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N. 35 - Novembre 2010 (LXVI)

a proposito di srebrenica

luglio 1995
di Alessandro Ortis

 

“Noi tutti oggi ci sentiamo come vittime, la mia anima sarà in pace solo quando li vedrò in prigione”. Queste sono le parole rilasciate in una intervista, nel 2005, da una donna di Srebrenica parlando di tre uomini, il cui nome da quelle parti fa ancora paura: Radovan Karazdic, Ratko Mladic e Slobodan Milosevic.

 

 A quindici anni dalle uccisioni di 8000 bosniaci musulmani, dagli eventi che, il giudice Riad del Tribunale Internazionale dell’Aia nel settembre 1995, ha definito come «scene tratte dall’inferno che hanno scritto le peggiori pagine della storia dell’uomo», la piccola enclave di Srebrenica, incastrata tra le montagne della Bosnia orientale, attualmente territorio della Republika Srpska, porta ancora oggi le ferite di quei tragici giorni.

 

Prima della guerra degli anni Novanta, Srebrenica era una cittadina di 37,000 persone, di cui il 73% erano Bosniaco-musulmani e il 25 % Serbi (secondo l’ultimo censimento del 1991). Qui, venivano a curarsi molti iugoslavi, per via delle sue fonti termali e il regime titino aveva qui deciso di investire molto, data la presenza di miniere d’argento, oro, bauxite e altri importanti minerali. Fabbriche erano sorte in tutta la piccola valle e davano lavoro a tutti. La via iugoslava al socialismo, qui, si era realizzata.

 

Allo scoppio della guerra civile, nel 1991, chi viveva in Bosnia vedeva la secessione in atto della piccola Slovenia come un fatto lontano, distante dalla loro realtà: tutti erano convinti che a casa loro non sarebbe successo niente di simile. Lo stesso quando, poi, la guerra si spostò in Croazia. Troppo strategica, infatti, la Bosnia,dove il regime di Belgrado impiantò le più importanti fabbriche belliche del paese, nel timore di un attacco dell’Unione Sovietica,dalla quale, nel 1948, Tito si allontanò definitivamente. Da noi non accadrà, la Bosnia sarà salva. Dissero.

 

Quando anche il governo di Sarajevo, guidato da Alija Izetbegovic, chiese l’indipendenza dalla Iugoslavia nel 1991, la situazione precipitò repentinamente, e in breve tempo, la capitale si sarebbe trovata isolata per un assedio che durerà più di 1400 giorni.

 

Srebrenica si trovava sul confine con la Serbia e rientrava nei piani di inclusione della “Grande Serbia”, il progetto politico ideato dal vozd Milosevic che voleva portare alla nascita di una Iugoslavia allargata ai soli serbi. Nel 1993, la parte destra della Drina si trovava ormai completamente sotto il controllo delle truppe serbo-bosniache del comandante Ratko Mladic,eccetto tre centri:Zepa,Gorazd e Srebrenica.

 

Questa loro condizione portò Srebrenica a diventare un vero e proprio immenso campo profughi, tanto che il numero di persone che vi arrivava era di 50-60 000, quasi il triplo di due anni prima. Vivevano in modo atroce, dormendo per le strade in bivacchi improvvisati e accendendo dei falò con vecchi copertoni e tutto quello che potevo trovare. Le derrate alimentari iniziarono presto a scarseggiare, poichè i Serbi impedivano l’arrivo dei convogli umanitari delle Nazioni Unite, l’acqua arrivava a singhiozzo e la gente doveva accontentarsi di nutrirsi di mais, zucchero e ghiande.

 

Davanti a questo inferno, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 16 aprile 1993, dichiarò Srebrenica e il suo circondario “ area protetta “, «libera da ogni attacco armato e ogni atto ostile, da entrambe le parti in causa». Di conseguenza, venne data maggior legittimazione al contingente dei caschi blu già presente in città, composto al tempo da soldati canadesi; poi, alle truppe musulmane venne intimato di consegnare le loro armi alla forza d’interposizione delle Nazioni Unite,UNPROFOR(United Nations Protection Force). Lo stesso, però, non avvenne da parte dei serbi, che continuarono a mantenere saldi i propri armamenti.

 

Ben presto anche a New York ci rese conto che la soluzione della aree protette non sarebbe potuta durare a lungo, soprattutto con un esiguo contingente di soldati e con regole d’ingaggio tutt’altro che chiare. Un memorandum della rappresentanza francese alle Nazioni Unite, del 19 maggio 1993, descrisse espressamente le soluzioni tattiche da adottare per stabilizzare la situazione; vennero delineate tre strategie diverse: a) Leggera senza unità pesantemente armate; b) Leggera con unità sufficientemente armate; c) Pesante.

 

Il documento francese, che attuava a pieno la politica di Parigi nel conflitto iugoslavo, indicò anche la quantità di soldati che sarebbero stati necessari per ognuna della tre opzioni: a) Una presenza simbolica in ogni area protetta; b) Una brigata (5000 soldati) in Sarajevo, più un battaglione (900 soldati) in Bihac e Tuzla, un battaglione diviso tra Srebrenica e Zepa e un altro tra Gorazde e Foca; c) Una divisione in Sarajevo, una brigata in ogni area protetta.

 

Il memorandum concluse sostenendo che «data l’effettiva partecipazione sul terreno delle Nazioni Unite e della Russia, assieme alle altre nazioni già coinvolte si vuole dare credibilità al concetto di area protetta attraverso la scelta della prima opzione».

 

Nei mesi e anni a seguire, la presenza delle truppe UNPROFOR, prima composto da canadesi e poi da soldati olandesi i quali costituiranno il comando Dutchbat, si rivelò estremamente inutile: i Serbi non avevano mai abbandonato le proprie postazioni e ceduto le armi ai caschi blu e la tensione all’interno dell’area saliva sempre più. Infatti, situazioni di crisi iniziarono a crearsi tra i musulmani e i serbi, che scatenarono più volte azioni militari su diverse aree del territorio conteso e non ben precisamente definito dalle carte dell’UNPROFOR. Alcuni musulmani non avevano ceduto le proprie armi, come da risoluzione 816, e compivano atti illeciti contro villaggi serbi al di fuori dell’enclave, provocando l’irritazione del governo di Pale, capitale della Repubblica Serba della Krajna.

 

Il 1° giugno 1995, un manipolo di serbi entrò a Srebrenica e uccise un cospicuo numero di musulmani, per rappresaglia contro gli attacchi di questi fuori città. Nello stesso giorno, il comando delle truppe serbo-bosniache chiese all’UNPROFOR di rimuovere la propria postazione di controllo, chiamata «echo», su una strada secondaria di Srebrenica. Il comando Dutchabat rifiutò l’ordine e il 3 giugno,con circa 2000 uomini, i serbi attaccarono con mortai, armi anti-carro e bombe a mano. La postazione cadde in mano nemica, nonostante il comandante olandese Ton Karremans avesse chiesto al comando generale UNPROFOR di Zagabria, l’intervento aereo della NATO. Per tentare di riscattarsi agli occhi della popolazione dell’enclave, il comando Dutchbat allentò il controllo sulle armi e ciò permise ai musulmani di esibirle per le strade, sotto gli occhi di tutti. Anche dei Serbi.

 

In un rapporto inviato già il 25 marzo, il comandante Karremans dichiarava ai suoi superiori “di non esser in grado di intraprendere qualsiasi azione o reagire alla situazione che stava precipitando”. I caschi blu erano privi di carburante e pezzi di ricambio per i loro veicoli, e la popolazione, impaurita, aveva abbandonato le campagne e si era rifugiata in città, sperando nella presenza del contingente olandese, andando a peggiorare le già più che precarie condizioni di vita del’enclave. Qualche mese prima Mladic, in un suo incontro con il nuovo comandante dell’UNPROFOR, aveva dichiarato che “se ci fossero stati attacchi nelle zone fuori dall’enclave, non avrebbe potuto garantire la sicurezza nella zona protetta”.

 

La Presidenza di guerra, organo civile della municipalità di Srebrenica, aveva preso atto della passività dell’UNPROFOR, e decidendo su come reagire agli attacchi serbi, optò per azioni dure col fine di sospendere le aggressioni dei nemici.

 

Il 26 giugno un gruppo di soldati dell’esercito bosniaco attaccò il villaggio serbo di Visnjica, a cinque chilometri dall’area protetta, suscitando le ire del comando militare serbo. Mladic accusò l’UNPROFOR di “essersi allineato con le posizioni dei musulmani”e sostenne che era stato violato lo status speciale dell’enclave, e avvertì che non avrebbe tollerato altri atti simili.

 

Le truppe serbe attaccarono l’enclave alle prime luci del mattino del 6 luglio e nei giorni successivi conquistarono quasi tutte le postazioni del comando Dutchbat e costrinsero i caschi blu a ritirarsi prima a Srebrenica, poi nel proprio comando a Potocari, a quattro chilometri. La popolazione, in preda al panico, iniziò ad asserragliare le postazioni olandesi della città in cerca di protezione e difesa. Questa non arriverà mai, nemmeno dagli aerei NATO che il comando generale UNPROFOR negava per la difesa dei suoi uomini.

 

I vertici delle Nazioni Unite,in particolare Jasushi Akashi (Deelegato Speciale per la Bosnia dell’ONU) e il generale Janvier (Generale truppe UNPROFOR), negarono l’appoggio aereo con il pretesto che bombardamenti aerei avrebbero potuto turbare i colloqui di pace in corso tra le Nazioni Unite e Milosevic a Belgrado.

 

Il presidente Izetbegovic ordinò ai suoi comandanti a Srebrenica di utilizzare le armi pesanti, fatte arrivare clandestinamente, contro i serbi, poiché l’UNPROFOR decideva di non rispondere alle offese. Lo stesso Izetbegovic, in un incontro tenuto a Ginevra in quei giorni, dichiarò che “i serbi avevano in mano tutte le carte” , e che se non ci fosse stato un concreto intervento sulla città, ci sarebbe stato il pericolo di un genocidio.

 

Il governo olandese, per bocca del suo ministro della Difesa Joris Voorhoeve, avvertì le Nazioni Unite che era ora di intervenire per la sicurezza dei propri uomini a Srebrenica.

 

L’11 luglio, solo nel primo pomeriggio, aerei NATO sorvolarono le difese serbe e lanciarono due bombe che distrussero un carro armato serbo, fuori città: il raid durò solo un’ora. Sotto, invece, le truppe olandesi si affrettavano a lasciare Srebrenica per spostarsi a Potocari: un seguito di 20-25 000 persone seguì il convoglio ONU, aggrappandosi sui mezzi blindati. Solo a 4-5000 di loro fu permesso entrare nel quartier generale(una fabbrica di accumulatori): per gli altri, c’era posto nei bivacchi fuori dal campo. Alcuni di coloro che si erano aggrappati ai mezzi blindati, finirono schiacciati dalla ruote dei veicoli, perché i caschi blu erano troppo in preda al panico per potersene accorgere.

 

A Srebrenica, la maggioranza delle persone non reagì alle intimidazioni serbe, rispettando così l’ordine giunto da Sarajevo da Izetbegovic di rispondere con la non violenza agli attacchi, e anzi si mise in marcia verso Tuzla,a circa cinquanta chilometri. Il percorso da intraprendere era nel mezzo delle linee serbe, saliva per montagne scoscese e valli impervie. Di 15000 che partirono, ne arriveranno dopo cinque giorni di cammino solo 4500-6000. Coloro che morirono rimasero vittime degli agguati serbi nei boschi e furono trucidati con brutalità. Alcuni sopravvissuti parlarono di decapitazioni, stupri e mutilazioni, di figli massacrati davanti agli occhi delle proprie madri, di uomini bruciati vivi,di neonati uccisi vivi.

 

Il 12 luglio, il comandante Karremans scrisse nuovamente al comando UNPROFOR di Zagabria, Sarajevo e Tuzla «di non esser in grado di difendere la gente dell’enclave, più di 15000 in un chilometro quadrato ed il proprio battaglione».

 

In quello stesso giorno le truppe di Mladic entrarono a Potocari e circondarono il complesso del comando Duucthbat, violando così, di fatto, lo status dell’enclave, dopo aver ottenuto l’assenso del comandante olandese per evacuare la popolazione e portarla, con pullman e autobus, verso le zone controllate dall’esercito bosniaco, a nord. I serbi fecero arrivare circa 40-50 mezzi e lo stesso Mladic si presentò di persona, assieme ad un folto numero di giornalisti, fotografi e telecamere televisive.

 

Queste registreranno le parole rassicuranti del comandante verso la popolazione terrorizzata: ” Non abbiate paura, lasciate andare prima bambini e donne e sarete trasportati a Kladanj e da lì passerete poi nei territori di Alija. Nessuno vi farà del male ”.

Il 13 luglio, tutti i convogli abbandonarono Potocari e durante la notte i serbi avevano continuato a dividere gli uomini dalle donne e alcuni di loro, posti in un edificio di fronte al comando Dutchbat chiamato «casa bianca», vennero fucilati sul posto.

 

 I gruppi che, invece, riuscirono a scappare tra i boschi si arresero ai serbi e vennero trasportati a Bratunac. Tuttavia, non tutti arrivarono a destinazione: molti vennero uccisi sul colpo nei pressi di una fattoria vicino Kravica. Gli osservatori militari delle Nazioni Unite e alcuni componenti del Ducthbat riferirono che, in città, mancavano all’appello circa 4000-5000 uomini e che questi sarebbero stati trasportati in vari luoghi, come una vecchia scuola e nel campo di calcio.

 

Nei giorni successivi le atrocità continuarono senza sosta e con sempre una maggiore euforia. Alcuni caschi blu videro alcuni serbi festeggiare per le strade, con i fucili imbracciati.

 

I fatti poterono esser noti al mondo solo all’arrivo dei caschi blu, a Zagabria, alla fine di luglio e al loro rientro in Olanda. I racconti fatti al rientro sconvolsero l’intera opinione pubblica: un soldato olandese disse di aver visto un uomo seduto a terra con un gruppo di soldati serbi intorno che lo fecero alzare, lo scaraventarono dietro ad una casa e poi sentì solo urla e un colpo. Un altro riferì di adolescenti presi a sassate e pugnalate e donne, bambini e vecchi ai quali venivano tagliate le orecchie.

 

In quei tragici giorni, nell’enclave di Srebrenica morirono più di 8000 persone, ma c’è chi dice siano molte di più. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel 1999 accusò le stesse Nazioni Unite e il suo ufficio di aver fallito per prevenire l’attacco dei soldati serbi sull’area protetta; riferì pubblicamente dell’assunzione di responsabilità che le Nazioni Unite e tutte le persone coinvolte dovettero prendere e che questo genocidio “debba realmente servire di lezione al Segretariato Generale,agli stati membri dell’organizzazione per aver contribuito al collasso della ex-Jugoslavia”.

 

Oggi le donne sopravvissute all’eccidio hanno costituito una associazione, “Le Donne di Srebrenica”, che si batte per aver riconosciute le morti dei propri defunti davanti alla corte del Tribunale Internazionale per i crimini nelle ex-Jugoslavia e perché non termini il riconoscimento delle salme che, continuamente, riemergono dalle centinaia di fosse comuni intorno a Srebrenica.

 

Nel 2008 l’ex Presidente delle Repubblica Serba di Bosnia, Radovan Karadzic, è stato arrestato e condannato dal Tribunale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità, genocidio e violazione delle leggi sui diritti dell’uomo per i fatti di Srebrenica di quei giorni di metà luglio 1995; il suo braccio destro,Ratko Mladic, invece, è ancora latitante,nonostante sia stato più volta avvistato a Belgrado.

 

In un documento ufficiale del 28 ottobre 2004, il governo della Republika Srpska chiese una parziale scusa e riconobbe che « nelll’area intorno a Srebrenica si verificarono crimini e violazioni delle leggi sui diritti dell’uomo », non accennando mai al genocidio. Altre testimonianze raccontano che in quei tragici anni, morirono, per mano di soldati musulmani, anche circa 2000-3000 popolazione di etnia serba, ma nessuno ha mai potuto confermare questa cifra.

 

In un rapporto della delegazione del Consiglio di Sicurezza, recatasi in visita ufficiale nella enclave per constatarne lo stato, venne riportato che «l’alternativa all’area protetta sarebbe stato un massacro di 25000 persone. […] In Srebrenica c’è un straordinario stato d’emergenza». Inoltre, dichiararono che « i Serbi stavano attuando un lento processo di genocidio su questa popolazione». Per la prima volta, nella storia dopo la Seconda Guerra Mondiale, in dichiarazioni ufficiai veniva usato il termine “genocidio”. Era il 25 aprile 1993, un anno e mezzo prima del massacro.


 

 

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