N. 65 - Maggio 2013
(XCVI)
Kill and burn
Gli Stati Uniti e le Filippine
di Giovanni De Notaris
All’indomani
del
trattato
di
Parigi,
che
nel
dicembre
del
1898
pose
fine
alla
guerra
ispano-americana
per
l’indipendenza
di
Cuba,
gli
Stati
Uniti,
potenza
vincitrice,
ottennero
oltre
a
Cuba
stessa
e
Puerto
Rico,
anche
l’isola
di
Guam
e
l’arcipelago
delle
Filippine
nell’oceano
Pacifico.
Per
ciò
che
riguarda
le
Filippine
in
particolare,
negli
Stati
Uniti,
si
riproposero
le
solite
diffidenze
in
merito
al
possesso
dell’arcipelago.
Quello
che,
sotto
la
presidenza
di
William
McKinley,
fece
pendere
la
bilancia
a
favore
del
mantenimento
della
presenza
americana,
fu
innanzitutto
il
fatto
che
le
Filippine
rappresentavano
una
testa
di
ponte
per
protendersi
ancor
più
in
profondità
verso
l’estremo
oriente,
e in
particolare
verso
la
Cina,
dove
gli
Stati
Uniti
non
intendevano
rinunciare
alla
loro
presenza,
in
seguito
alla
cacciata
degli
stranieri
dopo
la
rivolta
dei
Boxer,
iniziata
nella
primavera
del
1899.
Il
mercato
orientale
era
infatti
importante
per
la
visione
espansionistica
americana.
E
quindi
s’imponeva
la
necessità
di
non
far
cadere
le
Filippine
in
mani
altrui,
perdendo
non
solo
il
bottino
di
guerra,
ma
anche
la
possibilità
di
imporre
nuove
basi
navali.
Coloro,
invece,
che
avversavano
l’annessione
dell’arcipelago,
adducevano
motivi
legati
all’incompatibilità
razziale.
Non
si
voleva
infatti
annettere
all’Unione
stati
popolati
da
razze
considerate
inferiori,
che
avrebbero,
con
le
loro
caratteristiche
genetiche,
inquinato
la
razza
americana.
Ma
vi
erano
anche
motivi
più
seri
e
logici,
legati
alle
origini
della
repubblica
americana.
Le
prime
tredici
colonie,
infatti,
si
erano
ribellate
proprio
a un
domino
straniero,
e
quindi
adesso
gli
Stati
Uniti
non
potevano
loro
stessi
crearsi
un
impero.
Il
presidente,
allora,
nonostante
non
ritenesse
saggio
mantenere
il
possesso
dell’arcipelago,
era
dell’idea
di
dare
comunque
un
governo
e
uno
stile
di
vita
più
civili
ai
filippini,
quasi
fosse
un
obbligo
morale.
In
realtà
tutte
queste
polemiche
altro
non
furono
se
non
un
puro
esperimento
dialettico,
in
quanto
pochi
mesi
prima
del
mese
di
febbraio
del
1899,
mese
in
cui
il
Congresso
approvava
la
cessione
delle
Filippine
agli
Stati
Uniti
da
parte
della
Spagna
-a
cui
il
governo
americano
aveva
versato
ben
20
milioni
di
dollari,
secondo
gli
accordi
del
trattato
di
Parigi-,
i
filippini
avevano
già
proclamato
la
loro
indipendenza,
indicando
come
presidente
il
rivoltoso
Emiliano
Aguinaldo.
Aguinaldo
aveva
quindi
intimato
agli
americani
di
lasciare
il
paese,
ma
pochi
mesi
dopo
la
sua
elezione
era
stato
firmato
appunto
il
trattato
di
Parigi,
e la
Spagna,
sconfitta,
dovette
cedere
l’arcipelago
agli
Stati
Uniti.
Si
diede
quindi
inizio
a
un’occupazione
forzata
dell’arcipelago,
con
perdite
vistose
da
parte
americana
–circa
4.000
morti-
e
mostruose
da
parte
indigena
-oltre
200.000-;
un
vero
e
proprio
massacro.
Una
brutalità
inaudita
compiuta
dai
marines,
quasi
un’anteprima
della
guerra
del
Vietnam
o di
quella
in
Iraq.
Nel
marzo
del
1901
Aguinaldo
fu
poi
finalmente
catturato,
facendo
sembrare
vicina
la
fine
delle
ostilità;
una
pura
illusione.
Pochi
mesi
dopo,
intanto,
mentre
la
guerriglia
continuava
e
negli
Stati
Uniti
le
critiche
contro
i
massacri
aumentavano
a
dismisura,
McKinley
venne
assassinato,
e
Theodore
Roosevelt,
suo
vice,
divenne
presidente.
Roosevelt
da
subito
rassicurò
l’opinione
pubblica
dichiarando,
falsamente,
che
le
operazioni
militari
erano
concluse,
e
che
il
governo
dell’arcipelago
era
passato
dalle
mani
del
generale
Arthur
MacArthur,
a un
civile:
il
giudice,
e
futuro
presidente,
William
H.
Taft.
Ma
la
situazione
era
sostanzialmente
in
una
fase
di
stallo,
con
la
guerriglia
che
continuava
a
pieno
regime.
Nel
1902
i
guerriglieri
filippini
massacrarono
circa
40
marines
di
stanza
sull’isola
di
Samar,
a
sud-est
di
Manila.
A
quel
punto
il
presidente
non
poté
far
altro
che
ordinare
una
pacificazione
totale
e
definitiva
dell’arcipelago.
Il
brigadier-generale
Jacob
“Howling
Jake”
Smith
fu
inviato
a
Samar
per
gestire
le
operazioni
militari;
le
sue
azioni
si
sarebbero
rivelate
oltremodo
crudeli.
Appena
giunto
sull’isola,
infatti,
ordinò
di
scatenare
una
vera
e
propria
guerra
senza
quartiere
contro
i
rivoltosi,
affermando
di
non
fare
prigionieri
e
di:
“[…]
kill
and
burn
[…]
all
persons
[…]
who
are
capable
of
bearing
arms
in
actual
hostilities
against
the
United
States.”
Quando
gli
venne
chiesto
a
partire
da
che
età
si
poteva
considerare
un
individuo
capace
di
imbracciare
le
armi,
il
generale
sorprendentemente
rispose:”Ten
years.”
Nelle
lettere
che
i
soldati
americani
inviavano
ai
loro
familiari
dal
fronte,
si
poteva
percepire
il
disgusto
per
le
tecniche
di
interrogatorio
adottate
dai
loro
superiori,
comprendenti
la
tecnica
di
tortura
definita
“watercure.”
Questa
tecnica
fu
inventata
dagli
spagnoli
e
ripresa
poi
dall’esercito
americano.
In
pratica
si
costringeva
a
terra
un
uomo,
tenendogli
la
bocca
aperta
e
versandoli
dell’acqua
fino
a
fargli
gonfiare
lo
stomaco.
Una
volta
gonfio
d’acqua,
il
ventre
del
malcapitato
veniva
percosso
fino
a
fargli
vomitare
l’acqua
ingurgitata.
Quando
quelle
lettere
divennero
di
dominio
pubblico,
grazie
alla
stampa,
negli
Stati
Uniti
infuriò
la
polemica.
Il
fronte
degli
oppositori
guadagnò
anche
il
nome
illustre
dello
scrittore
Mark
Twain,
da
sempre
contrario
a
ogni
forma
di
imperialismo.
Ma
si
fecero
sentire
anche
le
voci
dei
teorici
delle
razze
superiori.
Le
brutalità
commesse
dai
marines,
secondo
loro,
non
furono
dovute
alla
cattiveria
dei
soldati,
ma
al
rapporto
con
un
popolo
e un
luogo
scarsamente
civilizzati,
che
con
le
loro
brutture
avevano
corrotto
il
nobile
animo
dei
soldati
facendoli
regredire
a
livello
di
belve
sanguinarie.
Difatti
secondo
costoro,
e
ovviamente
il
governo,
vi
erano
stati
grandi
passi
in
avanti
nella
democratizzazione
dell’arcipelago.
In
realtà,
in
privato,
sia
Roosevelt
che
Taft
erano
sempre
più
convinti
che
mai
si
sarebbe
potuta
creare
una
parvenza
di
governo
democratico
nelle
Filippine.
Intanto,
mentre
le
notizie
dal
fronte
continuavano
a
susseguirsi
sui
giornali
americani,
nel
1902
venne
disposta
un’audizione
al
Senato
sui
fatti
accaduti
nelle
Filippine,
in
quanto
alcuni
senatori
dubitavano
delle
parole
del
presidente.
Tra
i
testimoni
fu
convocato
anche
il
famigerato
generale
Smith,
che
per
i
suoi
atti
crudeli
fu
sottoposto
a
corte
marziale,
ma
per
non
congedarlo
con
disonore,
e
essendo
ormai
prossimo
alla
pensione,
gli
venne
concesso
di
rassegnare
le
dimissioni.
Da
quando
Roosevelt
aveva
annunciato,
nel
1901,
la
cessazione
delle
ostilità,
nulla
era
cambiato,
anzi,
la
resistenza
filippina
era
ancora
più
forte.
Nel
1903
difatti,
la
leadership
della
guerriglia
indipendentista
era
passata
nelle
mani
dei
Moros,
così
chiamati
dagli
spagnoli
perché
musulmani.
Nel
marzo
del
1906
la
situazione
subì
un
ulteriore
tragica
evoluzione.
Nel
sud-est
dell’arcipelago,
in
un
villaggio
dell’isola
vulcanica
di
Jolo,
l’esercito
americano
avvistò
un
gruppo
di
circa
600
ribelli
Moros,
apparentemente
ben
armati.
Il
nuovo
governatore
dell’arcipelago,
il
generale
Leonard
Wood,
ordinò
ai
soldati
di
catturare
o
uccidere
gli
indigeni.
Dopo
un
giorno
e
mezzo
di
battaglia
tutti
i
Moros
furono
uccisi.
Mentre
Roosevelt
si
complimentava
con
Wood
per
l’operazione,
stranamente
di
questo
ennesimo
massacro
negli
Stati
Uniti
si
parlò
poco;
l’opinione
pubblica
sembrava
ormai
assuefatta
alla
drammaticità
degli
eventi
e
all’irrisolvibilità
della
situazione.
In
realtà
pur
non
essendo
razzista,
buona
parte
del
popolo
americano
riteneva
giusta
un’opera
di
benevolente
civilizzazione,
convinti,
come
da
sempre
sono
gli
Stati
Uniti,
che
il
loro
modello
di
vita
e di
politica
sia
esportabile
ovunque.
Nel
1907,
però,
gli
Stati
Uniti
furono
costretti,
loro
malgrado,
a
concedere
un’Assemblea
legislativa
alle
Filippine.
Ma
la
guerriglia
continuò
ben
oltre
il
primo
decennio
del
XX
secolo,
concludendosi
soltanto
nel
1913
con
la
sconfitta
definitiva
dei
Moros,
e
nel
1916
con
la
nascita
della
costituzione.
L’arcipelago
rimase
sostanzialmente
un
protettorato
americano
fino
alla
fine
della
seconda
guerra
mondiale
quando,
nel
luglio
del
1946,
ottenne
finalmente
l’indipendenza.