1748, Montesquieu
scrive:
“Non
vi è
libertà
se
il
potere
giudiziario
non
è
separato
dal
potere
legislativo
e da
quello
esecutivo
[...]
Tutto
sarebbe
perduto
se
la
stessa
persona,
o lo
stesso
corpo
di
grandi,
o di
nobili,
o di
popolo
esercitasse
questi
tre
poteri”.
Una
separazione
dei
poteri
in
netta
contrapposizione
all’assolutismo.
Mentre
Jean
Jaque
Rousseau
nel
Contratto
sociale,
del
1762,
tratteggia
gli
elementi
essenziali
delle
future
democrazie:
“Una
forma
di
associazione
che
difenda
e
protegga
con
tutta
la
forza
comune
la
persona
e i
beni
di
ciascun
associato,
e
per
la
quale
ciascuno,
unendosi
a
tutti,
non
obbedisca
tuttavia
che
a se
stesso,
e
resti
libero
come
prima
[...]
quest’atto
di
associazione
produce
subito
un
corpo
morale
e
collettivo
[…]
Questa
persona
pubblica
prendeva
una
volta
il
nome
di
città,
e
adesso
quella
di
repubblica
o
corpo
politico,
il
quale
a
sua
volta
è
chiamato
dai
suoi
membri
Stato”.
Siamo di fronte ad una nuova evoluzione nella
concezione
del
potere
che
subirà
un’accelerazione
attraverso
due
eventi
epocali.
Prima
la
Rivoluzione
americana
con
la
Dichiarazione
d’indipendenza
del
1776:
“Tutti
gli
uomini
sono
stati
creati
uguali,
essi
sono
stati
dotati
dal
loro
creatore
di
alcuni
diritti
inalienabili
[...]
allo
scopo
di
garantire
questi
diritti
sono
stati
creati
tra
gli
uomini
i
governi,
i
quali
derivano
i
loro
giusti
poteri
dal
consenso
dei
governati”.
La
messa
in
pratica
delle
dottrine
giusnaturalistiche
(ogni
uomo
è
titolare
di
diritti
innati,
appunto
di
natura)
che
ormai
da
un
secolo
circolano
in
Europa
e
che
iniziano
a
logorare
la
base
aristocratica
delle
monarchie
assolute.
Successivamente
è la
Rivoluzione
francese
che
ribadisce
e
rielabora
tali
concetti
con
la
Dichiarazione
dei
diritti
dell’uomo:
“Il
principio
di
ogni
sovranità
risiede
essenzialmente
nella
Nazione
[…]
La
legge
è
espressione
della
volontà
generale,
tutti
i
cittadini
hanno
diritto
di
concorrere
personalmente
o
mediante
i
loro
rappresentanti
alla
sua
formazione”.
Inizia
a
prendere
forma
una
prima
idea
di
nazione
di
origine
politica
ovvero
di
una
comunità
(una
popolazione)
che
si
riconosce
in
determinati
principi
civili;
nel
caso
francese
le
idee
della
Rivoluzione
sulle
quali
si
baserà,
sebbene
con
molte
contraddizioni,
anche
il
periodo
napoleonico.
Nella
prima
parte
dell’Ottocento
si
svilupperà
inoltre
il
concetto
di
nazione
(e
di
popolo)
derivante
da
aspetti
culturali,
come
storia,
lingua
e
territorio.
La
nazione
diventa
“un
surrogato
laico”
al
principio
di
derivazione
divina
del
potere.
Pertanto, nel corso del XIX secolo la legittimazione
del
potere
si
realizza
sempre
più
attraverso
la
popolazione
(dal
“basso”)
o
meglio,
attraverso
la
creazione
di
sistemi
parlamentari
che
la
rappresentino.
L’allargamento
del
suffragio
e la
redazione
di
costituzioni,
ovvero
di
leggi
fondamentali
dello
Stato,
contenenti
quei
principi
teorici
che
si
erano
sviluppati
nel
secolo
precedente
(separazione
dei
poteri,
eguaglianza
dei
cittadini
di
fronte
alla
legge,
libertà
di
espressione,
ecc.)
fanno
sì
che
il
potere
monarchico
venga
fortemente
ridimensionato
ma
senza
intaccare
le
strutture
statali
appena
formatesi.
In
questo
quadro
prendono
avvio
i
fermenti
nazionalistici
che
attraversano
l’Europa
negli
anni
Venti
del
XIX
secolo
e
che
daranno
vita
ai
movimenti
di
riunificazione
nazionale
(in
Germania,
Italia,
Grecia).
Una
fase
nuova
dal
punto
di
vista
dell’organizzazione
del
potere
che
pone
le
basi
per
lo
stato-nazione,
prologo
ai
sistemi
contemporanei
e
conclusione
del
lungo
periodo
di
formazione
dell’idea
di
Stato
e
delle
sue
funzioni
e
caratteristiche
principali.
Periodo
che
si
può
affermare
venga
efficacemente
identificato
con
il
concetto
di
stato
moderno.
Categoria
storica
che
contiene
tutte
le
trasformazioni
avvenute
nell’organizzazione
del
potere
nelle
società
europee,
dalla
fine
del
Medioevo
agli
inizi
dell’Età
contemporanea;
determinanti
per
gli
attuali
assetti
politici
e
sociali.
Riferimenti
Bibliografici:
Anderson, Perry, Lo Stato assoluto, Mondadori, Milano 1980;
Ortu,
Gian
Giacomo, Lo
Stato
moderno, Laterza
Editori,
Roma-Bari,
2001.