N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
sulla
stampa
in
turchia
l'emergenza covid rende il bavaglio ancora più asfissiante
di
Leila
Tavi
Dopo
la
ratifica
da
parte
del
Parlamento
turco
del
disegno
di
legge
sulla
libertà
vigilata
per
i
detenuti
che
hanno
commesso
dei
reati
lievi,
mercoledì
15
aprile
è
iniziato
il
rilascio
di
circa
un
terzo
dei
detenuti
dalle
carceri
turche,
ma
la
maggior
parte
dei
giornalisti
incriminati
per
aver
espresso
il
loro
dissenso
verso
il
regime
di
Erdoğan
o
per
aver
esercitato
il
diritto
di
cronaca
è
rimasta
dietro
le
sbarre.
Tra
i
tanti
colleghi
rinchiusi
vogliamo
ricordare:
Rawin
Sterk
Yıldız,
reporter
dell’emittente
Rudaw
TV,
arrestato
il
29
febbraio
2020
mentre
stava
documentando
la
crisi
dei
rifugiati
al
confine
turco-greco;
Barış
Pehlivan,
giornalista
investigativo
di
Oda
TV,
arrestato
insieme
a
Hülya
Kılınç
per
un'inchiesta
che
stava
realizzando
in
Libia;
Mahmut
Alınak,
avvocato,
scrittore
e
politico
curdo.
Molti
giornalisti
restano
quindi
nelle
carceri
turche,
vulnerabili
al
virus,
perché
già
indeboliti
dalle
inumane
condizioni
della
detenzione.
Non
va
perciò
interpretato
come
un
passo
avanti
nella
libertà
di
stampa
il
posizionamento
della
Turchia
al
154°
posto,
con
tre
posizioni
guadagnate,
nell'edizione
2020
del
World
Press
Freedom
Index,
a
cura
di
Reporters
Without
Borders
(Reporters
sans
frontières
-
RSF).
In
Turchia
la
censura
dei
media
è
stata,
al
contrario,
intensificata,
in
particolar
modo
sulle
riviste
e
sui
quotidiani
online.
L'aumento
di
tre
punti
dell'Indice
di
RSF
in
Turchia
è
solo
il
risultato
della
retrocessione
di
altri
Paesi
e
della
diminuzione
del
numero
di
giornalisti
detenuti,
avvenuta
a
seguito
delle
modifiche
apportate
alla
procedura
giudiziaria
nell'ottobre
2019
e
che
però
è
stata
solo
temporanea.
La
Turchia
è
più
autoritaria
che
mai.
Una
proposta
di
legge
promossa
da
Halil
Öztürk,
deputato
del
MHP,
partito
nazionalista
alleato
del
partito
di
Erdoğan,
permetterebbe,
se
approvata,
di
ampliare
il
campo
di
applicazione
della
legge
numero
5651,
denominata
Regolamento
sulle
pubblicazioni
in
Internet.
Come
scusa
per
questo
inasprimento
della
legge
sul
web
è
stata
addotta
quella
di
"combattere
i
crimini
commessi
online",
de
facto
in
questo
modo
le
autorità
avrebbero
un
maggiore
controllo
sui
contenuti
diffusi
online
attraverso
blog
e
social
media.
Mentre
la
Turchia,
come
il
resto
del
mondo,
lotta
contro
il
COVID-19,
il
suo
governo
sta
imbrigliando
ancora
di
più
il
diritto
di
espressione
dei
cittadini
turchi
in
rete.
I
giganti
dei
social
media
come
Twitter,
Facebook
e
Instagram,
o le
applicazioni
di
messaggistica
popolare
come
WhatsApp
e
Messenger,
insieme
a
tutti
gli
altri
social
network
con
più
di
500.000
accessi
giornalieri
in
Turchia,
dovranno
aprire,
secondo
il
disegno
di
legge,
un
ufficio
di
rappresentanza
in
Turchia,
inoltre
gli
utenti
dei
social
dovranno
registrare
i
loro
profili
utilizzando
un
documento
di
identità.
Il
disegno
di
legge
obbliga
le
società
proprietarie
dei
social
media
a
far
rispondere
i
loro
rappresentanti
ufficiali
in
Turchia
alle
autorità
in
merito
ai
contenuti
delle
loro
piattaforme
entro
72
ore
e a
compilare,
nonché
notificare,
ai
funzionari
governativi
preposti
al
controllo
tutti
i
contenuti
rimossi
o
bloccati
in
periodi
di
tre
mesi.
Alle
aziende
sarà
chiesto
inoltre
di
archiviare
i
dati
appartenenti
agli
utenti
turchi
e
registrati
all'interno
del
Paese.
Se
le
aziende
non
risponderanno
alle
richieste
dei
funzionari
entro
72
ore,
saranno
passibili
di
sanzioni
fino
a
135
milioni
di
euro.
Le
aziende
che
non
comunicheranno
i
contenuti
rimossi
o
bloccati,
o
che
non
archiviano
i
dati
potranno
essere
multate
fino
a un
milione
di
euro.
Il
disegno
di
legge
stabilisce
anche
che
le
aziende
che
non
applicheranno
la
nuova
normativa
potrebbero
subire
il
dimezzamento
della
larghezza
di
banda
dopo
30
giorni,
a
mezzo
di
un'ordinanza
del
tribunale,
per
poi
essere
ridotte
del
95
per
cento
se
continueranno
a
violare
la
legge
nei
successivi
trenta
giorni.
Infine
i
gestori
dei
social
sarebbero
obbligati
a
fornire
al
governo
turco
la
localizzazione
dei
dati.
Questo
ulteriore
inasprimento
della
legge
porterebbe
a
ulteriori
oneri
finanziari
per
le
aziende
che
gestiscono
i
social
media
e
metterebbe
a
rischio
la
sicurezza
di
tali
aziende,
come
sostiene
Emre
Kürşat
Kaya,
analista
politico
dell’Edam
(Centre
for
Economics
and
Foreign
Policy
Studies)
di
Istanbul.
Kaya
ha
sottolineato
come
altri
regimi
facciano
pressing
ai
gestori
di
social
media
per
la
localizzazione
dei
dati,
pertanto,
per
non
creare
un
precedente,
c’è
un’alta
probabilità
che
le
imprese
che
detengono
le
principali
piattaforme
social
decidano
di
non
erogare
più
i
loro
servizi
in
Turchia,
come
il
portale
internazionale
di
pagamento
e di
trasferimento
di
denaro
online,
PayPal,
che
ha
cessato
tutte
le
sue
attività
in
Turchia
per
questioni
simili
nel
2016.
La
legge
sui
social
media
è
stata
ritirata
dall’agenda
dei
lavori
del
Parlamento
per
far
posto
a
progetti
di
legge
più
urgenti
sull'economia
e
sulla
protezione
della
salute
pubblica,
necessari
per
contrastare
la
pandemia
e le
sue
conseguenze
economiche,
ma
l’opposizione
al
governo
e le
associazioni
per
la
tutela
dei
diritti
umani
temono
che
il
disegno
di
legge
Öztürk
potrebbe
essere
presto
approvato
e
che,
con
la
scusa
dell’emergenza
per
il
coronavirus,
il
governo
stia
effettuando
più
stretti
controlli
sui
social
media,
come
anche
il
il
direttore
della
sezione
turca
di
Human
Rights
Watch,
HRW,
Emma
Sinclair-Webb,
teme.
Nel
mese
di
marzo
433
cittadini
turchi
sono
stati
arrestati
con
l’accusa
di
aver
diffuso
notizie
false
o
manipolatorie
sulla
pandemia
attraverso
i
loro
profili
social.
In
passato
ci
sono
stati
tentativi
da
parte
del
governo
turco
di
bloccare
società
che
gestiscono
social
media,
perché
si
sono
rifiutate
di
cancellare
alcuni
contenuti.
Nel
2014
Twitter
è
stato
bloccato
in
Turchia
varie
volte
proprio
per
questo
motivo,
fino
a
che
non
è
stato
raggiunto
un
accordo
tra
i
legali
della
società
e il
governo
turco.
Nel
2018
Twitter
ha
dichiarato
che
le
richieste
del
governo
di
Erdoğan
di
rimuovere
contenuti
pubblicati
nei
tweet
ha
rappresentato
oltre
il
52%
di
tutte
le
richieste
di
rimozione
di
contenuti
provenienti
pervenuti
alla
società.
Twitter
ha
reso
noto
di
aver
risposto
solo
al
4%
delle
richieste
del
governo
turco.
Un’altra
piattaforma
messa
al
bando
in
Turchia
è
stata
Wikipedia,
che
per
oltre
due
anni
e
mezzo
è
stata
oscurata
a
causa
dei
suoi
contenuti.
Il
15
gennaio
2020,
con
una
decisione
a
sorpresa,
la
Corte
costituzionale
ha
permesso
alla
piattaforma
di
informazione
condivisa
di
essere
consultata
da
parte
degli
utenti
turchi.
Il
preambolo
della
Dichiarazione
Internazionale
sull’Informazione
e la
Democrazia,
per
la
libertà
e la
tutela
di
giornalisti
nel
mondo,
approvata
a
Parigi
nel
2018,
settant’anni
dopo
la
Dichiarazione
Universale
dei
diritti
umani,
stabilisce
che:
"La
conoscenza
è
necessaria
agli
esseri
umani
per
sviluppare
le
loro
capacità
biologiche,
psicologiche,
sociali,
politiche
ed
economiche".
Tramite
la
campagna
social
"Haberin
Varmi?"
(Have
You
Heard?),
i
giornalisti
turchi
stanno
gridando
ai
media
mainstream
dei
Paesi
occidentali
di
sostenerli
nella
lotta
all’affermazione
di
tale
diritto
alla
conoscenza
e
alla
verità,
attraverso
la
diffusione
della
loro
versione
dei
fatti
sui
processi
e
sulle
false
accuse
di
favoreggiamento
del
terrorismo,
ma
sui
quotidiani
e
sui
notiziari
nazionali
europei
poche
volte
si è
dedicato
spazio
a
questo
silenzioso
e
lento
stillicidio
dell’informazione
indipendente
in
Turchia.