N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
Cuore,
lavoro
e
speranza
ai
tempi
del
Coronavirus
viaggio
di
sola
andata
da
Milano
a
Palermo
di
Salvo
Sardina
Viaggi
del
cuore,
viaggi
di
lavoro
e
viaggi
della
speranza.
Alcuni
hai
il
tempo
di
programmarli
con
calma,
di
gustare
preparazione
e
attesa,
la
rituale
scelta
di
meta
e
compagni
di
cammino.
Altri
sono
improvvisati
e si
portano
dietro
una
certa
dose
di
inconvenienti
e
avventure.
Mai
avrei
immaginato,
però,
che
quello
per
tornare
a
Palermo,
la
città
che
per
una
vita
è
stata
semplicemente
“casa”,
sarebbe
stato
al
contempo
un
viaggio
del
cuore,
di
lavoro
e
della
speranza.
Ho
31
anni
e da
poco
più
di
uno
mi
sono
trasferito
a
Milano,
la
capitale
economica
d’Italia
oggi
leader
anche
nella
triste
classifica
del
contagio
del
Covid-19.
La
città
che,
incredibilmente,
mi
ha
sempre
accolto
con
il
sole
e in
cui
ho
passato
la
mia
vita
da
giornalista
in
smart
working,
mentre
là
fuori
il
virus
entrava
nella
nostra
quotidianità.
La
stessa
in
cui,
qualche
settimana
prima
della
pandemia,
ho
trasferito
la
residenza,
uno
dei
motivi
per
cui
il
viaggio
del
cuore
per
ritrovare
l’affetto
dei
miei
cari
ha
dovuto
attendere:
lo
sappiamo,
lo
spostamento
“libero”
è
stato
vietato,
gli
aeroporti
chiusi
e le
“frontiere”
regionali
giustamente
sbarrate
– a
maggior
ragione
a
chi
la
residenza
ce
l’ha
altrove
–
per
impedire
la
diffusione
di
un
contagio
che,
da
noi,
avrebbe
avuto
effetti
ancora
più
devastanti.
A
febbraio,
ero
stato
io a
imporre
al
cuore
di
attendere,
perché
un
banalissimo
e
lieve
raffreddore
mi
aveva
spaventato
al
punto
da
decidere
di
non
salire
su
uno
degli
ultimi
low
cost
“regolari”
Malpensa-Punta
Raisi,
prenotato
in
tempi
non
sospetti,
prima
che
tutto
andasse
a
rotoli.
Ma
al
cuore
non
si
comanda
e,
dopo
oltre
due
mesi
di
rigida
quarantena
nella
mia
stanzetta
milanese
a
pochi
passi
da
Chinatown,
ho
colto
al
volo
l’offerta
di
lavoro
e,
di
conseguenza,
la
possibilità
di
spostarmi
per
“comprovate
esigenze
lavorative”,
tesserino
dell’Ordine
e
autocertificazione
alla
mano.
Il
viaggio
del
cuore
è
diventato
un
viaggio
di
lavoro.
E
della
speranza:
cancellato
il
diretto
Ryanair
del
10 e
poi
anche
quello
del
15
maggio,
la
scelta
naturale
è
stata
giocare
d’anticipo
e
buttarsi
sull’ultimo
volo
Alitalia
con
scalo
a
Fiumicino.
“Ultimo”,
appunto,
perché
per
almeno
una
ventina
di
giorni
non
ci
sarebbe
più
stata
alcuna
possibilità
di
prenotare,
né
con
Alitalia
né
con
altre
compagnie
aree.
La
mattina
di
sabato
2
maggio,
sono
in
piedi
già
alle
7.
Guanti,
mascherina,
zaino
in
spalla
e
trolley
decisamente
scarico
per
un
volo
di
sola
andata,
Milano
mi
saluta
con
cielo
azzurro
e
temperatura
mite.
La
passeggiata
verso
Porta
Garibaldi
è
surreale,
incontro
solo
persone
in
fila
per
entrare
al
supermercato
di
via
Sarpi
o a
passeggio
con
il
cane.
Ogni
viaggio
che
si
rispetti
ha
la
sua
colonna
sonora
e la
selezione
casuale
di
Spotify
sceglie
per
me
“T’immagini”
di
un
giovanissimo
Vasco
Rossi.
Così,
mentre
il
Blasco
intona
“T’immagini
la
fregatura
che
han
preso
quelli
che
son
partiti
tutti
di
corsa
tutti
quanti
per
il
Messico”,
io,
che
mi
appresto
a
fare
lo
stesso,
ma
in
direzione
Sicilia,
mi
metto
in
fila
per
entrare
nel
Terminal
2 di
Malpensa.
Alle
mie
spalle,
un
ragazzo
mi
chiede
con
marcato
accento
palermitano
se
si
tratta
della
coda
verso
gli
imbarchi
mentre
la
fila,
disordinata
nonostante
il
distanziamento
sociale,
mi
lascia
addosso
una
piacevole
sensazione
di
normalità.
Vero,
non
c’erano
transenne
né
segnali
sull’asfalto,
ma
di
fatto
neanche
il
virus
ci
ha
fatto
diventare
bravi
in
un
fondamentale
“distacco”
che
non
ci è
mai
appartenuto.
Ci
sono
un
bel
po’
di
palermitani
che
hanno
avuto
la
mia
stessa
idea,
ma
anche
un
nutrito
gruppo
di
moldavi
in
partenza
per
Chişinău.
Verso
l’Europa
dell’est
sta
per
volare
anche
una
donna
sulla
sessantina,
bionda
e
dallo
sguardo
gentile,
accompagnata
in
aeroporto
da
un
suo
coetaneo
milanese
che
la
saluta
timidamente,
con
un
bacio
a
metà
tra
la
guancia
e la
bocca
(almeno,
questo
è
quello
che
intuisco
tra
le
mascherine
di
entrambi)
prima
di
farfugliare
imbarazzato
qualcosa
sul
momento
in
cui
le
sarà
possibile
tornare
in
Italia.
Amori
messi
in
pausa,
storie
diversissime
che
si
intrecciano
tra
loro.
Mi
colpisce
soprattutto
una
ragazza
davanti
a me
che
non
ha
indicato
nell’autocertificazione
il
motivo
dello
spostamento
verso
Palermo
e
che,
per
questo,
viene
rimproverata
dal
giovane
poliziotto
al
controllo.
Lei
sta
per
mettersi
a
piangere,
esausta
per
la
lontananza
dagli
affetti,
terrorizzata
dall’idea
di
essere
rispedita
a
Milano.
Lui,
a
sorpresa,
le
suggerisce
con
delicatezza
e
complicità
di
scrivere
qualcosa
“tipo
ho
perso
il
lavoro,
hanno
chiuso
l’università,
non
ho i
soldi
per
pagare
l’affitto
a
Milano”.
C’è
anche
un
quarantenne
che
autocertifica
di
non
avere
soldi
per
l’affitto
e di
essere
“rimasto
in
mezzo
alla
strada”
dopo
che
la
padrona
di
casa
ha
cambiato
la
serratura
dell’appartamento
dove
viveva.
Confesso
di
non
avergli
creduto
e di
aver
intravisto
la
mia
stessa
perplessità
negli
occhi
del
poliziotto.
Ma,
con
qualche
modifica
al
modulo,
anche
per
lui
c’è
il
semaforo
verde.
Si
torna
a
casa.
Il
brevissimo
volo
per
Roma
è
stracolmo.
Almeno,
lo è
nei
limiti
di
quanto
(credo)
possa
esserlo
al
tempo
del
coronavirus.
Ogni
fila
ha
due
passeggeri,
uno
a
destra
e
uno
a
sinistra.
Con
mio
sommo
dispiacere
scopro
che
non
verranno
serviti
gli
snack.
All’atterraggio
possiamo
alzarci
in
ordine
per
file:
iniziano
le
prime
cinque,
poi,
a
scalare,
tutto
il
resto.
Appena
entrato
nel
terminal
di
Fiumicino
vengo
rapito
da
un
motivetto
elementare
suonato
al
pianoforte:
il
musicista
è un
trentenne
con
barba
e
rasta,
indossa
la
mascherina
ed è
supportato
da
una
ragazza
che
immagino
sia
la
fidanzata.
Come
pianista
è
decisamente
mediocre,
ma
la
sua
musica
è la
prima
che
ascolto
dal
vivo
da
non
so
quanto
tempo.
Ed è
bellissima.
Si
avvicina
l’ora
di
pranzo
e,
se
escludo
un
po’
di
fila
al
bar,
non
c’è
tantissima
gente.
Trovo
una
postazione
solitaria
vicino
a
una
presa
di
corrente,
metto
in
carica
pc e
cellulare
e,
dopo
una
gita
al
bagno
per
lavarmi
le
mani
e
cambiare
i
guanti,
è il
momento
anche
per
il
mio
pasto
a
base
dei
dolciumi
recuperati
in
dispensa
a
Milano.
L’attesa
è
lunga,
il
volo
per
Palermo
partirà
alle
18.00
e
devo
trovare
il
modo
per
ammazzare
il
tempo.
Il
quarantenne
rimasto
senza
casa
è
“piaggiato”
sul
divanetto
di
una
zona
lounge
chiusa
al
pubblico,
ha
persino
un
plaid
sulle
gambe
e
gioca
con
il
cellulare.
Tra
una
telefonata
e
l’altra,
ho
del
lavoro
arretrato
che
posso
recuperare,
ma
vengo
subito
distratto
dai
messaggi
di
amici
e
parenti
che
mi
inoltrano
gli
articoli
che
riportano
le
dichiarazioni
del
presidente
della
Regione
Sicilia,
Nello
Musumeci:
ha
chiesto
e
ottenuto
l’estensione
delle
misure
restrittive
sugli
spostamenti
dal
nord
e ha
intenzione
di
impedire
il
rientro
di
molti
miei
conterranei
almeno
fino
al
31
maggio.
Resto
un
po’
interdetto
perché
è
chiaro
che,
se
sto
tornando
a
casa,
sono
un
privilegiato.
E a
molti
altri
è
chiesto
un
ulteriore
sacrificio.
Persino
in
aeroporto
i
minuti
scorrono
veloci
e,
poco
dopo
aver
notato
lo
sdegno
con
cui
i
passeggeri
in
attesa
(forse
me
compreso)
guardano
due
ragazzi
ingannare
il
tempo
al
calciobalilla,
arriva
il
momento
di
salire
sul
mio
secondo
e
ultimo
volo
di
giornata.
Se
avevo
pensato
che
il
Milano-Roma
fosse
stracolmo
per
gli
standard
dell’epoca
Covid,
era
solo
perché
non
avevo
ancora
messo
piede
sul
Roma-Palermo:
qui,
i
passeggeri
per
fila
sono
quattro,
due
a
destra
e
due
a
sinistra,
con
il
solo
sedile
centrale
lasciato
vuoto
per
permettere
un
minimo
di
distanziamento
sociale.
Io,
che
in
tempi
normali
prendo
una
trentina
di
aerei
all’anno,
da
buon
volpone
(più
per
comodità
personale
che
non
per
paura
del
contagio)
ho
selezionato
la
fila
da
due
posti
sull’uscita
d’emergenza
e,
quindi,
mi
ritrovo
da
solo.
Il
crollo
arriva
inesorabile,
chiudo
gli
occhi
per
riaprirli
solo
a
pochi
minuti
dall’atterraggio.
Finalmente,
sotto
di
me,
scorgo
il
mare,
bellissimo
e
azzurrissimo.
Neppure
il
tempo
di
emozionarmi
che
sono
già
a
terra.
Il
protocollo
di
uscita
dall’aereo
è
stavolta
meno
rigoroso:
non
c’è
una
chiamata
per
file
ma
semplicemente
l’indicazione,
ovviamente
disattesa
in
toto
dai
passeggeri,
di
alzarsi
“a
poco
a
poco”.
Sarà
perché
sono
ancora
un
po’
rintronato
dal
pisolino,
ma
resto
seduto
ed
esco
quasi
per
ultimo.
L’aereo
è
parcheggiato
a un
centinaio
di
metri
dal
terminal,
il
che
significa
che
non
ci
sarà
nessun
bus
ad
attenderci.
Ci
rechiamo
a
piedi
verso
una
sala,
quella
degli
arrivi
intercontinentali,
in
cui
non
ero
mai
stato
prima.
C’è
spazio
persino
per
un
piccolo
giallo:
il
personale
sanitario
della
Croce
Rossa
ci
indica
di
procedere
verso
il
gabbiotto
del
controllo
passaporti,
dove
ci
sarà
la
seconda
consegna
giornaliera
del
modulo
di
autocertificazione,
senza
però
alcuna
verifica
della
temperatura
corporea.
Pochi
minuti
e
sono
già
fuori
dall’aeroporto.
La
casa
della
mia
famiglia
è
proprio
all’ingresso
di
Palermo,
a
circa
15
minuti
di
macchina
da
Punta
Raisi,
ed è
per
questo
motivo
che
ho
sempre
trovato
qualcuno
ad
attendermi
agli
arrivi.
Non
questa
volta.
Dopo
una
lunga
camminata
a
piedi,
un
treno
e
due
aerei,
il
mio
viaggio
della
speranza
prosegue
sul
pullman
di
una
società
privata
che
copre
il
tragitto
tra
la
città
e
l’aeroporto.
Acquisto
il
biglietto
e
attendo
la
partenza,
prevista
per
le
19.30.
Sistemo
i
bagagli
e
torno
fuori
al
fresco.
Purtroppo
non
si
vede
il
mare,
ma
la
salsedine
è
come
sempre
nell’aria.
Abbasso
la
mascherina,
respiro
a
pieni
polmoni
e mi
godo
per
qualche
minuto
gli
ultimi
raggi
di
sole.
Il
sapore
di
casa.
La
pubblicità
del
Mulino
Bianco
che
mi
vede
protagonista
è
però
presto
interrotta
dall’arrivo
di
una
ragazza
neanche
ventenne,
evidentemente
imbranata
e
probabilmente
non
abituata
a
viaggiare
in
solitaria.
Trascina
in
modo
goffo
una
valigia
gigantesca,
ha
l’aria
affannata.
Si
avvicina
e
chiede
a un
signore
brizzolato
in
giacca
e
cravatta
che,
come
me,
attende
la
partenza
del
bus,
il
permesso
di
lasciare
il
bagaglio
in
stiva.
Silenzio
imbarazzato.
Lei,
che
lo
ha
scambiato
per
l’autista,
insiste:
“A
che
ora
partiamo?”.
Lui
la
guarda
un
po’
offeso
e
continua
a
non
rispondere.
Capisco
che
c’è
bisogno
di
un
negoziato
di
pace
e,
con
il
massimo
tatto
possibile,
le
dico
che
si
partirà
alle
19.30
ma
che
dovrebbe
chiedere
info
sul
bagaglio
direttamente
al
vero
autista,
quello
seduto
–
guarda
caso
– al
posto
di
guida.
Avverto
persino
una
punta
di
fierezza
per
aver
disinnescato
con
eleganza
quella
possibile
miccia,
ma
il
mio
piccolo
momento
da
Kofi
Annan
si
sgretola
subito
dopo.
Sgraziata
e
tremendamente
genuina,
mi
risponde
indicando
il
signore
in
giacca
e
cravatta:
“Ah
scusate,
pensavo
che
l’autista
fosse
lui!”.
Scoppio
a
ridere
proprio
mentre
lo
sguardo
del
finto
autista
palesa
tutta
la
sua
rassegnazione.
Alle
otto
scendo
alla
prima
fermata,
a
qualche
centinaio
di
metri
da
casa.
È
mezz’ora
dopo
che
mia
madre
mi
accoglie
con
guanti
e
mascherina,
accompagnandomi
verso
la
mia
stanza-prigione,
dove
resterò
in
religioso
isolamento
per
due
settimane.
Dopo
quasi
14
ore
sono
finalmente
arrivato.
Ma
il
viaggio
della
speranza,
in
attesa
del
tampone,
è
appena
iniziato.