attualità
Spazi di Eccezione
virus e libertà: riflessioni geografiche
(RECENSIONE)
di Arianna Barìa
«Siamo
davvero pronti ad andare oltre i
luoghi, a ripensare la nostra vita
in senso dematerializzato,
allontanandoci da ciò che l’ha
caratterizzata fino a ieri, ovvero il
vivere spazi che, nell’interazione con
l’antropico, diventano luoghi e, più
nello specifico, luoghi vissuti?».
Questo è l’interrogativo posto da
Alessandro Ricci – ricercatore di
geografia politica presso
l’Università di Bergamo nonché
coordinatore del Centro Studi
Geopolitica.info – in Spazi di
eccezione: riflessioni geografiche su
virus e libertà, pamphlet edito
nella collana Esc di Castelvecchi
nel maggio 2021.
L’autore mediante un doppio approccio –
in quanto ricercatore che indaga
criticamente e diacronicamente dati e
fenomeni e quale testimone della crisi
che ha cambiato le nostre vite
nell’ultimo anno – esamina le
implicazioni dell’epidemia che ha una
connotazione geografica, poiché la sua
diffusione differisce in base alle
questioni politiche e sociali proprie di
un territorio.
Pervade e impregna ogni pagina la
riscoperta di un concetto: quello di
libertà, solo apparentemente
distante dalla materia di riferimento –
la geografia – poiché concerne il
rapporto che
l’uomo ha con i luoghi. «Combattere
per la propria libertà» – scrive Ricci –
«significa anzitutto riappropriarsi dei
nostri spazi».
L’esistenza, lo suggerisce la stessa
etimologia (ex + sistere =
“stare fuori”), inizia ponendosi al di
fuori delle certezze casalinghe:
l’imprevedibilità ci aspetta proprio in
quei «luoghi calpestati
freneticamente dalle persone, che lì si
incontrano volontariamente, per caso, si
scontrano e si addensano, in un
miscuglio più o meno indefinito di
corpi, sguardi, gomiti, parole e aliti».
Eppure, si è assistito alla
regressione di quei luoghi,
dominio dell’inatteso – che l’autore
definisce in un’ottica antropica come
snodi essenziali della società umana –
in spazi desolati e normati: i
centri mutevoli delle nostre vite –
smantellati in virtù di surrogati
virtuali – sono diventati scenografie
vuote delle nostre azioni e nostalgiche
dimore dei nostri ricordi, rimpiante da
chi si ritrova ad essere spettatore del
theatrum mundi in cui prima era
attore protagonista.
«È
– o meglio, era – nei luoghi extra
abitativi che la nostra vita si svolgeva
nella sua dimensione pubblica»,
confine
che non esiste più – quello tra
pubblico e privato:
l’ufficio, l’aula scolastica, la
palestra, i ristoranti confluiscono
secondo un vorticoso e caotico intreccio
dimensionale nella casa, spazio privato
per antonomasia.
Conseguenza della dematerializzazione
delle nostre vite è lo sconfinamento
spaziale e temporale e la derivata
confusa sovrapposizione di spazi, tempi
e ruoli di ossimorici incontri virtuali.
«Un virus dalle minuscole dimensioni,
dunque, mette in crisi un intero
assetto mentale generale, politico ed
economico di natura mondiale»:
l’autore inquadra il 2020 come l’anno
del ritorno al confine, del muro, della
barriera in senso politico
internazionale e nella vita di ciascuno
di noi: emerge così con forza quella che
l’autore definisce nemesi della
globalizzazione.
Infatti, a partire dalle grandi scoperte
geografiche inaugurate dal “folle volo”
di Colombo si era configurata
un’apertura agli spazi globali che oggi
vede la sua necrosi nella vendetta
dei confini – unici elementi
di percepita sicurezza, presunti garanti
dell’ordine perduto – che Ricci
tratteggia secondo un climax
discendente attraverso le progressive
chiusure.
Con il blindamento dei confini tra
Stati, regioni, comuni e abitazioni,
l’interruzione parziale dei flussi
globali commerciali e degli spostamenti
liberi delle persone è cambiato
l’assetto mondiale e il futuro delle
relazioni internazionali. Scopriamo che
la chiusura è il culmine paradossale
della globalizzazione, che ha subito un
arresto improvviso svelando in mondo
deglobalizzato e scoordinato, con il
baricentro pendente a Oriente, nuovo
centro nevralgico.
Il lettore evidentemente percepisce di
trovarsi alle porte di un nuovo scenario
globale: gli si pone dinnanzi in un
primo momento la vastità degli orizzonti
della modernità, respira la
libertà di quei primi viaggi di scoperta
e naufraga nell’incertezza,
ripercorrendo quelle dinamiche
geografiche che hanno trasformato la
forma mentis dell’uomo moderno,
permettendogli di svincolarsi dalle
effimere certezze medievali, per poi
venir catapultato nelle mura domestiche,
da solo, in pigiama, a guardare lo
schermo di un pc, immobile.
La crisi, la rottura epocale e
sistemica che stiamo vivendo – in cui è
necessario prendere una decisione –
investe dunque la nostra quotidianità in
ogni sua sfera e rompe l’ordine mondiale
esaltando tensioni regionali e
internazionali: è la κρίσις che scardina
le certezze precedenti a scolorire e
ridisegnare i confini.
A cedere è la politica stessa
intesa come capacità decisionale: lo
Stato ha smarrito la sua funzione
ordinatrice confondendo amleticamente le
sue prerogative con i gruppi tecnici,
lasciando il passo alla tecnocrazia e al
conseguente caos decisionale. Per
questa inefficienza della politica, tra
procrastinazioni e scelte
contraddittorie, che la crisi sanitaria
è divenuta crisi sociale ed economica,
nonché psicologica, formativa e
culturale.
E la tecnocrazia epidemica ha prodotto
gli spazi che Ricci, riprendendo
il concetto schmittiano, denomina
d’eccezione ossia
«quegli
spazi sottratti al ruolo, alla presenza
e alle funzioni dello Stato, […] sono le
stanze nelle case degli studenti e dei
docenti trasformate in aule scolastiche;
sono le case divenute teatro
dell’attività sportiva e i parchi
trasformati in aule universitarie; sono
le strade di fronte alle scuole occupate
dagli studenti che hanno protestato
contro le chiusure, gli spazi verdi
divenuti palestre all’aperto, le piazze
luoghi di protesta di artisti, teatranti
e ristoratori, le strade sottratte al
traffico automobilistico […]. Ma sono
anche le stesse mura di casa divenute il
luogo di lavoro, o addirittura il
ristorante, grazie ai servizi a
domicilio, togliendo alla propria
funzione originaria i luoghi adibiti a
questo».
Sono
questi gli spazi nello stato
d’eccezione, stadio emergenziale
transitorio – e non permanente – per
antonomasia, spazi di disuguaglianza in
cui l’eccezione sta diventando la norma
e il temporaneo permanente: l’epidemia
mostra – scrive Agamben – che lo stato
d’eccezione è diventato,
paradossalmente, la regola. Sono luoghi
svuotati di senso, mondi – ormai
abbandonati – paralleli a una realtà
virtuale, privati dell’imprevedibilità
dell’incontro non normato in cui ogni
persona, riportando alla mente Foucault,
è costantemente reperita, esaminata e
classificata, frutto di una legislazione
per decreti d’urgenza.
«[…]
Rischiamo di divenire il surrogato
paradossale dei grandi esploratori,
sbiaditi “geografi di scrivania” o
“da divano” e
non “di laboratorio”: nutriti di
esperienze mai vissute realmente e
filtrate unicamente da Google Maps e
serie tv, con lo schermo a sostituire le
navi che schiumavano il mare».
Scrive così Ricci, dopo aver tracciato
brevi pennellate sulla nascita della
modernità – che coincide con le scoperte
degli avventurieri, “geografi a vele
spiegate” che attraverso l’esperienza
diretta – globale ed effettiva –
affrontano il rischio per
pervenire al plus ultra,
sostenendo che, come gli hikikomori
giapponesi, abbiamo rifiutato il mondo
esterno illudendoci di poterlo
ugualmente conoscere attraverso uno
schermo autoreferenziale, cadendo preda
delle comode possibilità tecnologiche.
Questo il paragone che più stimola il
senso critico del lettore,
risvegliandolo dal torpore.
Aderendo al principio di supposta
sicurezza, così come il topo di
Kafka che, chiuso nella sua tana rifiuta
il mondo pensando di essere al sicuro da
ogni rischio, stiamo progressivamente
smettendo di vivere la realtà esterna:
per quanto ancora?
Ecco l’interrogativo che l’autore si
pone incessantemente: fino a che punto
si è disposti a vivere in una società
fondata sulla distanza, vuoto enorme
rattoppato con la virtualizzazione di
ogni esperienza reale? Si perderà la
“realtà vera” in qualche meandro oscuro
di un mondo virtuale?
Oppure riusciremo a seguire la bussola
che ci indica cosa è reale e cosa no,
per non perdere la rotta in un mare di
surrogati? La presenza fisica finirà per
diventare inessenziale? E l’esperienza
diretta e tutte quelle piccole,
essenziali, cose verranno brutalmente
sostituite da un surrogato virtuale?
«Abbiamo abiurato alla conoscenza del
mondo, rifiutandolo e disconoscendo il
movimento che aveva rappresentato
il simbolo della vitalità moderna, il
motore primo della globalizzazione e la
metafora della nostra esistenza»
ribadisce Ricci: libertà coincide dunque
con la possibilità di andare o rimanere,
con l’eventualità di errare – sbagliare
e vagare – con l’occasione per uscire
fuori dagli itinerari tracciati per
scoprirne inaspettatamente di nuovi.
Eppure, gli spazi che ci ritroviamo a
vivere sono quelli normati con nastri
segnaletici e frecce adesive, in cui
l’altro è un potenziale pericolo, motivo
per cui la dimensione sociale viene
meno, se non a debita distanza.
«Il nostro prossimo» – scrive
Agamben – «è stato abolito»: il
prossimo è potenzialmente un
nemico, ogni contatto mette angoscia e
il sospettato contagio crea isteria.
Eppure, permangono delle eccezioni,
luoghi e momenti che esulano dalla
norma, dominio dell’imprevedibilità,
di quell’essenziale – scrive Heidegger –
che accade improvvisamente.
Il recupero della libertà – conclude
Ricci – passa necessariamente per il
recupero della funzione politica e
sociale dell’uomo: per questo
riprenderci i nostri spazi
significa riconquistare la nostra
libertà, rivendicazione che ha
scandito – scrive Chabod – la storia
italiana ed europea. |