stati uniti, santuario di terroristi
(nota: tratto da 'Latinoamerica', n.
86/87)
Tutti i presidenti che si rispettino
devono avere una dottrina legata al
proprio nome. Il principio di base del
pensiero di Bush jr. è che gli Stati
uniti devono «liberare il mondo dal
male», come lo stesso presidente ha
annunciato immediatamente dopo l'11
settembre. Dichiarare guerra al
terrorismo, dire che le nazioni che
danno rifugio agli attentatori sono
stati terroristi e quindi devono essere
trattati di conseguenza, comporta una
responsabilità particolare. Proviamo a
formulare una semplice quanto opportuna
domanda: quali sarebbero le conseguenze
di questa dottrina di Bush se dovessimo
prenderla seriamente, se cominciassimo a
trattare i paesi che offrono asilo ai
terroristi come stati terroristi, e
quindi a rischio di bombardamento e
invasione? Gli Usa sono stati per molto
tempo un vero e proprio «santuario» per
una serie di delinquenti, le cui azioni
li identificano come terroristi e la cui
presenza compromette e complica i
principi proclamati dagli stessi Stati
uniti.
Esaminiamo il caso dei cinque cubani
condannati a Miami nel 2001 con l'accusa
di far parte di una rete di spionaggio.
Per comprendere questo caso, che ha
suscitato molte proteste internazionali,
bisogna tenere conto della squallida
storia delle relazioni tra Stati uniti e
Cuba (lasciando per un momento da parte
il tema dell'opprimente, decennale
embargo nordamericano nei confronti
dell'isola).
Gli Stati uniti organizzano attacchi
terroristici contro Cuba, su piccola e
larga scala, a partire dal 1959,
compresi la Baia dei Porci e parecchi
stravaganti complotti per uccidere
Castro. Il coinvolgimento diretto del
governo Usa negli attentati, però, viene
dato per concluso, almeno ufficialmente,
alla fine degli anni Settanta. Nel 1989
il presidente George Bush senior
concesse l'indulto a Orlando Bosch, uno
dei più noti terroristi anticastristri,
accusato di essere la mente criminale
dell'attentato del 1976 contro un aereo
cubano. Bush annullò la decisione del
Dipartimento di giustizia, che aveva
ricusato la richiesta di asilo di Bosch,
concludendo: «La sicurezza di questa
nazione si vede indebolita a causa
dell'incapacità di sostenere in maniera
credibile altre nazioni, affinché
neghino il loro aiuto e la loro
protezione a terroristi il cui
obiettivo, molto spesso, siamo anche
noi».
Sapendo che gli Stati uniti davano
rifugio a terroristi anticastristi,
agenti cubani si sono infiltrati in
quella rete. Nel 1998, alti ufficiali
del Fbi inviati all'Avana ricevono in
consegna migliaia di pagine di
documentazione e centinaia di ore di
registrazione in video su azioni
terroristiche organizzate da cellule in
Florida.
L'Fbi reagisce arrestando gli uomini che
hanno fornito loro le informazioni, fra
i quali c'era anche il gruppo cosiddetto
dei Cinque Cubani. Agli arresti è
seguito un processo-spettacolo tenutosi
a Miami. I Cinque sono stati dichiarati
colpevoli (tre condannati all'ergastolo
per spionaggio e al leader, Gerardo
Hernández, la condanna a morte per
cospirazione). Intanto, personaggi
considerati dall'Fbi e dal Dipartimento
di giustizia come terroristi pericolosi,
vivono allegramente negli Stati uniti
continuando a cospirare e a organizzare
atti criminali.
L'elenco dei terroristi residenti negli
Usa comprende anche Emmanuel Constant,
di Haiti, conosciuto come Toto, ex
leader paramilitare dell'epoca di
Duvalier. Constant è il fondatore del
Fraph (Fronte rivoluzionario per lo
sviluppo e il progresso di Haiti), il
gruppo paramilitare che fu autore della
maggioranza degli atti terroristici di
stato al principio degli anni `90, sotto
la giunta militare che abbattè il
presidente Aristide. Secondo
informazioni recenti, Constant vive
attualmente nel Queens, a New York. Gli
Stati uniti ne hanno rifiutato
l'estradizione richiesta da Haiti
durante il governo di Aristide. La
ragione, secondo un'analisi generalmente
condivisa, è che Constant avrebbe potuto
rivelare i legami tra gli Usa e la
giunta militare che assassinò tra i
quattromila e i cinquemila haitiani; in
quell'eccidio le forze paramilitari di
Constant svolsero il ruolo principale.
Tra i gangsters che hanno capeggiato il
recente golpe di Haiti, ci sono i
dirigenti del Fraph.
Cuba è stata, per molto tempo, la
principale preoccupazione degli Stati
uniti. Un documento declassificato del
Dipartimento di stato, datato 1964,
dichiara che Fidel Castro è una minaccia
intollerabile perché -segnala il testo-
«rappresenta una sfida vincente contro
gli Stati uniti, la negazione di tutta
la nostra politica nel continente di
quasi un secolo e mezzo», dacché la
dottrina Monroe ha sancito che non si
sarebbe tollerata più nessuna sfida alla
dominazione degli Usa nel mondo.
Oggi, il Venezuela rappresenta un
problema simile. Un articolo pubblicato
di recente sul Wall Street Journal
osserva: «Fidel Castro ha trovato un
patrono fondamentale e un fidato
successore per la sua causa di creare
scompiglio nei piani degli Stati uniti
sull'America Latina: il presidente del
Venezuela Hugo Chávez».
Il caso vuole che proprio il Venezuela,
qualche mese fa, abbia sollecitato agli
Stati uniti l'estradizione di due ex
ufficiali dell'esercito che hanno
chiesto asilo negli Usa. Entrambi
parteciparono al golpe militare dell'11
aprile 2002 appoggiato
dall'amministrazione Bush, che si tirò
indietro all'ultimo momento, tra lo
sdegno di tutto il mondo.
Sorprendentemente, il governo
venezuelano allora rispettò la sentenza
del Tribunale supremo del Venezuela, che
si era rifiutato di processare i leader
del golpe. Più tardi, i due ufficiali
furono implicati in un attentato
terroristico e scapparono a Miami.
L'indignazione di fronte alla sfida è
profondamente radicata nella storia
degli Stati uniti. Thomas Jefferson
condannò inesorabilmente
l'«atteggiamento di sfida» della Francia
che voleva mantenere a tutti i costi New
Orleans, su cui ricadevano le mire dello
stesso presidente. Jefferson avvertiva:
«Il carattere della Francia collide
inesorabilmente con il nostro carattere
che, sebbene ami la pace e la ricerca
della ricchezza, è altruista». «La sfida
della Francia impone di unirci alla
flotta e alla nazione britannica»,
raccomandò Jefferson, modificando la sua
strategia iniziale, che teneva conto del
cruciale contributo della Francia alla
liberazione delle colonie dalla
dominazione britannica.
Grazie alla lotta di liberazione di
Haiti, senza aiuto e con una opposizione
quasi universale, la sfida francese finì
subito. Tuttavia, allora come ora, i
principi di fondo rimangono in piedi,
determinando nel tempo chi sono gli
amici e chi i nemici.
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