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N. 146 - Febbraio 2020 (CLXXVII)

“Black History Month”

Il contributo della cultura afroamericana alla crescita degli Stati Uniti

di Sara Fresi

 

Il Black History Month è il mese durante il quale viene celebrato il contributo della cultura afroamericana alla crescita degli Stati Uniti d’America. Queste celebrazioni si devono a Carter Godwin Woodson, nato in Virginia nel 1875 da una coppia di ex schiavi africani. Woodson aveva conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Harvard e si batteva per diffondere la storia dei suoi antenati che, allora, non era adeguatamente rappresentata e diffusa. Woodson era professore e decano della School of Liberal Arts dell’Università di Howard.

 

Il suo contributo fu determinante nella fondazione dell’Association for the Study of African American Life and History (ASALH) che attualmente ha il quartier generale nel campus dell’Università di Howard. Nel 1915 creò The Association for the Study of Negro Life and History e in seguito raccolse le storie di milioni di afroamericani in The Journal of Negro History, attualmente conosciuto come The Journal of African American History.

 

Era il febbraio del 1926 quando, insieme a tanti sostenitori, fondò la prima Annual Negro History Week, con l’obiettivo di celebrare la storia dei neri d’America insieme con i compleanni del presidente degli Stati Uniti d’America Abraham Lincoln (12 febbraio 1809) e dell’oratore e scrittore afroamericano Frederick Douglass (14 febbraio 1818). Lincoln è ricordato anche per aver emanato il proclama di emancipazione dei neri, che aboliva la schiavitù limitatamente, però, agli Stati scissionisti (1863).

 

Riconfermato presidente nel 1864, l’anno successivo fece approvare al Congresso l’emendamento alla Costituzione che sanciva l’abolizione della schiavitù in tutta l’Unione americana. Douglass fu autore dell’opera Narrative of the life, pubblicata nel 1845, dove raccontò la sua straordinaria storia personale, dello schiavo che aveva resistito a indicibili atti di brutalità, fino alla conquista della propria libertà. Divenne celebre con le sue opere sulla schiavitù degli afroamericani tanto da tenere numerose conferenze presso associazioni antischiavistiche. Nel 1976 il presidente degli Stati Uniti d’America Gerald Rudolph Ford estese la Negro History Week per tutto il mese di febbraio, dando vita a quello che oggi è conosciuto come Black History Month.

 

Lo storico Dale Cockrell una volta notò che i bianchi poveri che facevano parte della classe operaia si sentivano “spremuti politicamente, economicamente e socialmente dall’alto, ma anche dal basso, e inventarono la figura del menestrello”, come un modo per esprimere l’oppressione di essere membri della maggioranza, ma al di fuori della società dei bianchi. Minstrelsy, spettacoli comici di “blackness” da parte dei bianchi in costumi e trucchi esagerati, non può essere completamente separato dalla derisione razziale e dagli stereotipi che possono esserci al suo interno. Gli americani bianchi distorsero le caratteristiche e la cultura degli afroamericani, inclusi aspetto, lingua, danza e carattere.

 

I primi spettacoli di menestrelli furono eseguiti a New York nel 1830 da artisti bianchi con facce annerite, usando il sughero bruciato o il lucido da scarpe, indossavano vestiti stracciati e imitavano gli schiavi africani che lavoravano strenuamente nelle piantagioni del sud. Queste esibizioni caratterizzarono i neri diffondendo falsi stereotipi come pigri, ignoranti, superstiziosi, ipersessuali, inclini al furto e alla codardia.

 

Thomas Dartmouth Rice, noto come “Father of Minstrelsy”, sviluppò il primo personaggio blackface popolarmente conosciuto, “Jim Crow”, nel 1830. Nel 1845, la popolarità del menestrello aveva generato una sotto-industria dell’intrattenimento, producendo canzoni e spartiti, trucco, costumi, nonché un set pronto di stereotipi su cui costruire nuove esibizioni.

 

Gli spettacoli dei blackface diventarono particolarmente popolari tra la fine della guerra civile e l’inizio del Novecento nelle città del Nord e del Midwest, dove l’interazione regolare con gli afroamericani era limitata. L’animus razziale bianco crebbe in seguito all’emancipazione, quando gli stereotipi antecedenti alla guerra civile americana si scontrarono con gli afroamericani e le loro richieste di piena cittadinanza, incluso il diritto di voto.

 

L’influenza dei “minstrelsy” e degli stereotipi razziali nella società americana non può essere sottovalutata. All’epoca gli operatori della comunicazione pubblicizzavano le esibizioni di menestrelli dal palco, attraverso la radio, la televisione e il cinema. Famosi attori americani, tra cui Shirley Temple, Judy Garland e Mickey Rooney indossarono il blackface, creando un ponte tra le esibizioni di menestrelli di generazione in generazione e rendendo il blackface, parodia razziale e di stereotipi, un divertimento per la famiglia.

 

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Thomas Rice playing Jim Crow in blackface, New York City, 1833

 

Blackface è la codificazione dell’oscurità, lingua, movimento, deportazione e carattere, mentre la caricatura persiste tuttora attraverso i mass media e nelle esibizioni pubbliche. Oltre alla crescente popolarità dei costumi “neri” di Halloween, i college e le università di tutto il paese continuano a combattere contro spettacoli di blackface sensibilizzando e informando le masse su questa pratica dal retrogusto razzista. In ogni caso, coloro che fanno esibizioni di blackface continuano ad affermare che non era prevista alcuna forma di malizia o di odio razziale.

 

La popolarità che ebbero gli spettacoli di questi menestrelli fu probabilmente meglio riassunta dalla giusta risposta di Frederick Douglass nella North Star. Egli disse che imitatori blackface erano “la sporca feccia della società bianca, che ci hanno rubato la carnagione negata loro dalla natura, con cui fare soldi, e assecondare il gusto corrotto dei loro concittadini bianchi”, una denuncia che si riferisce alla mercificazione dei menestrelli. Successivamente con blackface si fa riferimento a un popolo schiavo e non cittadino (27 ottobre 1848).

 

Lo spettacolo di menestrelli era un divertimento chiaramente razzista, perché inventava e ridicolizzava i lavoratori schiavizzati delle piantagioni che subivano l’oppressione razziale. La cultura che la promosse, si può ragionevolmente supporre, fu affascinata dalla parodia razziale oppure pensò a tali denigrazioni per sottolineare la differenza di classe.

 

Questi spettacoli offesero in modo diretto la cultura degli africani schiavizzati. Leggendo i testi delle canzoni emerge l’aspetto razzista; musiche e danze subirono influssi culturali degli angloamericani. La scrittrice e patriota statunitense Margaret Fuller scrisse nella sua opera Entertainments of the Past Winter, pubblicato nel 1842, che gli americani erano “mendicanti” quando si trattava delle arti della musica e della danza: la melodia nazionale, Yankee Doodle, fu sospettata di discendere dall’arte e cultura britannica.

 

Interessante, inoltre, è il presupposto che musica e danza dei menestrelli blackface abbia legami con la cultura popolare di contadini afroamericani. Sin dai decenni precedenti la guerra civile americana, l’uomo bianco iniziò a “oscurare” il proprio volto e a imitare quello che supponevano fosse dialetto nero, musica e danza degli africani deportati in America.

 

Minstrelsy blackface come cultura popolare afroamericana: questo può sembrare una visione inusuale, ma è una percezione dello spettacolo dei menestrelli che ebbero origine nelle piantagioni e costituì un contributo originale al teatro.

 

Da un lato emergeva lo sdegno per il “dominio” della massa culturale, l’incorporazione della cultura nera modellata per divertire una classe sociale dominante; dall’altro una celebrazione dell’autentica cultura popolare, la diffusione dell’emulazione di arti nere con risultati potenzialmente liberatori.

 

Nei primi menestrelli era visibile la cultura degli schiavi, la protesta in chiave politica delle loro condizioni e la questione razzista. Dato che questi erano spettacoli popolari, di svago, essi erano caratterizzati da forme culturali di conflitto sociale e politico, non erano espressione di classe dei dominati. I bianchi investivano economicamente nell’acquisto e nel mantenimento degli schiavi e, con questa forma di intrattenimento, svilivano la vita e la dignità di questi africani che erano alla mercé degli angloamericani. Insulto e invidia, momenti di dominio e di liberazione, contraffazioni e valori, uno schema che a volte non è altro che un’altra faccia del razzismo. L’espropriazione culturale è al centro dello spettacolo dei menestrelli e non dovremmo perderlo di vista.

 

I menestrelli blackface ebbero negli Stati Uniti d’America un’influenza molto negativa, con l’idea di oggettivare la persona che si esibiva in questo tipo di spettacolo cancellando la propria umanità e riducendola a stereotipi e immagini per vederla deridere. Fu un’esperienza dolorosa per le persone che erano oggetto di quel tipo di trattamento. Ci sono ancora casi isolati di blackface, ma questa storia è nota su larga scala, ed è un esempio di come queste forme di razzismo continuino a essere condizionanti.

 

La popolarità dei primi film portò con sé la diffusione di stereotipi razziali a un vasto pubblico in tutto il mondo. I primi film muti, come The Wooing and Wedding of a Coon nel 1907, The Slave nel 1909, The Sambo Series 1909-1911 e The Nigger nel 1915 proponevano gli stereotipi esistenti attraverso un nuovo potente mezzo.

 

Nel 1915 Birth of a Nation segnò un cambiamento di enfasi dagli stereotipi pretenziosi e inetti dei personaggi “Jim Crow” a quelli di “Savage Negro”. Nella pellicola di Griffith vediamo che il Ku Klux Klan salva il Sud e, in particolare, le donne del Sud, dai neri selvaggi che hanno guadagnato potere sui bianchi con l’aiuto dei carpentieri del nord. In seguito Griffith ammise che il suo film era stato progettato per “creare un sentimento di orrore nei bianchi, specialmente nelle donne bianche, nei confronti degli uomini di colore”.

 

Northern Blacks diede una risposta a Birth of a Nation producendo “Race Movies”: film interamente creati da neri per il pubblico nero. Il produttore cinematografico nero di maggior successo della prima metà del XX secolo fu un ex facchino e romanziere chiamato Oscar Micheaux. La sua Micheaux Film Corporation, con sede a Chicago, operò tra il 1918 e il 1940 e produsse oltre 44 film. La pellicola più importante di Micheaux fu Within Our Gates (1920), uno sguardo intransigente su atteggiamenti razziali e pregiudizi tra neri e bianchi, che includeva sia uno stupro che un linciaggio.

 

La crescita della produzione di film black veramente indipendenti fu interrotta dalla Grande Depressione e dai costi aggiuntivi associati al cambiamento della tecnologia dal silenzio al suono. Pochi film prodotti da compagnie cinematografiche nere indipendenti sopravvissero ai cambiamenti e ancora meno rimasero indipendenti una volta che Hollywood intervenne e prese il controllo del cinema nero fornendo ingenti finanziamenti.

 

Tra il 1930 e il 1950, gli animatori di Warner Brothers, Walt Disney, MGM, Merrie Melodies, Looney Tunes, R.K.O. e molti altri studi indipendenti, produssero migliaia di cartoni animati che perpetuavano gli stessi vecchi stereotipi razzisti. I cartoni animati erano un mezzo per istruire masse di bambini e giovani, futuri cittadini; anche quei film d’animazione contribuirono alla formazione delle nuove generazioni.

 

Questo periodo è ora noto come l’età d’oro dell’animazione e, fino alla metà degli anni ’60, i cartoni animati vennero proiettati prima della visione di tutti i film. Successivamente questi stessi cartoni animati furono trasmessi per decenni in televisione o via cavo. Alla fine i peggiori cartoni animati razzisti furono rimossi dalla televisione oppure subirono modifiche, ma molti sono ancora disponibili sulla rete. Per il pubblico moderno, molti di questi cartoni animati sono piuttosto scioccanti e illustrano plasticamente quanto il razzismo fosse allora pervasivo e istituzionalizzato.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Brundage Fitzhugh W., Beyond Blackface: African Americans and the Creation of American Popular Culture (1890- 1930), The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2011.

Diawara M., Levinthal D., Blackface, Arena Editions, 1999.

Lott E., Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, Oxford University Press, New York 1993.



 

 

 

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