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CONTEMPORANEA


N. 5 - Maggio 2008 (XXXVI)

STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEa

LA LENTA AGONIA - Parte VIII

di Cristiano Zepponi

 

Sopravvissuto al secondo conflitto mondiale e all’isolamento internazionale, il regime franchista dovette affrontare, a partire dai primi anni ’60, la rinascita di un’opposizione nazionale.

 

“La dittatura era stata legittimata dalla vittoria in una guerra civile ed era stata amministrata per decenni da una coalizione di militari, falangisti e cattolici: Forze Armate, Movimento e Chiesa avevano fornito il personale politico. Prendere le distanze da quelle origini per rifondare alla fine degli anni sessanta una legittimità basata sull’efficienza, sulle opere pubbliche e sull’amministrazione, vale a dire su uno Stato governato da un’alta burocrazia sostenuta dal potere personale di Franco, rappresentava una contraddizione.

 

La dittatura, per sopravvivere, aveva bisogno del concorso di tutti i suoi fondatori; senza la Chiesa e contro il Movimento, nonostante l’occhio vigile dell’esercito, il governo monocolore si trovò a dover affrontare problemi insolubili”, scrissero Giuliana Di Febo e Santos Julià.

 

Cronologicamente, è doveroso riconoscere agli operai la primogenitura della protesta – in forma di sciopero – che in quel periodo tende a moltiplicarsi e radicalizzarsi (bisogna anche tener conto che questa pratica, per quanto sporadica, non era mai stata del tutto abbandonata nonostante l’apparato repressivo mobilitato dal regime).

Il numero degli scioperanti nel periodo 1962-1964 (1.850.000 circa) era paragonabile a quello del triennio 1932-1934, in pieno periodo repubblicano, e soprattutto il 40% di questi metteva in atto – nel 1970 - forme di protesta politica (organizzata da un nuovo sindacalismo clandestino egemonizzato dalle Commissioni operaie, nate in Biscaglia ad opera di nuclei di comunisti, falangisti radicali e militanti dell’Azione cattolica operaia e diffusesi a partire dalla metà degli anni ‘60).

Il potere, di colpo, si trovò costretto a negoziare con gli scioperanti e con le organizzazioni sindacali clandestine, pur senza riconoscere il diritto di sciopero ed associazione.

 

Naturalmente, l’esperienza di clandestinità maturata negli anni garantì al Partito comunista (Pce) una posizione egemonica nelle nuove organizzazioni – specie dopo l’accettazione dell’“eurocomunismo” e della democrazia; tuttavia, resistevano le vecchie forze d’opposizione iberica: il Partito socialista (Psoe), la Confederazione nazionale del Lavoro (Cnt) e la Federazione anarchica iberica (Fai), oltre ai neo-costituiti sindacati clandestini socialista (Ugt) e cristiano (Uso).

In questo periodo, però, si aggiunse un nuovo movimento cattolico progressista chiamato Flp (Frente de liberaciòn popular), espressione della nuova linea politica cui aspira la generazione del 1960 capace di anticipare gli atteggiamenti preconciliari e filomarxisti del cristianesimo più avanzato.

 

Il movimento studentesco, da parte sua, moltiplicò le proprie espressioni, volteggiando fino al 1968 in un vortice di fusioni, scissioni e creazioni capace di preparare il terreno ad un’assunzione democratica di responsabilità.

 

La Chiesa, che si era lanciata così allegramente nell’esaltazione della Crociata franchista, rivelò un’eguale capacità di svincolarsi dal regime, e di attaccarlo duramente: dopo i primi contrasti con i sindacati ufficiali scatenati dall’opera delle associazioni operaie cattoliche (l’Hoac in prima fila), e mentre l’Azione cattolica proseguiva nell’opera di preparazione dei quadri del futuro sindacalismo, alcune riviste (“Ecclesia”, “Iglesia Viva”, “Cristianos por el Socialismo”, “Praxis”, “El Ciervo”, “Signo”) rivelarono il peso sempre maggiore assunto dagli elementi più progressisti.

 

L’episcopato, che in una prima fase tentò di bloccare la diffusione di un contagio rivoluzionario “alla base” dell’Azione cattolica, dovette alfine opporsi al regime sul tema dell’attività dei militanti operai cattolici e dei preti (per gran parte baschi) imprigionati per aver svolto attività politica.

 

I manifesti critici, le aperte polemiche e le brusche chiusure alla dittatura rivelarono però un cambiamento, maturato lentamente, nel rapporto Chiesa/Stato esploso clamorosamente in occasione dell’assemblea dei preti e dei vescovi del settembre 1971, quando la maggioranza dei membri espresse rammarico per le passate posizioni autoritarie e anti-democratiche della Chiesa.

“Riconosciamo umilmente e chiediamo perdono perché non abbiamo saputo a suo tempo essere veri ministri di riconciliazione in seno al nostro popolo, diviso da una guerra fratricida”, confessarono allora con umiltà.

 

Al tempo stesso, i pontificati di Giovanni XXIII e (ancor di più) di Paolo VI condussero ad un irrigidimento delle relazioni, fino alla nomina – contro il volere di Franco – di nuovi vescovi sostenitori del pluralismo politico, in numero tale da costituire la maggioranza all’interno della Conferenza episcopale.

 

L’apice della crisi fu raggiunto negli anni ’70: nel dicembre di quell’anno l’appello papale alla clemenza in occasione della condanna a morte di sei attivisti baschi (tra cui due sacerdoti) accusati dell’omicidio di un commissario di polizia (primo processo di Burgos), costituì una delle tappe della rottura seguita due anni dopo, dal fallimento dei negoziati tra Paolo VI ed il nuovo ministro degli esteri Lòpez Bravo per l’aggiornamento del Concordato.

L’elezione di Tarancòn a presidente della CEE (Conferencia Episcopal Espaňola), per ultimo, determinò una svolta decisiva in seno all’autorevole organismo.

 

Mentre il governo si confermava incapace di qualsiasi serio “aperturismo” politico, e riacquistava vigore lo strumento repressivo, si dovette registrare anche la rinascita dei nazionalismi catalano e basco. Quello catalano, derivante dalla secolarizzazione degli ambienti borghesi di Barcellona e poi diffusosi in tutti gli ambienti politici e culturali, faceva del monastero benedettino di Montserrat il proprio simbolo; la rinascita di uno scontro con il regime fu testimoniata dall’allontanamento del priore, Dom Escarrè, che al giornale “Le Monde” aveva dichiarato che “il regime (ostacolava) lo sviluppo della cultura catalana”.

In seguito, il conflitto si allargò all’uso della lingua della regione – prescritto dal Concilio vaticano II - nella liturgia ed alla nomina di nuovi vescovi “castigliani”, mal digeriti dagli autonomisti: ma, tutto sommato, va iscritto entro confini pacifici e non-violenti, anche a causa della relativa tolleranza mostrata dal clero locale.

 

Ben diversa era la situazione nei Paesi baschi, dove cooperavano giovani nazionalisti e membri del clero – influenzati dalla tradizione carlista del “curato guerrigliero” - impegnati nell’opera di preservare l’identità culturale della regione: in quest’ambito nacque nel 1953 il gruppo contestatario Ekin ed alla fine del decennio l’Eta (Euzkadi Ta Azkatasuna, “il Paese basco e la sua libertà”), un movimento di liberazione nazionale determinato a ricorrere alla lotta armata (avviata effettivamente nel luglio del 1960, con il tentativo di sabotaggio di una ferrovia) e sostenuto dall’apparato ecclesiastico locale, come dimostrato dall’arresto, avvenuto il 2 marzo 1974, del vescovo di Bilbao monsignor Aňoveros che reclamava nell’omelia “un’organizzazione sociopolitica” capace di assicurare “la giusta libertà” del popolo basco.

 

La maggior parte della popolazione, che in precedenza sembrava disposta a barattare la propria libertà politica con l’innalzamento del tenore di vita promesso, virò allora verso un atteggiamento di rifiuto del governo dei tecnocrati; ma Franco continuò a mostrarsi ancora favorevole alla prosecuzione dell’esperienza di governo, nominando Luis Carrero Blanco alla carica di presidente del governo in sua vece.

 

Tuttavia, l’evoluzione della situazione nel Paese – insieme alla forte recessione economica causata dalla “crisi del petrolio” e dall’aumento dei prezzi dei beni di consumo - impose presto l’estromissione dei tecnocrati dal nuovo governo Navarro, eccezion fatta per Lòpez Rodò promosso a Ministro degli Esteri; ma una brusca svolta si registrò il 20 dicembre di quello stesso 1973, quando l’Eta assassinò l’ammiraglio Carrero Blanco, eminenza grigia e probabile erede del dittatore.

La tensione aumentò visibilmente nel Paese, in particolare dopo l’arresto di prestigiosi membri delle Commissioni operaie (Nicolàs Sartorius, Marcelino camacho – il leader storico – ed il prete operaio Francisco Garcìa Salve) e la clamorosa protesta di trecento intellettuali, rappresentanti del mondo della cultura e dello spettacolo, che si rinchiusero nel monastero di Montserrat.

 

A partire dal 24 aprile dell’anno seguente, tuttavia, la rivoluzione in Portogallo - l’unico paese in cui il franchismo si rispecchiava totalmente rese evidente che il tempo lavorava contro il regime, sotto tutti i punti di vista; negli stessi giorni, infatti, lo stato di salute di franco peggiorò sensibilmente, al punto che il 19 luglio dovette cedere l’interim delle sue funzioni al principe Juan Carlos.

 

Mentre progressisti (sostenitori dell’aperturismo) e reazionari (favorevoli al continuismo) ingaggiavano un aspro scontro in vista della successione, il regime – momentaneamente rinforzato dalla ripresa dei poteri del vecchio dittatore avvenuta il 2 settembre – optò per un irrigidimento politico finale, un “ritorno alle origini” inatteso e brutale, caratterizzato dall’allontanamento del capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Alegrìa, e del Ministro dell’Informazione Pìo Cabanellas – reo di aver promesso, a Barcellona, tolleranza e libertà di stampa con in testa la barreta, il tradizionale copricapo catalano -, dalla promulgazione dello stato d’emergenza nel paese basco, dal sequestro di vari giornali e dall’esecuzione di tre attivisti dell’Eta decretata nel corso del “secondo processo di Burgos”.

 

La Spagna dovette aspettare l’evolversi della malattia del “Generalissimo”, che dal 17 ottobre si dimostrò inarrestabile, e lo costrinse di nuovo a rinunciare alla suprema magistratura dello Stato. Ma alfine Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde Salgado Pardo de Andrade, il “Caudillo” morì a Madrid il 20 novembre del 1975.

In eredità, non rimase altro che “un re patrocinato da un dittatore defunto”, come scritto da Hermet.

 

Per sfortuna degli spagnoli, fino all’ultimo aveva influenzato la direzione politica del Paese.

Ma soprattutto, per sfortuna degli spagnoli, era vissuto troppo a lungo.

 

 

 

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