N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
STORIA
DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA
LA DITTATURA CAMUFFATA
- Parte Vi
di Cristiano Zepponi
La
tregua diplomatica con gli alleati, maturata lentamente
nel corso del conflitto ed alle esigenze dello scontro
strettamente correlata, cominciò presto a scricchiolare
sotto il peso delle contraddizioni del regime franchista.
Nella
Russia sovietica, in molti (compreso Stalin)
sostenevano la necessità di proseguire l’offensiva al di
là dei Pirenei: una posizione comprensibile, d’altra
parte, se adottata dalla potenza più attiva nel sostegno
del Fronte popolare sconfitto nella Guerra Civile; lo
stesso, peraltro, facevano alcuni partiti politici
francesi (in particolare socialisti e comunisti, come
ovvio), contrastati dalla prudenza dei democristiani (e
di De Gaulle ), mentre i repubblicani spagnoli,
fiutando le difficoltà del regime, si riunirono già
nell’agosto del 1945 in un governo repubblicano in
esilio, cui aderirono tutti i partiti dell’arco
costituzionale (eccetto gli anarchici), dopo che l’anno
prima i comunisti avevano promosso la ripresa della
guerriglia nella valle di Aràn e nell’enclave di Llivia,
seppur con scarsi risultati.
Tra i
conservatori, i monarchici furono i primi ad abbandonare
il treno franchista: il 25 gennaio del 1944 il
pretendente al trono don Juan scrisse al dittatore che
“il regime (che lei incarna) non potrà sopravvivere alla
guerra”, e l’anno dopo elaborò un manifesto in cui
chiedeva il suo allontanamento, mentre i generali
monarchici si mobilitavano prendendo contatti con i
parigrado alleati, in vista di una prova di forza, e l’elìte
conservatrice si dimetteva dagli incarichi ufficiali.
La
Santa Sede e l’episcopato mantennero un profilo
decisamente più prudente, consci del timore
anglo-americano di veder destabilizzato il Paese
iberico, e dell’ambiguo atteggiamento di De Gaulle. Pio
XII evitò di citare la Spagna dopo il messaggio di
Natale del ’44 (in cui prendeva atto del trionfo delle
concezioni democratiche), mentre l’arcivescovo primate
Pla y Deniel si limitò (nelle lettere pastorali
del ’45) ad auspicare formule vaghe, quali “libertà
cristiana” e maggiore associazione degli spagnoli al
governo, senza assolutamente avanzare dubbi sulla
legittimità del potere in carica.
Si
offrì inoltre un importante sostegno sul piano teorico,
delineando, attraverso le voci più autorevoli, un
itinerario di “consequenzialità politico-religiosa” che,
partendo dalla necessità della guerra civile (causata
dall’impossibilità di realizzare una collaborazione con
i “rossi” per perseguire il “bene comune”) e dal non
intervento nella seconda guerra mondiale, giustificava
una reintegrazione della Spagna, modello
nazional-cattolico peculiare in linea con la tradizione
del Paese, nel blocco occidentale anti-comunista.
In
questo modo (ne è esempio la lettera pastorale
Conducta de Espaňa en la guerra y en la paz del
solito Deniel), evidentemente, la Crociata era
salva.
In
altri ambiti, comunque, la Chiesa manifestò il favore ad
una prospettiva di cambiamento, né mancarono alcuni atti
simbolici di notevole importanza: il nunzio a Parigi,
mons. Roncalli (il futuro Giovanni XXIII), trattò
in maniera dura il novo ambasciatore spagnolo durante la
visita di protocollo, ed il delegato apostolico a New
York, mons. Cicognani, concesse nell’ottobre del
’45 un colloquio ai leader repubblicani Prieto ed
Araquistain.
La
situazione per il Caudillo andava peggiorando giorno
dopo giorno: il regime incassò in sequenza l’esclusione
dalla conferenza di San Francisco, e di conseguenza
dall’ONU (ufficializzata il 2 agosto 1945), dove in via
ufficiosa erano invece presenti i rappresentanti del
governo legale, la proposta di Stalin agli alleati
(avanzata a Potsdam) di rompere le relazioni
diplomatiche con il regime, la chiusura delle frontiere
francesi (il 1° marzo 1946), la proposta polacca di
iscrivere la questione spagnola all’ordine del giorno
del Consiglio di sicurezza e la risoluzione datata 12
dicembre ‘46 dell’Assemblea delle Nazioni Unite, cui la
questione era passata, in cui si invitavano i Paesi
membri a ritirare i propri ambasciatori per aumentare la
pressione sul regime.
Il
viaggio trionfale di Eva Peròn nel Paese iberico palesò
in effetti quello che era ormai evidente, e cioè che la
Spagna aveva ormai un solo partner.
E
proprio l’Argentina, nel corso del 1947, la salvò per un
soffio dal rischio di una nuova carestia, visto che la
produzione agricola ristagnava a malapena intorno ai
livelli del periodo pre-bellico nonostante un sensibile
aumento della popolazione.
L’unica possibilità per il regime, ormai, era costituita
dall’introduzione di una nuova forma politica, che
risultasse accettabile all’opinione pubblica ed
all’estero, senza però intaccare il potere personale del
generalissimo.
Franco
provò inizialmente la carta del duo Aunòs/Lequerica, che
assunsero un atteggiamento liberale e filo-americano
senza però riuscire a proporre una forma di governo
plausibile e duratura, e per questo furono messi alla
porta piuttosto in fretta, già il 17 luglio 1945.
Conscio della scarsità di tempo a disposizione, virò
quindi con decisione verso elementi di gran lunga più
affidabili: i cattolici.
Favorito in questo senso dall’evoluzione della
situazione interna – caratterizzata dagli attentati
degli anarchici e dalla chiusura totale del Paese che
consentiva (un po’ come accaduto nell’Italia sanzionata
dalla Società delle Nazioni) una ripresa della sua
popolarità, abile nel presentare questo atto come
un’offesa alla dignità nazionale – e dalle pressioni dei
vescovi spagnoli, che premevano per un’evoluzione in
senso liberale della dittatura, il Caudillo chiamò a
ricoprire ruoli fondamentali (esteri, insegnamento,
propaganda e censura) una serie di personalità
appartenenti ad un’associazione universitaria cattolica
d’origine gesuita, elìtaria e vagamente massonica creata
agli inizi del secolo, la Asociaciòn catòlica
nacional de propagandistas (Acnp).
Dalle
sue file proveniva Alberto Martìn Artajo, già
presidente dell’Azione cattolica, nominato
ministro degli esteri nel luglio del 1945; ed anche
Joaquìn Ruiz-Gimènez, divenuto ministro
dell’Istruzione il 20 luglio 1951.
Allo
stesso modo, la Vicesegretaria per l’Educazione
popolare, preposta al controllo della stampa, della
censura e della propaganda, fin’allora guidata dalla
Falange, passò sotto il controllo del ministero
dell’Educazione Nazionale, al cui vertice si trovava
Josè Ibaňez Martìn (un ex-cedista).
Il
regime, parallelamente, tentò anche la carta della
“defascistizzazione” (il processo, in Spagna, prese i
nomi di cambios cosmèticos, maquillaje,
camuflaje, che non credo necessitino di traduzione):
si abolirono i segni esteriori più vistosi (il saluto
romano, peraltro già caduto in disuso, l’uniforme della
Falange per il dittatore, la qualifica di Ministero alla
Segreteria della Falange), si accentuarono quelli di
natura divina (dal ’47, ad esempio, la formula “Caudillo
por la gracia de Dios” apparve sulle monete), e infine
la Falange stessa prese il più accettabile nome di “Movimento
Nazionale”.
Fedele
alla linea di prudenza nei cambiamenti, comunque, Franco
preferì evitare uno strappo con la parte più autoritaria
dei suoi sostenitori, e ricompensò le perdite falangiste
con la conferma del “fascista” Giròn al ruolo di
Ministro del Lavoro, oltre ad affidare ai militari
ministeri rilevanti: quello delle Forze Armate, delle
Opere pubbliche e dell’Industria.
L’Opus
Dei cominciò a rosicchiare spazi nei principali
organismi culturali (Escrivà de Belaguer, uno dei
membri, rimase fino al ’66 presidente del CSIC, il
principale organo di ricerca del Paese).
Sul
piano legislativo, il progetto della “democrazia
organica”, elaborata per sbiadire il ricordo del
passato fascista e perseguito attraverso queste nomine,
si caratterizzò per due riforme dell’ordinamento
statale.
Il 18
luglio 1945 fu promulgata infatti “la carta degli
Spagnoli” (“Fuero de lo espaňoles”),
preceduta da febbrili incontri con le gerarchie vaticane
(preoccupate di venir identificate con la dittatura ed
al contempo attentissime a recuperare spazi politici).
Era,
questa, una sorta di dichiarazione dei diritti e dei
doveri del cittadino, inserita in un contesto di
trasformazione dall’autoritarismo del regime in
un’apparenza di “Stato di diritto”, garante di alcune
libertà fondamentali (all’articolo 12, ad esempio, si
dichiarava la libertà d’espressione purchè non in
contrasto con i “princìpi generali dello stato”, mentre
all’articolo 18 si garantiva che “entro il termine di 72
ore ogni arrestato sarà posto in libertà o consegnato
all’autorità giudiziaria”, ma solo nel caso in cui
entrambi i diritti non fossero “temporaneamente sospesi
dal Governo” mediante decreto-legge”; l’articolo 6,
inoltre, recitava che “nessuno sarà molestato per le sue
credenze religiose né per l’esercizio privato del suo
culto”, ma comunque che “non si permetteranno cerimonie
né manifestazioni esteriori che non siano quelle della
religione cattolica”).
La
carta prevedeva inoltre, nell’appendice del 22 ottobre
dello stesso anno, l’approvazione popolare per le future
leggi fondamentali.
Il 26
luglio 1947, inoltre, fu promulgata anche la legge di
successione del capo dello Stato: fu finalmente
affermata la natura monarchica del regime, ma la
designazione del reggente rimase legata ad una procedura
particolarmente complessa che impediva, di fatto, che il
regno ricevesse un re, almeno fino alla morte del
dittatore.
L’elìte
cattolica fornì quindi l’involucro democratico ad una
sostanza autoritaria che in fondo, neanche sull’orlo
dell’abisso, aveva accettato di modificarsi. I risultati
di Artajo, di conseguenza, potevano considerarsi tutto
sommato deludenti: era stato usato senza ottenere
alcunché.
Tutt’altro impatto sembrò avere la comparsa di Gimènez,
portavoce di una certa cultura cattolico-modernista più
conscia delle reali esigenze di liberalizzazione:
innanzitutto nominò i nuovi rettori delle Università di
Madrid e Salamanca, scegliendo le figure di Pedro Laìn
Entralgo e di Antonio Tovar, falangisti sì, ma aperti al
confronto; poi riformò la scuola media, consentendo un
maggior afflusso all’istruzione e limitando le
interferenze ideologiche, regolamentò l’attività dei
centri religiosi, regolarizzò il sistema concorsuale,
appoggiò e protesse riviste non conformiste (“Alcalà” e
“Revista”) e tollerò la rinascita di correnti di
pensiero democratiche (e anche socialiste e comuniste).
Le
cerimonie commemorative all’Università di Madrid in
ricordo del filosofo Ortega y Gasset, scomparso
nel 1955, testimoniarono il nuovo clima culturale
diffuso dal ministro, che s’inseriva pur sempre in una
cornice autoritaria che minacciava costantemente le
piccole aperture ottenute.
Che la
guerra fredda aprisse nuove possibilità fu presto
evidente alla dirigenza spagnola, ed agli osservatori
internazionali. La visita di un ammiraglio americano (il
18 febbraio 1948), la riapertura della frontiera
francese (il febbraio dello stesso anno), lo scalo della
flotta americana a Barcellona (nel settembre del 1949)
ed un primo prestito approvato dal Senato americano (per
compensare l’esclusione dal Piano Marshall, il 1° agosto
1950) mostrarono chiaramente un processo irreversibile.
Di
fronte allo spettro del comunismo, le questioni morali,
che tanto avevano inquietato dall’una e dall’altra
parte, vennero così a decadere in fretta.
Nel
novembre del ’50, quindi, la Spagna ottenne l’ingresso
nella Fao; due anni dopo, mentre riprendeva il
flusso degli ambasciatori, lo stesso accadde all’Unesco,
finchè, il 14 dicembre 1955, il Paese iberico occupò il
seggio all’ONU che ne sanciva l’ufficiale ritorno
nel circo della società civile.
Gli
accordi bilaterali completarono l’opera; firmati il 27
agosto ed il 26 settembre 1953, il concordato con la
Chiesa – in cui si riconoscevano alle gerarchie numerose
concessioni, quali l’insegnamento obbligatorio della
religione cattolica nelle scuole ed all’Università, e
poi dotazioni, esenzioni e sovvenzioni; ma ancor più
vantaggi otteneva il regime, tra cui il diritto di
presentazione dei vescovi al capo dello Stato, e, ancor
più importante, una legittimazione ecclesiastica sancita
dalla concessione dell’ordine di Cristo a Franco e dalla
formula “Ducem nostrum Franciscum” nella messa –
e l’accordo di mutua assistenza con gli States –
costituito da un accordo economico e militare -
permisero al regime di svestire l’abito reazionario, e
sostituirlo con quello cattolico e occidentale.
Gli
USA e la Chiesa, così facendo, si compromisero
contemporaneamente, salvando al contempo un regime
morente.
L’esperienza dei cattolici al potere si concluse sotto
il peso delle aspettative generate dalle timide aperture
realizzate, e della reazione timorosa dei settori più
conservatori di fronte a questa improvviso pericolo:
falangisti, gerarchie vaticane, nazional-cattolici
vicini all’Opus Dei (guidati da Calvo Serer) e
addirittura alcuni esponenti dell’intellighenzia
intellettuale si opposero duramente all’impresa di
liberalizzazione, innanzitutto nel corso della cerimonia
in onore di primo de Rivera (19 novembre 1955) e poi
contro la proposta di dar vita ad un Congresso dei
giovani scrittori.
A
queste agitazioni si intrecciarono quelle, composte da
elementi di sinistra e falangisti uniti e dimentichi
delle rivalità del passato, rivolte alla critica del
Sindacato espaňol universitario e favorevoli
alla valorizzazione di tutte le tendenze attraverso la
creazione di un sindacato più rappresentativo
(ricordiamo in proposito i nomi di Laìn Entralgo,
rettore dell’università di Madrid e convinto sostenitore
delle aperture, oltre che di Mazas ed Ridruejo).
I
dibattiti liberi nell’università di Madrid si
mescolarono con una cocente sconfitta dei candidati del
Seu nello scrutinio del 4 febbraio 1956 e con accese
manifestazioni studentesche di natura opposta,
falangista e liberale, nel quadro di un clima
caratterizzato da una crescente tensione, accresciuta
dall’intervento della polizia.
L’8
febbraio 1956, giorno dello “studente scomparso”, la
situazione precipitò: la polizia intervenne ancora per
disperdere i due gruppi avversari, e nella mischia un
proiettile raggiunse Miguel Alvarez Pèrez, membro
del Frente de juventudes, il movimento giovanile
della Falange contrario alla liberalizzazione, fornendo
ai compagni il pretesto per vendicarsi.
Franco, incitato dai generali dell’esercito, intervenne
allora con fermezza, disarmando i gruppi paramilitari
della Falange – tra cui la temuta Guardia de Franco
–, arrestando sette falangisti (o ex-falangisti)
sostenitori dell’apertura, tra cui Mazas, Ridruejo,
l’economista Tamames ed il regista Bardem e costringendo
alle dimissioni Ruiz-Gimènez, protagonista della fase
politica conclusasi con gli scontri armati tra studenti
che – comunque la si giudichi – aveva solamente illuso
quanti sperarono in una maturazione moderata del regime. |