[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

185 / MAGGIO 2023 (CCXVI)


moderna

All’alba degli Stati Uniti
SULLA società americana al tempo della Rivoluzione

di Federica Ambroso

 

Tra Sei e Settecento la Francia, la Spagna e l’Inghilterra avevano fondato alcune colonie nella parte orientale dell’America del Nord; Europei fuggiti dai loro paesi per scampare alle persecuzioni religiose o politiche costituirono le prime comunità di coloni. Tra questi, i celeberrimi “pilgrim fathers”, di cui si racconta siano approdati nel 1620 con la loro nave Mayflower nelle coste del Massachusetts e abbiano istituito la Festa del Ringraziamento.

 

In realtà, i veri Padri Fondatori furono i puritani che si stabilirono nella Baia del Massachusetts qualche anno dopo, sobri, pii, animati dal gusto per il lavoro e dal senso del dovere, spesso istruiti; il Thanksgiving Day fu istituito invece dai superstiti al freddo, alla fame e alle malattie che avevano decimato la piccola colonia partita con la Mayflower, per ringraziare Dio dell’abbondante raccolto estivo. I puritani attuarono un sistema politico oligarchico, tuttavia si può dire che da loro trae origine la democrazia americana: all’interno delle Chiese locali e dei consigli, era uso deliberare ed eleggere i responsabili delle comunità. Roger Williams li criticò aspramente, in quanto convinto che un governo civile non potesse imporre i precetti religiosi, e denunciò il carattere illegale delle espropriazioni a scapito degli indiani, con cui però inizialmente avevano avuto buoni rapporti. Nel corso del Settecento, si diffuse l’empirismo illuministico e sorsero rivalità fra mercanti e grandi proprietari terrieri; ai puritani venne affibbiato il nomignolo di “yankee”.

 

Ai primi coloni si aggiunsero debitori, contadini impoveriti e mercanti alla ricerca di fortuna provenienti da tutta Europa. L’eterogeneità degli abitanti delle colonie fu estremamente importante nel favorire il rapido sviluppo e l’apertura culturale della società americana, a differenza di quanto era avvenuto nelle colonie spagnole o portoghesi. I coloni giungevano in terra americana carichi di iniziativa, desiderosi di iniziare una nuova vita, portando diverse competenze e abilità da esercitare in uno spirito di tolleranza e libertà fino ad allora sconosciuto.

 

Nonostante le colonie condividessero alcuni caratteri comuni, fra esse venne ben presto a crearsi un dualismo soprattutto economico: le colonie del Nord avevano un’agricoltura cerealicola organizzata in piccole proprietà, allevamento e pesca, e lì si svilupparono tutte le attività correlate alla grande disponibilità di legname, nel Sud invece prevaleva l’agricoltura bastata sui latifondi e sull’uso incontrollato di schiavi neri. Alla rapida crescita economica si affiancava sempre più l’insofferenza verso gli obblighi cui le colonie erano sottoposte dalla Gran Bretagna.

 

Dopo la Guerra dei Sette anni, infatti, gli inglesi pensarono di poter sfruttare a proprio vantaggio la ricchezza del popolo americano; a tal fine, inasprirono il carico fiscale dei coloni imponendo nuove tasse, come la Sugar Act (sullo zucchero) e la Stamp Act (sui giornali e gli atti pubblici), e li obbligarono a commerciare solo con l’Inghilterra. Fu però il decreto che affidava il monopolio del commercio del tè nelle colonie alla Compagnia delle Indie (il Tea Act del 1763) a far esplodere la tensione.

 

A Boston, alcuni coloni travestiti da indiani presero d’assalto tre navi inglesi e buttarono in mare il carico di tè. Londra reagì facendo chiudere il porto di Boston. Questo fu un episodio emblematico del malcontento dei coloni, che si sentivano vittime del fiscalismo e del protezionismo inglese; da esso traspare la voglia di ribellarsi, di essere trattati come gli Inglesi in Inghilterra, di essere tutelati e rappresentati. È in sostanza il senso del famoso slogan No taxation without representation: le tasse sono valide solo se approvate dai rappresentanti di chi le deve pagare.

 

Nel 1774 si tenne a Filadelfia il primo Congresso continentale, in cui i rappresentanti delle colonie stabilirono di proseguire la loro lotta per l’autonomia a suon di boicottaggio. Purtroppo, però, i tentativi di conciliazione furono vani e l’anno dopo fu convocato il secondo Congresso, che decise la formazione di un esercito autonomo, capeggiato da George Washington, e di procedere alla resistenza armata. La richiesta alla Corona inglese non era più l’autonomia, bensì l’indipendenza, anche se permanevano i lealisti, soprattutto fra burocrati e rappresentanti del clero anglicano, che intendevano rimanere leali alla madrepatria. Alcuni coloni del Sud, ad esempio, temevano, con l’avvento della democrazia, di dover rinunciare agli schiavi neri.

 

Il 4 luglio 1776 il Congresso votò la Dichiarazione d’Indipendenza elaborata da Thomas Jefferson, in cui furono fissati i principi fondamentali su cui si sarebbero fondati gli Stati Uniti, primo fra tutti quello di uguaglianza (“Tutti gli uomini sono creati eguali”); si affermava che tutti gli uomini avevano uguali diritti (“La Vita, la Libertà, la Ricerca della Felicità”) e che i governi dovevano fondarsi sul consenso dei governati (un’eco delle teorie di Locke). I cittadini avevano il diritto di ribellarsi quando “una lunga serie di abusi e malversazioni rivelava il disegno di ridurli all’assolutismo”; il re inglese fu accusato di aver compiuto ripetuti torti al fine di fondare una tirannia su quegli Stati.

 

La guerra durò dal 1776 al 1781; gli americani, numericamente inferiori e poco addestrati, riuscirono incredibilmente a vincere gli Inglesi, soprattutto grazie all’aiuto della Francia (con alleate la Spagna e l’Olanda), che sperava di rifarsi della sconfitta subita anni prima, e soprattutto animati dalla passione con cui gli americani si battevano. Il movente dei patrioti americani, fosse esso idealista (come pensa Trevelyan), o economico (secondo l’opinione di Braudel) fu però la vera forza trainante della rivoluzione. Trevelyan fa notare che «l’istinto di espellere l’autorità della madrepatria», il senso di indipendenza che affondava le sue radici nell’attaccamento religioso fu ciò che veramente spinse i coloni a ribellarsi, tuttavia, anche la salvaguardia della proprietà, la ricchezza, il privilegio sociale decantati da Braudel quale movente dei patrioti concorsero alla rivoluzione.

 

Gli Inglesi furono dapprima sconfitti a Saratoga, infine, nella penisola di Yorktown, vennero stretti d’assedio e costretti alla capitolazione. Nel 1783 il Trattato di Versailles sancì la tanto agognata indipendenza delle colonie; la Spagna ricevette la Florida dalla Gran Bretagna, mentre la Francia non poté far altro che constatare l’acuirsi del suo deficit finanziario, ottenendo forse qualche sperduta e minuscola isoletta delle Antille. L’abile generale La Fayette, dopo aver guidato i ribelli americani, contribuì alla diffusione in Francia dell’esempio americano, che preparò il terreno per la Rivoluzione.

 

Dopo un primo tentativo confederale (Articles of Confederation del 1777), le tredici ormai ex-colonie attuarono il federalismo, conciliando così le esigenze di unità (dovute perlopiù alla crisi economica) e il rispetto della tradizionale autonomia. L’Ordinanza del Nord Ovest stabilì che i nuovi territori a ovest acquisiti con il Trattato di Versailles sarebbero entrati a far parte dell’Unione come nuovi Stati. Nel 1787 si giunse alla Costituzione degli Stati Uniti, di impronta liberale, in cui trovò applicazione la celebre teoria di Montesquieu della divisione dei poteri: George Washington fu nominato primo presidente.

 

Gli anni duri della rivoluzione americana portarono con sé numerosi cambiamenti a ogni livello della società: politico, socio-economico, culturale e religioso, segnalatici da Jameson. Il movimento patriottico assunse innanzitutto una tendenza marcatamente democratica, nonostante l’adozione di una legge elettorale di tipo censitario. La convinzione di Trevelyan che le colonie avessero “acquisito fin dall’inizio un alto grado di democrazia” è parecchio idealizzata, ma lo è anche il disfattismo di Braudel, che guarda alla società americana solamente con occhi critici, e forse con alcuni pregiudizi negativi, ostinato nell’idea di un movente esclusivamente utilitarista dei coloni. Lo storico evidenzia la mobilità sociale e l’individualismo accentuato della società americana (self-help), la possibilità per chiunque di fare fortuna, riconoscendo che “si provvide affinché la strada dei privilegi fosse aperta a tutti”, ma persevera nel ritenere negativo anche questo aspetto, definendolo “una vasta e feroce lotta di interesse particolari” attuata senza scrupoli. L’individualismo americano, il mito del self-made man, in realtà non voleva per forza significare egocentrismo, e la mobilità sociale era ancora impensabile in un’Europa oberata di pregiudizi.

 

Le grandi proprietà dei tories e dei lealisti vennero confiscate e distribuite ai piccoli coltivatori e ai soldati, inoltre fu abolito il diritto di primogenitura. La vita culturale ebbe nuovo impulso con l’aumento dei giornali, la diffusione dei college e i contatti con gli intellettuali europei. Jefferson stabilì l’uguaglianza delle religioni davanti alla legge. Nonostante tutte queste innovazioni, sicuramente estremamente moderne e vantaggiose, perfino uno smodato apologeta dei patrioti come Trevelyan fu costretto a riconoscere il permanere di privilegi e ingiustizie nella società americana: la presenza dei grandi proprietari e la schiavitù dei neri.

 

Possiamo concordare con lo storico francese Furet nel ritenere che i rivoluzionari americani, a differenza di quelli francesi, avessero capito che la sovranità del popolo poteva diventare dispotica nel momento in cui non se ne facesse un uso saggio. Gli americani non avevano la pretesa di inaugurare una nuova era, né demonizzarono gli Inglesi; semplicemente, lottarono in primis per i loro diritti. Secondo Agulhon, un altro storico francese, il “moderatismo” dei patrioti americani fu dovuto al fatto che i controrivoluzionari erano tornati in Inghilterra o emigrati in Canada; in parte è vero, tuttavia, gli Inglesi avevano deciso di comune accordo con le colonie e le altre potenze europee di sottoscrivere il Trattato di Versailles, nessuno proibiva loro di tornare a contrastare gli americani, che inizialmente avevano chiesto soltanto l’autonomia, sperando ancora nella giustizia della Corona inglese.

 

È parecchio problematico delineare il ritratto fedele di una società così contraddittoria, ricca di luci proiettate verso il moderno – come la libertà e l’eguaglianza religiosa, secondo Jameson “il principale contributo dell’America alla civiltà del mondo” – e, allo stesso tempo, di incombenti ombre volte verso il passato (come, ad esempio, la schiavitù). Non c’è dubbio, però, che, nell’Europa delle monarchie assolute, si iniziò a guardare agli Stati Uniti come a un modello da imitare, un esempio da seguire, una piccola scintilla che poteva far sperare in qualcosa di nuovo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]