N. 28 - Aprile 2010
(LIX)
Stanley Kubrick e la Storia
nota a margine di Full Metal Jacket
di Gianluca Seramondi
La
letteratura
critica
ha
rilevato
in
più
occasioni
che
la
Storia
è
per
Kubrick
un
"interlocutore"
privilegiato,
e
non
un
semplice
sfondo
o un
pretesto.
Per
Barnaba
Maj,
Kubrick
è
“…uno
dei
più
profondi
analisti
[…]
delle
forme
moderne
e
contemporanee”
della
guerra.
Guido
Fink,
in
un
saggio
su
Lolita,
ha
puntualizzato
la
centralità
della
Storia
nel
discorso
kubrickiano,
affermando
che
il
regista
statunitense
“...sembra
animato,
fin
dalle
scatole
cinesi
del
flashback
nel
flashback
di
Killer's
Kiss
(1955),
dall'esigenza
di
tornare
indietro,
di
raggiungere,
procedendo
controcorrente,
il
momento
in
cui
tutto
è
cominciato:
la
prima
guerra
mondiale,
la
prima
rivolta
di
classe
della
storia,
il
primo
- e
ultimo
-
conflitto
nucleare,
l'ormai
lontana
festa
di
capodanno
che
ha
segnato
il
culmine
dell'attività
mondana
all'Hotel
Overlook”.
Nello
stesso
modo,
Alberto
Crespi,
a
proposito
di
Barry
Lyndon,
afferma
che
“...
lo
scrupolo
con
cui
sono
stati
ricostruiti
i
vestiti,
gli
ambienti
e le
suppellettili
dell'epoca
...
è
funzionale
alla
messinscena
di
un
modello
storico
...
in
cui
individuare
(ed
esaminare
all'opera,
nel
vivo
della
ricostruzione),
le
origini,
storiche
e
culturali
della
nostra
civiltà.
Questo
e
non
altro
è il
'700
per
Kubrick”.
Vi
è,
insomma,
in
Kubrick
l'esigenza
di
trovare
l'inizio
o,
per
meglio
dire,
gli
inizi.
I
periodi
storici
o
gli
accadimenti
storici
affrontati
nei
suoi
film
sono,
nella
prospettiva
indicata
dagli
autori
sopra
citati,
i
luoghi
in
cui
per
Kubrick
emerge
qualcosa
di
nuovo
che
introduce
uno
scarto
rispetto
al
continuum
storico.
E
l’analisi
a
cui
egli
sottopone
queste
situazioni
affatto
dettagliate
storicamente,
da
cui
poi
estrarre
le
differenze
che
impongono
una
deviazione
al
movimento
storico,
è
realmente
nichilistico
giacché
è a
tutti
gli
effetti
uno
smascheramento
e
una
individuazione
dei
meccanismi
che
hanno
costruito
ed
affermato
la
"maschera"
in
quanto
discorso
dominante.
In
questo
articolo
illustrerò
come
operi
questa
strategia
discorsiva
in
relazione
alla
questione
di
quale
sia
il
Vietnam
in
gioco
nella
guerra
che
si
svolse
tra
il
1962
e il
1975.
Il
penultimo
film
di
Kubrick
si
muove
nella
piena
consapevolezza
che:
“...la
guerra
del
Vietnam
è
stata
la
prima
guerra
interamente
seguita
da
media,
stampa
e
televisione
e
che
il
suo
film
deve
confrontarsi
con
un'iconografia
tracciata
dalla
cronaca
mondiale”
Ecco,
allora,
gli
sguardi
in
macchina
dei
marines
intervistati
da
un
cineoperatore;
il
marines
che
posa
accanto
al
cadavere
di
un
vietcong;
ed
ecco,
soprattutto,
il
giornalista
Joker.
Questa
consapevolezza
significa
anche
che
Full
Metal
Jacket
si
muove
interamente
sul
piano
dell'immaginario
collettivo,
lo
trascina
in
sé,
se
ne
alimenta,
lo
sfrutta
e ne
usurpa
la
forza.
Così,
Full
Metal
Jacket
assume
senza
timore
il
topos
classico
del
war
movie
che
vuole
la
guerra
come
luogo
di
formazione.
Si
può
affermare,
infatti,
che
Full
Metal
Jacket
è
sostanzialmente
un
romanzo
cinematografico
di
formazione.
Il
passaggio
all'età
adulta,
rappresentata
dall'affermazione
finale
di
Joker:
“Vivo
in
un
mondo
di
merda,
ma
sono
vivo”,
si
compie
dapprima
attraverso
l'addestramento
nel
campo
marines
di
Parris
Island
e
poi
con
la
prova
sul
campo,
nel
Vietnam
in
guerra,
prova
che
dovrebbe
confermare
o
invalidare
il
raggiungimento
dell'età
della
ragione.
A
questo
proposito
si
potrebbe
altresì
dire
che
esso
rappresenta
l’ultimo
tassello
di
una
riflessione
sulle
modificazioni
della
figura
del
soldato
che
risale
a
Fear
and
Desire.
In
questo
film,
il
conflitto
è
tra
uomini,
le
cui
differenze
culturali,
sociali
etc.
etc.
sono
annullate
dalla
identica
“sostanza
umana”
allusa
per
metonimia
dall’impulso
della
fame
che
accomuna
i
due
opposti
schieramenti.
In
Paths
of
Glory
Il
nemico
contro
cui
combattono
i
soldati
gettati
lungo
il
fronte
occidentale
non
è
solo
la
nazione
tedesca.
È la
stessa
tecnologia,
la
quale
costringe
i
fanti
nelle
ristrettezze
di
un
suolo
scavato,
butterato,
percorribile
solo
a
carponi
o
abitabile
solo
nell'angustia
di
ridotti
equivalenti
a
tane.
Nel
Doctor
Strangelove...,
il
conflitto
poi
non
è in
verità
tra
Stati
Uniti
e
Unione
sovietica,
che
nessun
film
sulla
Guerra
Fredda
avrebbe
mai
osato
"affratellare"
come
ha
fatto
Kubrick,
ma è
quello
più
reale
tra
“l'ordigno
fine
del
mondo”
sovietico
e
l'arsenale
nucleare
statunitense.
In
questo
conflitto
l’uomo,
si
potrebbe
dire,
è
cooptato
dalla
tecnologica
dispiegata
come
suo
elemento:
il
pilota
del
bombardiere
americano
che
monta
come
fosse
un
cavallo
l’ordigno
nucleare
che
apre
il
valzer
dei
funghi
atomici.
In
Full
Metal
Jacket,
l’addestramento
dei
marines
ha
come
fine
dichiarato
la
trasformazione
dei
soldati
in
macchine
da
guerra,
per
le
quali
il
fucile
non
è
uno
strumento
o
una
protesi,
ma
la
prima
e
più
ovvia
estensione
offensiva
della
propria
natura.
L'umano
è,
in
questo
film,
l'ultima
frontiera
della
tecnologia,
l'ultimo
suo
territorio
di
conquista.
L'uomo-macchina
di
Full
Metal
Jacket
è
costruito
attraverso
un
profondo
e
instancabile
lavorio
psicologico,
da
un'accurata
e
radicale
programmazione.
Il
soldato
di
Full
Metal
Jacket
ha
tutte
le
sembianze
dell'umano,
comprese
le
sue
debolezze
e le
sue
insufficienze
anche
fisiche,
ma
possiede
nello
stesso
tempo
la
struttura
psicologica
di
un
killer
irremovibile
dai
fini
stabiliti
dal
programmatore.
Di
fronte
all'uomo-macchina,
il
nemico
vietnamita
è
un'ombra
che
alla
fine
si
rivelerà
essere
una
ragazzina
che
implora
la
morte.
Il
reale
conflitto
che
si
combatte
nel
Vietnam,
allora,
non
è
quello
contro
i
viet-cong,
nemmeno
è
quello
tra
i
prodotti
certo
devastanti
della
tecnologia
bellica,
bensì
è
quello
tra
l'uomo-macchina,
tra
la
tecnologia
incarnata
e
fattasi
uomo,
e
l'umano
tout
court.
In
questo
contesto,
il
nemico
non
può
che
essere
o un
ombra
o un
cecchino
che,
di
tutti
i
ruoli
militari
è
quello
che
più
conserva
l'umano
nel
propri
porsi:
il
nascondimento,
la
paura
di
essere
scoperto,
l'imprevedibilità,
la
competenza
tattica,
la
visione
d'insieme
della
situazione
in
cui
opera,
l'abilità,
verrebbe
da
dire,
artigianale
con
cui
si
rapporta
ai
suoi
strumenti,
la
domanda
di
morte
supplicata
insistentemente.
Già
qui
si
può
intravedere
all’opera
quel
lavorio
instancabile
di
destratificazione
cui
Kubrick
sottopone
i
suoi
soggetti.
Infatti
al
di
sotto
dei
conflitti
ufficiali,
che
definiscono
esattamente
il
nemico,
Kubrick
rintraccia
conflitti
i
cui
contendenti
sono
ad
un
altro
livello
rispetto
a
quello
geeopolitico.
Difatti
i
conflitti
attraversati
dai
film
qui
richiamati
sono:
uomo
versus
uomo
(Fear
and
Desire);
uomo
versus
macchina
(Paths
of
glory);
macchina
versus
macchina
(Dottor
Strangelove…);
uomo
-
macchina
versus
umano
(Full
Metal
Jacket).
Tornando
a
Full
Metal
Jacket,
il
penultimo
film
di
Kubrick
assume
anche
un
altro
topos
del
war
movie:
la
figura
del
giornalista
di
guerra.
Se,
infatti,
l'obiettivo
dichiarato
del
war
movie
in
genere
è
affermare
che
“...si
combatte
per
necessità,
per
difendere
le
nostre
case,
...
per
salvare,
una
volta
per
tutte,
la
democrazia,
il
futuro”,
il
reporter-soldato,
è
una
figura
necessaria
per
spiegare
innanzitutto
ai
soldati
stessi
che
combattono
e
poi
alla
società
civile,
i
motivi
della
guerra.
Come
Roy
Menarini
e
Claudio
Bisoni
spiegano:
“La
questione
di
spiegare
a sé
stessi
e a
chi
è
restato
a
casa
ad
aspettare
le
ragioni
del
combattere
sul
fronte
nemico,
il
motivo
che
spinge
al
sacrificio
di
vite
umane,
è un
dato
così
poco
secondario
del
war
movie
da
aver
contribuito
a
fare
nascere
un
sottofilone
del
genere,
quello
dei
film
che
hanno
per
protagonisti
i
giornalisti
di
guerra”.
Attingere
all'immaginario
collettivo
non
risparmia
nemmeno
il
nemico,
il
soldato
vietnamita,
su
cui,
evidentemente,
grava
la
somiglianza
fisica,
o la
percezione
di
una
somiglianza
fisica,
con
i
giapponesi.
E
Full
Metal
Jacket,
infatti,
ne
offre
un'immagine
oramai
stereotipata
coltivata
da
film
su
film
riguardanti
la
Seconda
Guerra
Mondiale.
I
vietnamiti,
alla
pari
dei
giapponesi,
“...sono
sleali,
attaccano
di
notte
e di
sorpresa
[l'attacco
al
campo
marines
di
notte
e,
per
di
più,
durante
i
festeggiamenti
del
Tet]”
Ma
se i
vietnamiti
sono
una
variazione
sul
tema
dei
giapponesi,
questi
ultimi
sono
caricati
di
ben
altri
fantasmi:
“Ricordano
il
pellerossa
dell'Western”.
Del
resto,
gli
stessi
marines
di
Full
Metal
Jacket
non
si
oppongono
ad
essere
a
tutti
gli
effetti
dei
cow
boy:
al
di
là
del
fatto
che
uno
dei
marines
è
soprannominato
Cow
boy,
sono
molti
i
riferimenti
ironici
di
Joker
a
John
Wayne.
In
generale
i
marines
“...agiscono
come
se
fossero
modellati
da
un
immaginario
cinematografico.
I
ruoli
possono
essere
quelli
del
generale
Custer
o
degli
indiani”.
Si
potrebbe
dire
che
in
Full
metal
Jacket
si
riverberi
l'intera
storia
del
war
movie
e,
soprattutto,
il
nucleo
tematico
su
cui
si
fonda:
“La
guerra
è,
al
tempo
stesso,
una
nuova
frontiera,
un
palcoscenico
di
proporzioni
smisurate
e,
più
di
tutto,
uno
spazio
mitico
nel
quale
rivive
lo
spirito
d'avventura
dei
pionieri
e
dei
padri
[fondatori]”.
In
questa
prospettiva
che,
come
si
diceva,
si
nutre
dell’immaginario
collettivo,
stupisce
la
scelta
di
Kubrick
di
fornire
una
rappresentazione
del
Vietnam
che
contrasta
palesemente
con
l'iconografia
tradizionale
che
cinema,
televisione
e
stampa
avevano
codificato:
si
pensi,
per
esempio,
al
Vietnam
di
Apocalipse
Now.
Come
afferma
Sandro
Bernardi,
in
Full
Metal
Jacket
«Il
Vietnam
è
sparito[corsivo
mio]
e
“L'Oriente
misterioso
è
stato
sostituito
da
un
grande
complesso
edilizio
di
cemento
armato”.
Come
è
noto,
Kubrick
girò
Full
Metal
Jacket
nel
complesso
industriale
di
Beckton,
nei
pressi
di
Londra.
La
scelta
di
questo
teatro
di
posa
era
motivata
dalle
affinità
architettoniche
che
il
plesso
mostrava
con
la
città
vietnamita
di
Hue,
la
cui
“...architettura
massiccia
di
stampo
razionalistico
[era]
improntata
ai
principi
dell'architettura
tedesca
[Gropius
e il
Bauhaus]
degli
anni
Trenta
e
Quaranta
(la
città
vietnamita
fu
costruita
da
architetti
della
scuola
di
Dessau
per
incarico
dei
francesi,
che
la
governavano
in
quel
periodo)”.
Il
Vietnam
è
stato
colonia
francese
e,
anzi,
la
guerra
che
ha
dilaniato
il
paese
negli
anni
Sessanta
e
Settanta,
è
figlia
anche
di
quel
periodo.
La
sparizione
del
Vietnam,
dunque,
ha
il
senso
preciso
della
scomparsa
proprio
del
Vietnam
immaginario
codificato
dai
mass
media,
e
dipende,
in
sostanza,
dal
fatto
che
“...questo
luogo,
pur
essendo
somigliante
di
fatto
al
Vietnam
storico,
non
lo
riproduce
in
modo
verosimile,
[cioè]
secondo
le
attese
dello
spettatore”.
Kubrick,
in
altri
termini,
ha
sì
rappresentato
il
Vietnam,
ma
lo
ha
fatto
“...per
dissomiglianza.
Questa
scelta
[è]
fondata
sulla
sostituzione
invece
che
sull'analogia,
cioè
su
un
procedimento
che
non
ricostruisce
l'oggetto
ma
mette
al
suo
posto
un
altro
oggetto
diverso”.
L'interpretazione
di
Bernardi
ha
di
mira
l'affinità
della
scrittura
kubrickiana
con
quella
kafkiana,
e
quindi
non
ritiene
di
dover
insistere
oltre
sul
seguente
aspetto
che
per
quanto
qui
si
va
dicendo
è
invece
centrale:
il
fatto,
in
altre
parole,
che
il
Vietnam
storico
che
Kubrick
mette
in
scena
è a
sua
volta
il
prodotto
della
cultura
occidentale.
È,
in
fondo,
una
rappresentazione
esso
stesso
dell'Occidente.
La
sparizione
del
Vietnam,
a
questo
punto,
non
concerne
solo
il
Vietnam
immaginario
ma
anche
quello,
per
così
dire,
pre-coloniale.
Si
comprende,
allora,
perché
il
romanzo
di
formazione
di
Joker
non
può
che
decidersi
con
la
consapevolezza
che
stare
nel
Vietnam
a
combattere
“...equivale
a
sentirsi
più
vicini
a
casa”.
Si
tratta
di
una
consapevolezza
pesante.
Essa
non
significa
l'equiparazione
di
Oriente
e
Occidente
o la
dichiarazione
di
una
guerra
giocata
sostanzialmente
in
casa
propria.
Vuole
dire,
quantomeno,
il
tramonto
dell'Oriente,
nel
senso
che
l'Oriente
è
stato
annesso
(termine
anch'esso
pesante)
all'Occidente
come
terreno
su
cui
predisporre
il
proprio
gioco.
Di
conseguenza,
il
Vietnam
pre-coloniale
di
Full
Metal
Jacket
è
rappresentato
per
negazione:
come
quel
luogo,
intreccio
di
realtà
geografica
e
culturale,
che
rimane
radicalmente
estraneo
a
quanto
avviene
nei
propri
confini.
Il
movimento
che
Kubrick
segue
per
trasporre
la
Storia
del
Vietnam
nel
film,
può
essere
riassumibile
nel
senso
di
uno
smascheramento
che
acquista
la
determinazione
di
una
"sfoliazione"
o di
una
destratificazione:
sotto
il
Vietnam
immaginario
si
nasconde
un
Vietnam
storicamente
determinato
sotto
cui
vi
è, a
sua
volta,
un
Vietnam
autentico
irrappresentabile.
Il
procedimento
è a
ritroso.
Percorrendolo
al
contrario,
finisce
per
apparire
come
fosse
un
ritorno
del
rimosso:
il
Vietnam
storicamente
determinato
–
quello
dell’architettura
razionalista
- è
negato
dal
Vietnam
(dell’)immaginario
in
quanto
“non
è
verosimile”,
e
non
è
verosimile
perché
esso
contiene
come
proprio
nucleo
inaccettabile
le
responsabilità
dell'Occidente
nei
confronti
del
Paese
asiatico
nella
sua
autenticità
oramai
irrecuperabile.
In
questo
modo,
“...mediante
il
simbolo
della
negazione
il
pensiero
si
affranca
dai
limiti
della
rimozione
[pur
mantenendo]
l'essenziale
della
rimozione”.