N. 27 - Agosto 2007
GRANDI E TITOLATI DI FRONTE AL RE
I validos nella Spagna del Secolo
d’Oro
di
Maria Siciliano
Si dice che lo Stato
moderno fu il nemico di aristocrazie e feudalità e,
al contempo, loro avversario e loro protettore.
Primo compito, mai pienamente realizzato, ridurle
all’obbedienza; poi, utilizzarle come strumento di
governo, contare su di esse per tenere in pugno “il
pueple vulgaire”.
Lottare, venire a patti
con essi era necessario perché era particolarmente
difficile gestire una società senza la complicità
della classe dominante. Il sovrano metteva
costantemente i signori al corrente delle sue
intenzioni, dei suoi ordini, delle notizie decisive;
sollecitava il loro parere, e, molto spesso, li
obbligava a prestargli forti somme di denaro.
Ma, i vantaggi a loro
concessi dalla monarchia furono tutt’altro che
irrilevanti.
La nobiltà si
eclissa come le stelle davanti al sole,
recita la fraseologia del tempo; le stelle,
però, non sono affatto trascurabili.
Nella Spagna del
XVII secolo, chiamare in causa lo Stato vuol
dire conoscere in primo luogo i Grandi
interlocutori, i Titulos, cioè quella ristretta
minoranza di privilegiati di cui si serviva, di
tanto in tanto, la monarchia per governare in
via indiretta, evitando così che gravi contrasti
regionali sfuggissero al suo controllo.
Fin dal regno di
Filippo II, la grande nobiltà cominciò a vivere
a corte, dapprima non senza prudenza ma, a poco
a poco, i signori cedettero all’attrattiva della
città spostandosi a ranghi verso Madrid, poi
verso Valladolid, ritornata per un momento
capitale della Spagna, verso la vita di
rappresentanza di corte, verso le feste e le
corse dei tori sulla Plaza Mayor, verso il lusso
e il potere.
Altrettanto
considerevole il ritorno in massa dei grandi
signori al Consiglio, evento, questo, che
sottolinea come l’aristocrazia non aveva affatto
abbandonato le sue incessanti pretese
politiche.
Era l’epoca dei
favoriti, dei validos, della nobiltà che,
non solo si compiaceva del lusso di Madrid, ma
tendeva ad occupare i principali ruoli
governativi con i suoi uomini e le sue
consorterie, disponendosi a controllare il
potere per trarne profitto e consolidare i
propri privilegi.
La nobiltà
cambiava ruolo e, all’affermata e secolare
vocazione militare, succedeva la vocazione
politica; lasciava, dunque, le armi a vantaggio
del potere politico, giovandosi di una
congiuntura ad essa molto favorevole
caratterizzata dal consolidamento del regime
ministeriale e dall’ alienazione del potere del
re a favore di membri dell’alta nobiltà,
fenomeno particolarmente diffuso e ricorrente in
quegli anni.
Così, nella Spagna
del Secolo d’Oro, sotto il segno della monarchia
assoluta si creava ciò che Josè Antonio Marvall
definisce collettivo di potere:
l’assolutismo, dichiara, non è affatto
l’esercizio del potere illimitato di un uomo su
milioni di sudditi ridotti all’uguaglianza della
sottomissione.
Il collettivo di
potere implicava la formazione intorno al
monarca di una elites che si distribuiva nei
centri decisionali (Consigli, Vicereami,
Corregidores).
Questo processo
politico in atto in Spagna, determinò la
critica di intellettuali e teorici della
politica, acuti osservatori dei mutamenti dei
tempi. Primi tra tutti Saavedra e Quevedo,
seriamente allarmati. Il primo nel 1640 affermò:
“ l’autorità è perduta quando l’insieme degli
affari del regno non passa per le mani di una
sola persona” e quasi contemporaneamente il
secondo osservò: “il re che dorme non regna,
e il ministro che lo lascia dormire, ben lungi
dal servirlo, contribuisce alla sua rovina.”
Il declino
politico dei sovrani spagnoli, a partire dalla
morte di Filippo II, proiettò sulla scena, in
piena luce, i loro “sostituti”, i validos
scelti tutti nell’alta nobiltà.
All’epoca di Carlo
V e Filippo II i segretari avevano, certo,
svolto funzioni particolarmente rilevanti, ma
non avevano mai condiviso il potere con il
sovrano, né si erano comportati come se
avessero detenuto personalmente il potere.
Già nei primi
decenni del XVII secolo, dopo la scomparsa di
Filippo II la situazione era del tutto mutata.
Lucida, senza compiacimento e premonitrice sulle
sorti future del regno, fu l’analisi di Filippo
II circa l’indole del figlio Filippo III,
designato come suo successore. Con amarezza
disse: “Dio che mi ha dato tanti regni, mi ha
negato un figlio capace di governarli”.
Infatti, Filippo
III salito al trono nel 1598, sprovvisto di
senso di responsabilità, affidò le cure del
governo e dello Stato al duca di Lerma, come
fece a sua volta, nel 1621, il suo successore
Filippo IV che, mostrando una scarsa vocazione
per la regalità al pari di suo padre, demandò
ogni potere al conte – duca di Olivares.
Lo scenario
politico del Secolo d’oro è caratterizzato da un
avvicendarsi di validos, quali il duca di Uceda,
figlio di Lerma e suo successore, Baltasar de
Zuniga zio di Olivares e suo predecessore per
alcuni mesi, Luis de Haro.
Tuttavia, avendo
avuto questi ruoli secondari, l’accento viene
posto su i due personaggi che si sono imposti
con le loro opere nel panorama storico della
Spagna di quegli anni.
Don Francisco
Gomez de Sandoval y Rojas, quarto conte di Lerma,
elevato al rango di duca nel 1599 e nominato
primo ministro da Filippo III, colpì duramente
le istituzioni spagnole più rappresentative
quali le Cortes, utilizzando a fondo la
corruzione per ottenere il voto di “servizi”
rilevanti in uno stato ormai in via di
decadimento.
Il concetto di
nepotismo non è sufficiente a descrivere il modo
con cui lui e la sua consorteria sfruttarono il
paese per circa venti anni. Lerma sistemò i suoi
parenti o le sue creature in tutte le alte
cariche dello Stato, in tutte le prebende più
fruttuose. Quasi in miseria nel 1599, don
Francisco era estremamente ricco nel 1602, in
una misura tale che poté comodamente costituire
un cospicuo maggiorascato per suo figlio il
conte di Saldana.
Soranzo, l’allora
ambasciatore veneziano presso la corte spagnola,
non a caso, lo definì “padrone della grazia e
della volontà di Sua Maestà”.
Di diversa statura
politica e morale Don Gaspar de Guzman y
Pimentel, conte – duca di Olivares, valido di
Filippo IV dal 1621 al 1643. Nominato anche Gran
Ciambellano e Cancelliere delle Indie, con
queste cariche resse le sorti dello stato fino
alla fine del suo incarico.
Fu anch’egli
animato, certamente, da ambizione eccessiva, ma
non da bieco opportunismo. Lo slancio e il
fervido impegno profuso non riguardò solo la sua
carriera o la sua famiglia ma la Spagna, alla
quale Olivares assegnava un ruolo egemone in
Europa . Non approfittò del suo lungo e devoto
servizio alla corte di Filippo IV per depredare
lo stato e, anche dopo la sua caduta, i suoi
avversari non gli attribuirono mai tale
atteggiamento. Se favorì la sua famiglia, non
praticò il nepotismo ad oltranza di Lerma.
A differenza dei
suoi predecessori, fu un lavoratore
instancabile. Studiava documenti, presiedeva i
Consigli, concedeva molte udienze e informava
costantemente il re sull’andamento degli affari
con un quotidiano resoconto al termine della
giornata.
Per dedicarsi
totalmente al governo dei regni di Spagna
rinunciò a qualsiasi svago o divertimento, ad
eccezione della caccia, attività da lui molto
amata e che, peraltro, gli permetteva di essere
vicino al re.
Possedeva una
concezione moderna dello stato e la sua
pressante preoccupazione fu quella di fare della
Spagna un regno veramente unito sia nel campo
fiscale che in quello della difesa nazionale.
Molteplici i suoi tentativi di coordinare,
attraverso la Castiglia, tutti gli affari
dell’Impero ma egli non riuscì mai a superare il
particolarismo che, invece, ben si adattava alle
istituzioni spagnole e da sempre le aveva
caratterizzato.
L’alternativa che
egli propose, basata sulla volontà di realizzare
la fusione tra interessi del re e quelli del
popolo, non ebbe la forza necessaria per
salvare gli Asburgo di Spagna dalla completa
rovina.
In quegli anni, il
secolo d’Oro languiva e la salvezza della Spagna
non risiedeva più nella sua grandezza. |