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N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

gli stati musulmani nella penisola iberica

INFLUENZE E CONTAMINAZIONI

di Francesco Giannetti

 

È indicativo che le entità statali islamiche nella penisola iberica fra l’XI e il XV secolo siano chiamate Reinos de Taifas e l’adozione del vocabolo tàifa per indicare un “piccolo Stato” meglio di altre considerazioni può spiegare il profondo debito contratto nei confronti della cultura araba da parte della cultura cristiana iberica.

 

Siviglia diventa dopo il crollo omayyade la città egemone di al-Andalus, è nel 1091 occupata dai berberi almoravidi venuti dal nord Africa che la dotano di una cinta muraria con sette porte, edificata per difendersi dalla formidabile progressione militare di Alfonso VI di Leon e Castiglia: tangibile dimostrazione di una inversione di forze inconcepibile appena un secolo prima, per agevolare la quale la Chiesa esenta i cristiani iberici dal partecipare alle crociate, avendo costoro da condurre in casa il loro impegno anti-islamico.

 

Cordova sarà presa da Ferdinando III di Castiglia solo il 29 giugno 1236, dopo la vittoria del 1212 sugli Almohadi a Las Navas de Tolosa. Mentre il Qasr califfale resta il “Palazzo” del potere, l’Alcazar de lor Reyes Cristianos, venendo rimodellato solo nel 1327 da re Alfonso XI di Castiglia e Leon, le mura cittadine sono riattate e la splendida moschea trasformata in cattedrale, scampando quanto meno alla furiosa damnatio della Chiesa e della nobiltà cristiana.

 

Non si sa se all’epoca Cordova può ancora vantare sui suoi 5 mila ettari di superficie il mezzo milione di abitanti dell’età omayyade, né sappiamo se vi fossero ancora le oltre 80 mila botteghe dell’epoca dell’oro del califfato.

 

Non sappiamo se nella metropoli si fossero conservati una parte del patrimonio librario delle sue biblioteche, i suoi centri di studio, i suoi 600 hammàm e le sue circa 1600 moschee. Tutto ignoriamo circa gli ospedali, pur essendo presente sulla riva sinistra del Guadalquivir un lazzeretto ma, essendo i nosocomi presenti in ogni grande città del mondo islamico, dobbiamo dedurre che Cordova non costituisse un’eccezione, tanto più che il massimo medico dell’Europa dell’epoca, l’israelita Hasdày ibn Shaprùt, vive a Cordova ed esercita nella corte omayyade.

 

La sorte conosciuta dai sivigliani se è migliore, lo è solo per l’essere stati rudentemente governati dai loro corregionali almoravidi, se diamo retta al principe-poeta abbadideal-Mu’tamid che preferisce un destino da camelliere in Ifriqiya anziché da porcaio in Castiglia. Viene parzialmente accontentato, nel senso che finisce i suoi giorni in nord Africa ma nel carcere di Aghmàt, vicino Marrakesh.

 

I nuovi padroni di al-Andalus ne disprezzano gli abitanti, ritenuti del tutto imbelli a causa d’una debosciata inclinazione ai piaceri e alle mollezze. Rendono Siviglia loro capitale in al-Andalus, facendole conoscere un periodo di avvilente oscurantismo, sottolineato dall’ostilità degli Almoravidi verso la mistica e dall’imposizione del velo alle donne, da sempre disavvezze in al-Andalus a indossare simili parametri, anche se non si potrà parlare di una misura sessista, visto che i maschi almoravidi hanno abitudine di girare essi stessi del tutto velati. Viene rigorosamente sanzionato il bere vino, il far musica e la danza muliebre. Motivi che, assieme ad altri, ai musulmani andalusi paiono più che sufficienti per detestare i loro salvatori.

 

È tale il contrasto fra musulmani spagnoli e africani che la sicurezza delle contrade andaluse ne risente pesantemente, mentre la corruzione raggiunge livelli mai registrati e la cultura langue per l’insopportabile pietismo almoravide. Esponenti andalusi tornano quindi in nord Africa per sollecitare l’intervento degli Almohadi, implacabili nemici degli Almoravidi, da essi giudicati eretici. Il loro capo, Ibn Tùmart, accetta la richiesta, dando modo agli Andalusi di conoscere a partire dal 1145 la nuova brace dopo essersi bruciati con la vecchia padella. Idn Tùmart è un musulmano che si ritiene ortodosso e come gli Almoravidi, poco incline a giudicare con indulgenza e dolcezze di vita cui gli Andalusi si sono invece abituati da secoli.

 

Il giogo almohade è ben esemplificato dal destino di Averroè che di Siviglia è qadi, come suo nonno lo era stato di Cordova. La sua dottrina “razionalizzante” è infatti giudicata eretica e se diventerà buona semente per l’Occidente latino, in cui l’aristotelismo e l’averroismo saranno volano di progresso intellettuale, le sue opere sono condannate in patria al rogo ed egli stesso conosce l’esilio a Lucena.

 

Sorte ancor peggiore coinvolge il suo concittadino Maimonide che nel 1166, come altri suoi corregionali israeliti, è costretto a rifugiarsi in Palestina e nel più tollerante Egitto dei discendenti di Saladino per sfuggire ai massacri almohadi che annichiliscono anche le residue comunità cristiane del nord Africa. Politica tanto ferocemente oppressiva da non guadagnarsi neppure il sostegno dei Berberi andalusi, a dispetto della comune origine etnico-culturale con gli Almohadi.

 

Numerosi sono inoltre i matrimoni misti, talora conclusi per motivi politici, sia nell’ambito delle famiglie regnanti cristiane sia in quello degli emiri dei califfi omayyadi e dei signori delle Taifa che fanno proprio il precedente del figlio del conquistatore Musa ibn Nusàyr, ‘Abd al-’Aziz, che aveva sposato Egilona, vedova dello sconfitto re visigoto Rodrigo. Basterà a tal fine ricordare Zayda, figliastra di al-Mu’tamid ibn Abbàs, amante di Alfonso VI di Castiglia e Leon, che il re sposa dopo che viene battezzata col nome di Isabella, avendo da lei il figlio Sancho, morto appena quindicenne tra le fila castigliane nella battaglia di Uclés. Esempio non unico, peraltro, giacché per converso, le figlie di Vermudo II di Leon, Teresa Vermudez, e di Sancho Abarca di Pamplona, convertitasi all’Islam e assunto il nome di Abda, vanno in spose al potente reggente califfale Almanzor per sanzionare le intese politico-militari volute dai due padri.

 

I rapporti tra al-Andalus e i regni cristiani non sono quindi sempre caratterizzati dal contrasto ideologico-religioso e non sono rare alleanze tra i due contendenti, quando a ciò spingono la necessità o il marcato vantaggio personale. La regione navarrese Toda ad esempio, chiede e ottiene nel 958 che Hàsday ben Shaprùt giunga a Pamplona da Cordova per curare la grave obesità del nipote Sancho I el Gordo, deposto dal trono di Leon da Fernan Gonzales che l’aveva rimpiazzato col genero Ordoño IV el Malo. Hàsday non impone solo una dieta assai efficace ma che la nonna e il nipote si rechino nella sede califfale di Madìnat az-Zahrà per trattare col califfo Abd ar-Rahman III l’accordo militare cui Toda in realtà mirava e che consentirà a Sancho I di recuperare il regno.

 

Sancho e la nonna sono bollati per questo accordo dai cristiani di “politeismo” ma ciò non impedisce allo stesso Ordoño IV di Leon di cercare rifugio più tardi in al-Andalus e di piatire l’aiuto del nuovo califfo al-Hakam II quando a sua volta si troverà a malpartito coi suoi corregionali. Lo stesso eroe della cristianissima Spagna, il Cid Campeador, as-Sàyyid al-Mubàriz, il “Signore Campione”, cioè Rodrigo Diaz de Vivar, combatte a lungo agli ordini del signore hudide di Saragozza, al-Mùqtadi, irritato dall’ingiusto esilio comminatogli dal suo precedente signore, il re cristiano Alfonso VI di Castiglia, a dimostrazione che i diversi orientamenti religiosi cedono facilmente il passo alle ambizioni politiche.

 

Tutto ciò è abbondantemente dimostrato dai non pochi mercenari che si fanno assoldare da sovrani di fede opposta alla loro. Il Cid Campeador non è l’unico esempio giacché i fanti cristiani combattono per Almanzor e altri musulmani operano per i Re cattolici nel loro ultimo assalto a Granada, i cui sultani d’altronde avevano cercato di allearsi nel XIV secolo con Sancho IV di Castiglia contro i loro “soccorritori” Merinidi.

 

Le commistioni fra i due mondi sono tali e tante da creare l’aljamiada dall’arabo giamaa, “unire”: una lingua ibrida, romanza per struttura grammaticale ma lessicalmente araba. Le innumerevoli traduzioni approntate in Spagna, specialmente nella Scuola di Toledo sono fondamentali al mondo latino europeo per potersi riaccostare alle innumerevoli opere della sapienza greca e per conoscere quella persiana e indiana rivisitate dalla cultura araba.

 

L’autore del Novellino, Dante Alighieri, Cristoforo Colombo e lo stesso Tommaso d’Aquino sono in qualche maniera condizionati anche da quanto realizzato in Spagna da colti poliglotti musulmani, ebrei e cristiani, inconsapevoli attori dell’epilogo di un’era troppo ingenerosamente definita buia e dell’avvio di una nuova ed esaltante fase.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Piccinni G., Il Medioevo, Mondadori, Milano 2004

Vanoli A., La Spagna delle tre culture. Ebrei, cristiani e musulmani tra storia e mito, Viella, Roma 2006

Vaquero Pineiro M., Fra cristiani e musulmani. Economie e territori nella Spagna medievale, Mondadori, Milano 2008



 

 

 

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