Tra Sei e Settecento la Francia, la
Spagna e l’Inghilterra avevano
fondato alcune colonie nella parte
orientale dell’America del Nord;
Europei fuggiti dai loro paesi per
scampare alle persecuzioni religiose
o politiche costituirono le prime
comunità di coloni. Tra questi, i
celeberrimi “pilgrim fathers”,
di cui si racconta siano approdati
nel 1620 con la loro nave Mayflower
nelle coste del Massachusetts e
abbiano istituito la Festa del
Ringraziamento.
In realtà, i veri Padri Fondatori
furono i puritani che si stabilirono
nella Baia del Massachusetts qualche
anno dopo, sobri, pii, animati dal
gusto per il lavoro e dal senso del
dovere, spesso istruiti; il
Thanksgiving Day fu istituito
invece dai superstiti al freddo,
alla fame e alle malattie che
avevano decimato la piccola colonia
partita con la Mayflower, per
ringraziare Dio dell’abbondante
raccolto estivo. I puritani
attuarono un sistema politico
oligarchico, tuttavia si può dire
che da loro trae origine la
democrazia americana: all’interno
delle Chiese locali e dei consigli,
era uso deliberare ed eleggere i
responsabili delle comunità. Roger
Williams li criticò aspramente, in
quanto convinto che un governo
civile non potesse imporre i
precetti religiosi, e denunciò il
carattere illegale delle
espropriazioni a scapito degli
indiani, con cui però inizialmente
avevano avuto buoni rapporti. Nel
corso del Settecento, si diffuse
l’empirismo illuministico e sorsero
rivalità fra mercanti e grandi
proprietari terrieri; ai puritani
venne affibbiato il nomignolo di
“yankee”.
Ai primi coloni si aggiunsero
debitori, contadini impoveriti e
mercanti alla ricerca di fortuna
provenienti da tutta Europa.
L’eterogeneità degli abitanti delle
colonie fu estremamente importante
nel favorire il rapido sviluppo e
l’apertura culturale della società
americana, a differenza di quanto
era avvenuto nelle colonie spagnole
o portoghesi. I coloni giungevano in
terra americana carichi di
iniziativa, desiderosi di iniziare
una nuova vita, portando diverse
competenze e abilità da esercitare
in uno spirito di tolleranza e
libertà fino ad allora sconosciuto.
Nonostante le colonie condividessero
alcuni caratteri comuni, fra esse
venne ben presto a crearsi un
dualismo soprattutto economico: le
colonie del Nord avevano
un’agricoltura cerealicola
organizzata in piccole proprietà,
allevamento e pesca, e lì si
svilupparono tutte le attività
correlate alla grande disponibilità
di legname, nel Sud invece prevaleva
l’agricoltura bastata sui latifondi
e sull’uso incontrollato di schiavi
neri. Alla rapida crescita economica
si affiancava sempre più
l’insofferenza verso gli obblighi
cui le colonie erano sottoposte
dalla Gran Bretagna.
Dopo la Guerra dei Sette anni,
infatti, gli inglesi pensarono di
poter sfruttare a proprio vantaggio
la ricchezza del popolo americano; a
tal fine, inasprirono il carico
fiscale dei coloni imponendo nuove
tasse, come la Sugar Act
(sullo zucchero) e la Stamp Act
(sui giornali e gli atti pubblici),
e li obbligarono a commerciare solo
con l’Inghilterra. Fu però il
decreto che affidava il monopolio
del commercio del tè nelle colonie
alla Compagnia delle Indie (il
Tea Act del 1763) a far
esplodere la tensione.
A Boston, alcuni coloni travestiti
da indiani presero d’assalto tre
navi inglesi e buttarono in mare il
carico di tè. Londra reagì facendo
chiudere il porto di Boston. Questo
fu un episodio emblematico del
malcontento dei coloni, che si
sentivano vittime del fiscalismo e
del protezionismo inglese; da esso
traspare la voglia di ribellarsi, di
essere trattati come gli Inglesi in
Inghilterra, di essere tutelati e
rappresentati. È in sostanza il
senso del famoso slogan No
taxation without representation:
le tasse sono valide solo se
approvate dai rappresentanti di chi
le deve pagare.
Nel 1774 si tenne a Filadelfia il
primo Congresso continentale, in cui
i rappresentanti delle colonie
stabilirono di proseguire la loro
lotta per l’autonomia a suon di
boicottaggio. Purtroppo, però, i
tentativi di conciliazione furono
vani e l’anno dopo fu convocato il
secondo Congresso, che decise la
formazione di un esercito autonomo,
capeggiato da George Washington, e
di procedere alla resistenza armata.
La richiesta alla Corona inglese non
era più l’autonomia, bensì
l’indipendenza, anche se permanevano
i lealisti, soprattutto fra
burocrati e rappresentanti del clero
anglicano, che intendevano rimanere
leali alla madrepatria. Alcuni
coloni del Sud, ad esempio,
temevano, con l’avvento della
democrazia, di dover rinunciare agli
schiavi neri.
Il 4 luglio 1776 il Congresso votò
la Dichiarazione d’Indipendenza
elaborata da Thomas Jefferson, in
cui furono fissati i principi
fondamentali su cui si sarebbero
fondati gli Stati Uniti, primo fra
tutti quello di uguaglianza (“Tutti
gli uomini sono creati eguali”); si
affermava che tutti gli uomini
avevano uguali diritti (“La Vita, la
Libertà, la Ricerca della Felicità”)
e che i governi dovevano fondarsi
sul consenso dei governati (un’eco
delle teorie di Locke). I cittadini
avevano il diritto di ribellarsi
quando “una lunga serie di abusi e
malversazioni rivelava il disegno di
ridurli all’assolutismo”; il re
inglese fu accusato di aver compiuto
ripetuti torti al fine di fondare
una tirannia su quegli Stati.
La guerra durò dal 1776 al 1781; gli
americani, numericamente inferiori e
poco addestrati, riuscirono
incredibilmente a vincere gli
Inglesi, soprattutto grazie
all’aiuto della Francia (con alleate
la Spagna e l’Olanda), che sperava
di rifarsi della sconfitta subita
anni prima, e soprattutto animati
dalla passione con cui gli americani
si battevano. Il movente dei
patrioti americani, fosse esso
idealista (come pensa Trevelyan), o
economico (secondo l’opinione di
Braudel) fu però la vera forza
trainante della rivoluzione.
Trevelyan fa notare che
«l’istinto di espellere l’autorità
della madrepatria», il senso di
indipendenza che affondava le sue
radici nell’attaccamento religioso
fu ciò che veramente spinse i coloni
a ribellarsi, tuttavia, anche la
salvaguardia della proprietà, la
ricchezza, il privilegio sociale
decantati da Braudel quale movente
dei patrioti concorsero alla
rivoluzione.
Gli Inglesi furono dapprima
sconfitti a Saratoga, infine, nella
penisola di Yorktown, vennero
stretti d’assedio e costretti alla
capitolazione. Nel 1783 il Trattato
di Versailles sancì la tanto
agognata indipendenza delle colonie;
la Spagna ricevette la Florida dalla
Gran Bretagna, mentre la Francia non
poté far altro che constatare
l’acuirsi del suo deficit
finanziario, ottenendo forse qualche
sperduta e minuscola isoletta delle
Antille. L’abile generale La Fayette,
dopo aver guidato i ribelli
americani, contribuì alla diffusione
in Francia dell’esempio americano,
che preparò il terreno per la
Rivoluzione.
Dopo un primo tentativo confederale
(Articles of Confederation
del 1777), le tredici ormai
ex-colonie attuarono il federalismo,
conciliando così le esigenze di
unità (dovute perlopiù alla crisi
economica) e il rispetto della
tradizionale autonomia. L’Ordinanza
del Nord Ovest stabilì che i nuovi
territori a ovest acquisiti con il
Trattato di Versailles sarebbero
entrati a far parte dell’Unione come
nuovi Stati. Nel 1787 si giunse alla
Costituzione degli Stati Uniti, di
impronta liberale, in cui trovò
applicazione la celebre teoria di
Montesquieu della divisione dei
poteri: George Washington fu
nominato primo presidente.
Gli anni duri della rivoluzione
americana portarono con sé numerosi
cambiamenti a ogni livello della
società: politico, socio-economico,
culturale e religioso, segnalatici
da Jameson. Il movimento patriottico
assunse innanzitutto una tendenza
marcatamente democratica, nonostante
l’adozione di una legge elettorale
di tipo censitario. La convinzione
di Trevelyan che le colonie avessero
“acquisito fin dall’inizio un
alto grado di democrazia” è
parecchio idealizzata, ma lo è anche
il disfattismo di Braudel, che
guarda alla società americana
solamente con occhi critici, e forse
con alcuni pregiudizi negativi,
ostinato nell’idea di un movente
esclusivamente utilitarista dei
coloni. Lo storico evidenzia la
mobilità sociale e l’individualismo
accentuato della società americana (self-help),
la possibilità per chiunque di fare
fortuna, riconoscendo che “si
provvide affinché la strada dei
privilegi fosse aperta a tutti”,
ma persevera nel ritenere negativo
anche questo aspetto, definendolo “una
vasta e feroce lotta di interesse
particolari” attuata senza
scrupoli. L’individualismo
americano, il mito del self-made
man, in realtà non voleva per
forza significare egocentrismo, e la
mobilità sociale era ancora
impensabile in un’Europa oberata di
pregiudizi.
Le grandi proprietà dei tories e dei
lealisti vennero confiscate e
distribuite ai piccoli coltivatori e
ai soldati, inoltre fu abolito il
diritto di primogenitura. La vita
culturale ebbe nuovo impulso con
l’aumento dei giornali, la
diffusione dei college e i contatti
con gli intellettuali europei.
Jefferson stabilì l’uguaglianza
delle religioni davanti alla legge.
Nonostante tutte queste innovazioni,
sicuramente estremamente moderne e
vantaggiose, perfino uno smodato
apologeta dei patrioti come
Trevelyan fu costretto a riconoscere
il permanere di privilegi e
ingiustizie nella società americana:
la presenza dei grandi proprietari e
la schiavitù dei neri.
Possiamo concordare con lo storico
francese Furet nel ritenere che i
rivoluzionari americani, a
differenza di quelli francesi,
avessero capito che la sovranità del
popolo poteva diventare dispotica
nel momento in cui non se ne facesse
un uso saggio. Gli americani non
avevano la pretesa di inaugurare una
nuova era, né demonizzarono gli
Inglesi; semplicemente, lottarono in
primis per i loro diritti. Secondo
Agulhon, un altro storico francese,
il “moderatismo” dei patrioti
americani fu dovuto al fatto che i
controrivoluzionari erano tornati in
Inghilterra o emigrati in Canada; in
parte è vero, tuttavia, gli Inglesi
avevano deciso di comune accordo con
le colonie e le altre potenze
europee di sottoscrivere il Trattato
di Versailles, nessuno proibiva loro
di tornare a contrastare gli
americani, che inizialmente avevano
chiesto soltanto l’autonomia,
sperando ancora nella giustizia
della Corona inglese.
È parecchio problematico delineare
il ritratto fedele di una società
così contraddittoria, ricca di luci
proiettate verso il moderno – come
la libertà e l’eguaglianza
religiosa, secondo Jameson “il
principale contributo dell’America
alla civiltà del mondo” – e, allo
stesso tempo, di incombenti ombre
volte verso il passato (come, ad
esempio, la schiavitù). Non c’è
dubbio, però, che, nell’Europa delle
monarchie assolute, si iniziò a
guardare agli Stati Uniti come a un
modello da imitare, un esempio da
seguire, una piccola scintilla che
poteva far sperare in qualcosa di
nuovo.