N. 4 - Aprile 2008
(XXXV)
STORIA
DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA
LA DITTATURA CAMUFFATA
- Parte ViI
di Cristiano Zepponi
La nomina di Laureano Lòpez Rodò al posto di segretario
generale tecnico della presidenza del governo, il 14
dicembre del 1956, accanto al suo sostenitore –
l’ammiraglio Carrero Blanco -, rappresentò il
segno evidente di un’inversione di rotta nel quadro
politico franchista.
I primi segni di nervosismo degli americani, indispettiti
dall’incapacità dei dirigenti spagnoli di mettere ordine
nella politica economica confermata dall’inarrestabile
corsa inflazionistica.
Una nuova elìte di governo, un nuovo gruppo di dirigenti si
impose così a partire dal 1957, accomunato soprattutto
dalla comune appartenenza all’Opus Dei, uno dei
principali luoghi di socializzazione del Paese –
nonostante tutti loro rivendicassero assoluta autonomia
nelle questioni temporali. Dopo Rodò, questa tendenza fu
rafforzata dalle nomine di Ullastres e Rubio
(ai quali, rispettivamente, spettarono i ministeri del
Commercio e delle Finanze), vero preludio alla
definitiva affermazione di uomini che, fondando la loro
legittimità su saperi tecnico-giuridici e sulla capacità
di operare efficacemente in campo economico, furono
chiamati “tecnocrati”.
La crisi dell’economia iberica, infatti, era sotto gli
occhi di tutti. Il fallimento della politica autarchica
e dirigista varata a partire dal 1939, lo squilibrio e
le strozzature dovute all’esaurimento delle riserve, al
deficit della bilancia dei pagamenti, ma anche il
malessere sociale diffuso (espresso con chiarezza dagli
scioperi di Madrid, delle Asturie e di Barcellona,
dalla protesta studentesca, dalla rinascita di circoli
intellettuali contestatari, dal malcontento latente – e
percepibile - della popolazione) impose una chiara
cesura con le elìte del passato – non a caso duramente
attaccate da Franco – in nome di una radicale
trasformazione della politica economica in senso
liberale, incentrata sulle grandi banche nazionali e le
multinazionali straniere, e sul distacco dalla struttura
agrari passatista che sin’allora si era voluto
difendere.
Naturalmente, il liberalismo riguardava il solo settore
economico, né Franco era disposto a sacrificare
l’essenziale: si voleva insomma compensare, e non più
mascherare, la carenza di libertà con un rapido aumento
del tenore di vita della popolazione. Nonostante questo,
i tecnocrati dovettero vincere le resistenze ostinate
degli economisti ufficiali del partito unico (guidati da
Higinio Parìs Eguidati), e dei “progressisti” della
Falange, sostenitori di profonde riforme strutturali ed
influenzati dagli autori neomarxisti americani.
L’ultima parola spettò a Franco; e Franco puntò su di loro:
“Era perfettamente consapevole, nel 1957, di scegliere
uomini vicini all’Opus Dei per dirigere l’economia
spagnola”, scrisse lo storico economico Charles W:
Anderson, il quale riteneva – comprensibilmente – che il
dittatore avesse affidato al gruppo emergente ministeri
tecnici per non affidare loro portafogli politicamente
più delicati, e che cercasse di “migliorare la capacità
del regime attraverso la formazione, il coordinamento e
l’avvio di una determinata politica economica, senza
fare un preciso riferimento un approccio neoliberale”.
In breve, l’attività dei tecnocrati mise in moto un’ampia
riforma amministrativa, inaugurata dalla “Legge del
regime giuridico dell’Amministrazione dello Stato” (26
luglio 1957) e proseguita seguendo criteri di
semplicizzazione, efficienza e razionalizzazione.
L’aumento del numero dei funzionari e di criteri obiettivi
nelle prove d’accesso ridusse gli spazi tradizionalmente
dominati da falangisti, militari e cattolici, la
crescita delle spese destinate alle opere pubbliche
ridussero proporzionalmente quelle destinate alle forze
armate, l’espansione della scuola pubblica determinò la
perdita del controllo della Chiesa sull’istruzione, la
cultura e la morale pubblica.
Contemporaneamente, entrò in vigore il 21 luglio 1959 un
“Piano di stabilizzazione” (fondato su una rigorosa
politica di bilancio ed in una riforma fiscale per
aumentare le entrate ampliando la base imponibile
attraverso l’azione sulle tasse indirette, definibile
come “una serie di interventi sulla struttura economica,
che prevedevano la liberalizzazione del commercio estero
e altre misure interne atte a rendere più flessibili le
basi dell’economia spagnola”, come scrisse Sardà)
ferocemente attaccato dal ministro del Movimento (Josè
Solìs) e del presidente dell’Istituto nazionale
dell’industria (Ini) Juan Antonio Suanzes, che
riuscirono a dissuadere Franco – come sempre ambiguo e
prudente nella scelta tra due antagonisti – dal
ratificare le proposte dei tecnocrati, per ben tre anni;
nel frattempo, il ministro dell’Informazione (Arias
Salgado) attaccava in tutti i modi la nuova elìte,
tentando di sabotarne le politiche allo stesso modo di
Josè luis de Arrese, retrocesso a ministro per gli
Alloggi, che decise di varare un mastodontico e
dispendioso programma d’edilizia popolare.
I falangisti arrivarono, nel 1964, a diffondere un opuscolo
di denuncia del “complotto monarchico dell’Opus Dei, di
un’aristocrazia in declino, dei proprietari terrieri,
della banca e del grande capitalismo”.
Altri attacchi venivano dalle frange moderniste del
cattolicesimo, ma i ministri tecnocrati mostrarono di
ignorarli procedendo speditamente sulla strada della
liberalizzazione: nell’aprile del 1957 fu decisa una
riforma dei cambi che abolì i tassi multipli, seguita da
altre misure monetarie, fu liberalizzato il commercio di
alcuni prodotti ed approvata una Legge dei contratti
collettivi (aprile 1958) che riorganizzava il sistema
contrattuale permettendo anche la partecipazione
dell’Organizzazione sindacale alle trattative sui
contratti collettivi.
Il Piano di stabilizzazione, fortemente sostenuto dall’Ocse
(che aveva accolto la Spagna nel gennaio del 1958),
portò la peseta alla svalutazione, ma anche un
prestito di 420 milioni di dollari concesso al Paese
iberico impegnato nel risanamento; e proprio in questo
periodo, la Spagna presentò una prima domanda per
associarsi alla Comunità Economica Europea, dopo aver
aderito al Fondo Monetario Internazionale per la
ricostruzione e lo sviluppo (luglio 1958).
Le misure relative al commercio estero – il capitale
stranierò potè partecipare fino al 50% del capitale di
qualsiasi società, con la possibilità di ampliare la
propria partecipazione fino al 100%, contenimento delle
importazioni, liberalizzazione dei prezzi e riduzione
dei controlli – in particolare, permisero di parlare,
nel giro di pochi anni, di “miracolo spagnolo”
incentrato per la prima volta sull’industrializzazione,
sostenuta dal settore agricolo, ed organizzata
attraverso piani quadriennali ispirati al modello
francese.
Tra il 1960 ed il 1968 il valore della produzione
industriale a prezzi costanti raddoppiò, favorito anche
dalla libertà di impianto, ampliamento e trasferimento
di industrie sul territorio: nacque dal nulla
l’industria automobilistica, la siderurgia procedette a
livelli di sviluppo francesi, crebbero le produzioni
navali, nonostante l’alto costo dei brevetti necessari
ad avviare il processo (compensati dal basso costo della
manodopera). Il reddito medio per abitante passò da 350
dollari nel 1953 a 650 nel 1968 a 1.250 nel 1973, la
società dei consumi si espanse nella popolazione,
svuotando le campagne ed immettendo sul mercato massicce
masse di tecnici, quadri, funzionari, operai ed
impiegati.
Le rimesse degli emigranti, le importazioni di capitali
(passati da 3 miliardi di pesetas nel 1960 a 65 miliardi
nel 1973) e le entrate in divise turistiche (stimate in
5.440 milioni di dollari di entrate dirette e 1.783 di
trasferimenti bancari) coprirono in parte le
importazioni, largamente maggiori delle esportazioni
(per quanto le ultime crescessero dai 44 miliardi di
pesetas del 1960 ai 479 miliardi del 1975).
Le classi medie si arricchirono ed estesero, accogliendo
anche le donne, che cominciarono finalmente ad arrivare
sul mercato del lavoro (nel 1970 più del 30% esercitava
una professione, contro il 18% di vent’anni prima).
L’influenza dei tecnocrati nell’esecutivo crebbe
ulteriormente – in occasione del rimpasto governativo
dell’11 luglio 1962 – con la nomina di Lòpez Bravo a
ministro dell’Industria; e ancor più dopo il 1965,
allorquando un Caudillo sempre più invecchiato e debole
destituì il generale falangista Muňoz Grandes,
ex-capo della Divisione blu sul fronte russo, dalla
carica di vicepresidente del governo.
Sul piano politico, invece, si ottenne ben poco: il nuovo
ministro dell’Informazione, il modernista del partito
unico Manuel Fraga Iridarne, impose a partire dal
suo arrivo – nel luglio 1962 – metodi di censura più
illuminati e discreti, dopo aver percepito l’aspirazione
popolare ad un’informazione più aperta. In questo senso,
riuscì a strappare nell’aprile del 1966 la promulgazione
di una nuova legge sulla stampa che sopprimeva la
censura preventiva (duramente attaccata dal mondo della
cultura, ed in particolare dal drammaturgo Alfonso
Sastre, autore nel 1954 de “La mordaza” - Il
bavaglio).
Tuttavia, la repressione proseguì a mietere vittime:
nell’aprile 1963, la condanna a morte del comunista
Juliàn Grimau, eseguita nonostante l’appello del
pontefice, evidenziò ancora i limiti di una struttura
politica in cui un solo ministro – Castiella,
responsabile degli Esteri – apparve favorevole alla
grazia.
I tecnocrati, preoccupati esclusivamente del loro settore
di competenza, proseguirono l’opera di occupazione dei
posti chiave dello Stato, al punto che i grandi concorsi
amministrativi chiamati “opposizioni” (oposiciones)
furono soprannominati ironicamente “opusizioni”; al
contempo, l’apparato di regime andò laicizzandosi, come
dimostrato dalla legge sulla libertà religiosa del primo
luglio 1967 – fortemente appoggiata dal Vaticano, non
più disposto ad accettare il ruolo di religione di
stato, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II.
Anche in questo caso, comunque, riprese la discussione
sulla libertà d’opinione ed associazione.
A questo punto, i tecnocrati volsero l’attenzione verso il
piano politico.
Tuttavia, evitarono accuratamente di aprire un dibattito
sulle libertà fondamentali, preferendo agire nella
direzione a loro più familiare: la restaurazione
monarchica incentrata sulla figura del principe Juan
Carlos.
Piazzarono quindi alcuni uomini di fiducia tra i
responsabili degli studi del giovane, ed al contempo
rilanciarono un progetto istituzionale di legge organica
dello Stato bloccato dal lontano 1957.
La situazione si risolse nel corso del 1965, quando il
dittatore mostrò di essersi convertito alla proposta di
Carcero Blanco, il grande protettore dei tecnocrati. La
versione definitiva fu elaborata nella primavera del
1966, adottata il 28 novembre dalle Cortes, nonostante
l’opposizione falangista, ed approvata dal referendum
del 14 dicembre dello stesso anno.
Costituì il preludio, in sostanza, alla designazione di
Juan Carlos come successore di Franco; una nomina che
però attese ancora, e precisamente fino al 22 luglio
1969 – giorno del giuramento del principe di fronte alle
Cortes - per entrare in vigore. Da quel momento, solo le
intenzioni (o la longevità) del generalissimo separarono
il futuro re dal suo trono.
La vittoria a metà ottenuta dai tecnocrati fu ben presto
oscurata, però, da un gravissimo scandalo, l’affare
“Matesa”, riguardante l’irregolare
concessione di crediti (140 milioni di dollari circa)
all’esportazione accordati dal 1966 ad una fabbrica di
telai, che in raltà ha venduto all’estero solo una parte
dei prodotti.
Si diffuse allora la voce che tre ex ministri tecnocrati –
Navarro Rubio, Espinosa San Martìn e Garcìa Moncò –
fossero implicati nella vicenda, come del resto diverse
istituzioni collegate all’Opus Dei.
Per i falangisti, fu l’occasione perfetta per attaccare il
prestigio degli avversari di sempre: Iridarne e Solìs
(ministro del Movimento e responsabile dei sindacati)
arrivarono addirittura a chiedere le dimissioni dei due
ministri compromessi – San Martìn e Moncò - ancora
all’interno del governo.
Franco, però, spiazzò tutti: l’ennesimo rimpasto accrebbe
la presenza dei tecnocrati, considerati generalmente
prossimi all’esclusione, che anzi giunsero a dominare –
per la prima volta dal 1939 – un gabinetto largamente
monocolore, privo del consueto equilibrio tra le varie
forze del regime.
Solìs ed Iridarne, clamorosamente sconfitti, furono
estromessi dal governo, insieme al ministro degli Esteri
Castiella, poco favorevole agli Stati Uniti, sostituito
dall’ex ministro dell’Industria Lòpez Bravo.
Dodici ministri su diciannove furono attribuiti ai
tecnocrati, lanciati – come mai – alla conquista del
Paese. |