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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA

Il Caudillo della reazione - Parte V
di Cristiano Zepponi

 

La Spagna della “crociata” (per lungo tempo questa sarebbe stata l’immagine di Franco proposta dal regime, a partire dalla tela di Arturo Reque Meruvia) esaltò la propria vittoria, e sé stessa, con una profusione di energie tale da tradire il sollievo per lo scampato pericolo: il terrore di una sconfitta era stato troppo vivo, per essere rimosso d’improvviso.

Il 19 maggio del 1939 si svolse quindi un’interminabile sfilata militare, patriottica e simbolica, per “mostrare i muscoli” del neonato regime. All’inizio della cerimonia, il gen. Varala decorò il vincitore con la massima onorificenza, la Gran cruz laureada de san Fernando, mentre i velivoli nel cielo rappresentavano le parole ‘VIVA FRANCO’.

La damnatio memoriae della Repubblica decollò subito, attraverso la delegittimazione dello sconfitto ordinamento democratico operata dalla pubblicistica di regime, per poi procedere a braccetto con l’esaltazione del capo vittorioso.

Il “generalissimo”, subito dopo l’investitura dei suoi parigrado, aveva già imposto l’appellativo di “Caudillo”, corrispondente locale del teutonico Führer e dell’ italico Duce, ma forgiato e tenuto a battesimo da un’attenta campagna propagandistica di culto della personalità. Le radici conservatrici di questa scelta emersero dall’accostamento ad epoche mitiche e personaggi leggendari del passato spagnolo (la Spagna imperiale del XVI e XVII secolo per quanto riguarda le prime, il “Cid” tra i secondi), dalla chiara connotazione miliare del termine, e dall’ immancabile dimensione messianico-provvidenziale che i vescovi spagnoli, in un eccesso di zelo, non mancarono di esaltare.

Il giorno dopo la sfilata, a Madrid, ebbe luogo anche l’offerta della spada della vittoria all’altare della chiesa di Santa Barbara, addobbata con evidenti richiami a passati momenti di splendore (i lontani echi di Lepanto, la vittoria navale cristiana del 1571, e della Riconquista) e con la vasta panoplia di membri del governo, falangisti, ambasciatori e uomini di chiesa che lì resero l’estrema unzione allo Stato laico sconfitto.

Pio XII (che negli ultimi anni sembra assurgere a modello di virtù morale..) diede anzi l’esempio, se così si può dire, incoraggiando la collaborazione con uno Capo di Stato vittorioso sì, ma pur sempre illegale. L’Azione cattolica si propose quindi come “officina ideologica” alternativa alla Falange, ed il franchismo vi attinse a piene mani; in più, la giustificazione del potere arrivò addirittura a scatenare una lotta personale, tra i vari membri del clero, sulla primogenitura dell’appoggio al Caudillo. Senza dubbio la spuntò l’arcivescovo di Toledo Pla y Deniel, che nel maggio del ’42, al momento dell’intronizzazione, elogiò “questo governo che ha riconosciuto nelle sue leggi la chiesa come una società perfetta, che ha ristabilito la nostra unità cattolica proclamata dal re Recaredo”.

L’alleanza trono-altare divenne così un tratto fondamentale del nuovo ordinamento, nonostante sotterranei scontri, soprattutto con la Falange, su singoli settori della società (l’integrazione forzata delle associazioni studentesche cattoliche nei circuiti del partito unico, la predica in dialetto basco e catalano, l’informazione).

Gli organici legami con la chiesa trovarono alfine conferma nel “giuramento di fedeltà allo Stato spagnolo” pronunciato di fronte a Franco, ripristinando un’usanza secolare, dai nuovi vescovi in conseguenza degli accordi con la S.ta Sede del giugno ’41.

La ricattolicizzazione simboleggiata dall’evocazione del triplice motto “ordine, patria, religione” nei discorsi del generale, nei bollettini episcopali, nella stampa e nei vari organi di regime procedette spedita, ed euforica, senza curarsi del destino di quella Spagna sconfitta, e massacrata, che in quegli anni scomparve in silenzio.

I settori più conservatori della società (proprietari terrieri, elìte finanziaria, chiesa, esercito ma anche contadini e piccolo-borghesi) assistettero, compiaciuti e distaccati, all’epurazione dei “rossi”.

La chiesa colse al volo l’occasione di apostolato, e, semplicemente, venne meno ai precetti evangelici: nel gennaio del ’41 la rivista dell’Azione cattolica (“Ecclesia”) pubblicò le parole del direttore generale delle carceri, il quale assicurò che nessuno “sconto di pena sarà accordato a chi non avrà accolto i principi elementari della nostra religione”, né più umano si dimostrò l’atteggiamento dei 200 cappellani dell’amministrazione penitenziaria, impegnati in un massiccio ciclo di conversioni, messe, catechismi e Te deum forzati.

La retroattività delle leggi, ed un principio di “justicia al revès” (per usare le parole di Serrano Suňer nelle memorie del 1977) permisero l’incarcerazione e lo sterminio di socialisti, anarchici, comunisti, repubblicani, deputati e sindacalisti, specie dopo la promulgazione (il 1° marzo del ’40) della legge sulla repressione della massoneria e del comunismo . La popolazione carceraria decollò dai 12.500 detenuti pre-bellici ai 270.000 del ’40, mentre i fucilati, a metà del ’39, come riferì Franco al conte Ciano (“Diario 1939-1943”, vol. I), assommavano a 200-250 a Madrid, 150 a Barcellona, 80 a Siviglia. Al giorno.

Le stime non tengono conto dei decessi per maltrattamenti, malattie ed omicidi sommari. Al contrario di quelli dell’antichità classica, i numeri vanno presi per difetto: alcuni propongono una valutazione di circa 192.000 morti tra il 1° aprile del ’39 ed il 30 giugno del ’44 (S.G. Payne, “Franco’s Spain”, 1967, p. 111). A questi, vanno sommati anche quelli causati dai volenterosi carnefici alleati, la Germania nazista e la Francia sconfitta di Vichy (responsabile diretta dell’uccisione di Lluis Companys, ex presidente della Generalidad di Catalogna).

La Spagna perse allora i suoi settori più dinamici, emigrati e trucidati, oppure epurati pazientemente dall’amministrazione pubblica, dalle imprese, dalla vita comune. Restarono ai loro posti 160 professori universitari sui 430 presenti nel ’36 (Hermet, “Storia della Spagna nel Novecento”, pag. 168), ed una simile proporzione di operai.

Le fameliche orde di fascisti dell’ ultimo minuto, di cantori della pecunia, di arrivisti sfegatati, si scatenarono allegramente. La Falange passò dai 36.000 membri del ’36 ai 932.000 del ’42, e popolò così, dotandoli di patenti politiche incontrovertibili, i settori lasciati desolati dal repulisti post-bellico.

Il “nuovo Stato” a carattere confessionale si caratterizzò subito per una precisa scelta antimodernizzatrice, visibile soprattutto nell’istruzione. L’Università divenne cattolica, mentre la partecipazione ai concorsi in facoltà fu subordinata alla presentazione di un certificato di ferma adesione ai principi fondamentali dallo Stato, rilasciato dalla Segreteria generale del Movimento.

I giovani furono inquadrati in apposite organizzazioni – il “Fronte della gioventù” e la “Sezione femminile” della Falange – gerarchiche, patriottiche, cattoliche e conformiste. Le donne dovettero anche frequentare il Servizio Sociale, creato durante la guerra e riorganizzato nel ’40, un corso obbligatorio semestrale atto a rilasciare un altro certificato necessario per ottenere un posto nell’amministrazione pubblica, la patente, e poi diploma e passaporto.

Il Servizio Sociale, sottomesso alla “Sezione femminile” (presieduta a vita da Pilar Primo de Rivera, sorella di Josè Antonio), promosse un modello femminile tradizionalista, fondato sull’assunto che “il fine essenziale della donna […] è di servire da perfetto completamento dell’uomo”, e via delirando.

“Repressione, inquadramento sociale ed una rigida censura connotano il lungo dopoguerra spagnolo” (Di Febo-Julià, “Il franchismo”, pag. 21). La censura in particolare era “dogmatica, xenofoba e improntata alla pudicizia in forma inverosimile”, come candidamente ammesso dal responsabile del Servizio di Propaganda, Dionisio Ridruejo.

L’intellettuale assurse a simbolo di disgregazione dell’unità nazionale, e per questo subì un’intensa attività denigratoria; la censura e l’attacco diretto si scagliarono ferocemente contro la Instituciòn Libre de Enseňanza e le migliaia di maestri eredi della sua pedagogia laica e innovatrice; e per ultimo, l’isolamento culturale del Paese divenne drammatico con la diaspora di pensatori di caratura internazionale (tra cui i poeti Rafael Alberti e Juan Ramòn Jimènez, gli storici Amèrico Castro e Salvador de Madariaga, i filosofi Josè Ortega y Gasset e Marìa Zambiano, i giuristi Luis Jimènez de Asùa e Claudio Sànchez Albornoz e gli scrittori Ramòn Sender e Merce Rodoreda), proprio mentre intere esperienze intellettuali scomparvero sostituite dalla reintroduzione della neoscolastica.

Franco riteneva che il liberalismo costituisse la causa dei due mali principali degli ultimi decenni: la democrazia multipartitica e la lotta di classe sindacalista.

Per questo, intervenne subito sul tema del disciplinamento della forza lavoro: i princìpi di collaborazione delle classi e di organizzazione corporativa ispirarono la compilazione della Fuero del trabajo (Carta del lavoro), promulgata il 9 maggio 1938, a guerra in corso. Tutte le forze produttive furono irreggimentate in sindacati verticali diretti dalla Falange, ai quali dipendenti ed imprenditori erano tenuti ad iscriversi, e fu proibito lo sciopero, “delitto di lesa patria”.

Lo Stato, nella Carta, veniva definito “nazionale in quanto è strumento totalitario al servizio dell’integrità della patria e sindacalista in quanto rappresenta una reazione contro il capitalismo liberale e il materialismo marxista”.

Subito dopo, con varie misure giuridiche, eliminò ogni traccia delle riforme laiche e liberali della Repubblica: il 23 settembre del ’39 fu abolito il divorzio, il 10 marzo ’41 fu confermato l’obbligo di fatto del matrimonio religioso, e poi fu reso obbligatorio l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche e stabilito un sostegno economico all’insegnamento confessionale.

Lo Stato, che fin’allora era stato solo un gigantesco accampamento, non acquisì istituzioni stabili per volere dello stesso Caudillo, che sembra aver preferito, almeno in questa fase, non assumersi impegni nei confronti delle diverse anime della sua “coalizione”, nonostante gli assidui tentativi di Ramòn Serrano Suňer, l’avvocato ex-cedista, ispiratore ed eminenza grigia del periodo pseudo-fascista del regime, noto come “cognatissimo” del generale. Senza scontentare né i “duri e puri” della Falange, né le nostalgie monarchiche, il dittatore riaffermò solo la propria giurisdizione attraverso la legge dell’8 agosto 1939 sulla Magistratura suprema dello Stato (Jefatura del estado), e soprattutto la legge fondamentale del 17 luglio 1942, che rimetteva in vigore le Cortes, svuotate di ogni velleità giurisdizionale.

Ma nonostante fosse scomparsa ogni traccia di opposizione interna (del tutto inesistente fino al ’44: ne risultarono zero scioperi, zero manifestazioni, e l’assordante silenzio dei circoli anarchici/comunisti garantito da un’onnipotente corpo di polizia sostenuto da esperti della Gestapo tedesca), il Regime dovette affrontare da subito alcuni gravi problemi.

Il primo in ordine di tempo (e d’importanza) fu costituito da una grave e generalizzata carestia, attribuita inizialmente alle distruzioni del conflitto, alla mancanza di fertilizzanti e macchinari, alla sferzata inferta dai movimenti di collettivizzazione (repubblicana) e decollettivizzazione (franchista), ed allo stato disastroso in cui versavano le vie di comunicazione (nel settore ferroviario e petrolifero).

Più tardi, invece, divenne evidente come fosse stata deleteria la combinazione di interventismo statale e protezionismo autarchico, pur senza sottovalutare lo sfondo di un’economia già depressa; ne fu prova il clamoroso fallimento dell’Instituto Nacional de Colonizaciòn (creato nell’ottobre del 1939), e del suo piano di colonizzare le grandi aree (su oltre 500.000 ettari dichiarati di interesse nazionale, ne furono sfruttati solo 10.000).

“La produzione agricola crolla da un numero indice 109 nel 1935 a 70 nel 1940 e a 75 nel 1942 […]. Nei dintorni di Madrid i contadini […] arrivano addirittura a occupare le cappelle funerarie dei cimiteri, le uniche a offrir loro un asilo” (Hermet, op.cit., pag. 169), e da questa situazione uscì foraggiata al solito una ridotta cerchia di affaristi senza scrupoli impegnati nel redditizio settore del mercato nero.

La produzione di patate dimezzò (da 5.010.000 t del periodo 1931-‘35 a 2.715.000 t negli anni 1945-‘49), ed un calo simile si registrò anche nel settore del grano (negli stessi lassi di tempo, da 4.364.000 t a 3.177.000 t), dell’orzo (da 2.394.000 t a 1.819 t) e dell’olio (da 349.000 t a 331.000 t).

Il fascismo agrario fallì inesorabilmente. Ma gli stessi princìpi – interventismo e autarchia – guidarono anche la politica industriale, un altro rilevante problema per il “nuovo Stato”.

I danni della guerra erano stati in questo campo sensibili, ma non drammatici, specie per quanto riguarda gli impianti baschi e catalani, consegnati quasi intatti ai nazionalisti; tuttavia, ancora le politiche del regime, unite stavolta alla sfavorevole scelta strategica di avvicinarsi a Germania e Italia, determinarono un brusco stop nel secolare processo di sviluppo iberico.

La libertà d’impresa fu severamente limitata a mezzo di decreti (20 agosto 1938, 8 settembre 1939), i piani di industrializzazione furono vincolati alla creazione dell’INI (Istituto Nacional de la Industria) nel settembre del 1941, che trasformava lo Stato nel maggiore imprenditore industriale (specie nel campo delle forniture militari), e i mono/oligopoli divennero la regola nel panorama economico spagnolo. I salari reali diminuirono di due terzi rispetto all’anteguerra, né si potevano difendere senza sindacati e/o azioni rivendicative, e una mastodontica burocrazia costrinse gli imprenditori ad un'unica forma di concorrenza, volta esclusivamente a garantirsi appoggi politici, amministrativi ed economici.

Ne scaturì una depressione profonda, e fino al ’50, per alcuni, l’industria del Paese non raggiunse i livelli produttivi del ’30; allo stesso modo, il “reddito pro capite raggiunto nel 1935 non verrà del tutto recuperato fino al 1954” (Di Febo-Julià, op.cit., pag. 31).

Poiché in politica interna prevaleva la Falange, e falangisti erano in larga parte i membri dell’esecutivo, e poiché il loro aiuto era risultato decisivo durante la guerra civile, la Spagna privilegiò l’Italia e la Germania agli esordi del conflitto, e con esse firmò trattati di amicizia e cooperazione, prima di aderire al Patto anti-Comintern e ritirarsi dalla Società delle nazioni. Tuttavia, Franco era un uomo prudente, e non amava il cambiamento; per questo, e per le gravi crisi interne, rifiutò di seguire i consigli bellicosi dei falangisti stessi, rinforzati dal rimpasto di governo dell’agosto del ’39.

Il 4 settembre di quell’anno, all’alba del conflitto, il Paese dichiarò quindi la neutralità, per quanto benevola fosse nei confronti dell’Asse.

Tuttavia, la marea montante dei successi tedeschi, della presa spagnola di Tangeri (approfittando della resa francese, il 12 giugno 1940), e del conseguente, accresciuto ruolo internazionale del Paese scossero il Caudillo, che solo a causa di un estremo scrupolo di prudenza optò per la littoria via della “non belligeranza” di mussoliniana memoria.

Franco intendeva quel passo come un avvicinamento alla guerra: tuttavia, decise di vendere cara un’eventuale discesa in campo.

Come riferito da Vigòn, capo dell’Alto Stato Maggiore, ad un indifferente Hitler, pretendeva nientemeno che Gibilterra, il Marocco francese, la regione di Orano, viveri e rifornimenti. La Germania, come ovvio, rifiutò.

Il problema si ripresentò nel corso degli incontri con il Führer di Franco a Hendaye (il 23 ottobre) e di Serrano a Berchtesgaden (il 18 novembre), ma rimase senza soluzione: i tedeschi sembravano preoccuparsi più dell’amicizia di Vichy che della smania combattiva del disastrato esercito spagnolo.

Serrano tentò allora la carta dei volontari, e radunò una divisione (“Azul”, “azzurra”) da spedire sul fronte russo, per poi affrettarsi a chiarire che la Spagna non aveva intenzione di partecipare al conflitto contro la G.B.

L’entrata in guerra degli U.S.A. e le prime sconfitte dell’Asse modificarono radicalmente i piani del Caudillo.

Dapprima timidi approcci commerciali, poi accomodamenti riguardo i rifornimenti ai sommergibili tedeschi ed i piloti alleati abbattuti, infine passi ufficiali dei governi salvarono il regime dall’isolamento, e Franco da un dopoguerra che si annunciava piuttosto complesso.

L’iniziale intransigenza degli alleati si piegò quindi alle necessità della guerra, che imponeva di attrarre un Paese posto in posizione strategica nei pressi del fondamentale scacchiere africano.

Il 4 dicembre del 1942, di conseguenza, Anthony Eden firmò una cambiale in bianco, affermando che il suo Paese, l’Inghilterra di Churchill, non aveva alcuna intenzione di intervenire negli affari interni della Spagna. Anche se questa rimaneva la Spagna di Franco.

Il Caudillo decise che il suo debito di riconoscenza verso l’Asse era ormai estinto, e capì che solo una prova di buona volontà poteva relegare nell’ombra le passate simpatie per lo schieramento “sbagliato”. Raccolse perciò l’invito, con la consueta cautela: il 1° ottobre 1943, tre settimane dopo il crollo dell’Italia, abbandonò la non belligeranza e tornò ad una condizione di neutralità sempre più favorevole agli alleati. Il 3 novembre fu rimpatriato il contingente iberico dal fronte russo, il 20 rinnovato un patto difensivo con il Portogallo (alleato dell’Inghilterra), il 2 maggio 1944 stabilito un accordo commerciale con gli anglo-americani.

A ciò si aggiunsero il diritto di scalo per aerei “civili” americani, il mancato riconoscimento del governo di Salò, il blocco alle esportazioni di minerali in Germania, la rottura delle relazioni diplomatiche con il Giappone (11 aprile 1945) e la consegna di Pierre Laval e Abel Bonnard al governo gaullista.

Per il momento, il regime sembrò poter sopravvivere anche ad una guerra mondiale.


 

 

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