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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA

La guerra civile (1936-1939) - Parte IV
di Cristiano Zepponi

 

I generali insorti il 17 ed il 18 luglio del 1936 si ispirarono direttamente alla ricca tradizione dei pronunciamientos spagnoli, dal secolo precedente fino a Primo de Rivera, recuperando così i “classici” del genere.

Si presentarono quindi come paladini dell’ordine repubblicano minacciato dagli estremismi del Fronte popolare (Franco concluse il proclama del 18 luglio sbandierando nientemeno che le parole d’ordine di “Fraternità, Libertà, Uguaglianza”), ed in questa veste si aspettavano una resistenza poco più che simbolica.

Presto, si scoprirono ingannati.

I responsabili repubblicani, come detto, attendevano come imminente una rivolta, ed erano stavolta preparati per contrastarla; ma prevedevano un golpe localizzato, regionale e limitato, e non un attacco così esteso ed eterogeneo.

I congiurati tentarono da subito, però, di unificare il comando militare, costituendo a Burgos, il 23 luglio, una Giunta di difesa nazionale; vi prendevano parte il gen. Miguel Cabanellas, repubblicano e massone inviso alla destra, in qualità di presidente, i gen. Saliquet e Ponte, monarchici, oltre ai gen. Mola e Dàvila ed ai colonnelli Montaner e Morrera, apparentemente apolitici.

A questi si aggiunsero Franco (il 3 agosto) ed anche i gen. Queipo de Llano e Orgaz, rispettivamente repubblicano e monarchico, il 17 settembre.

Una notevole diffidenza separava i militari di professione dai falangisti (corrente fascista inizialmente minoritaria, antimonarchica, anticapitalista e laicizzante, aureolata dal sacrificio del capo del movimento, Josè Antonio Primo de Rivera, fucilato dai repubblicani il 20 novembre del 1936), dai monarchici “alfonsini” (influente oligarchia terriera, bancaria e industriale finanziatrice della rivolta, aspirante ad una monarchia costituzionale ragionevolmente liberale) e dalle loro scarse milizie armate; a questo sprezzante trattamento si sottraevano solo i carlisti (movimento diffuso in alcune regioni rurali del nord, favorevole ad un ritorno alla concezione monarchica antiliberale, assolutista e temperato dalle franchigie comunali e provinciali abolite nell’ottocento), le cui unità armate, i Requetès, formate dai contadini di Navarra e guidate da un clero integralista, avevano fama di salda disciplina e fanatica dedizione.

La burocrazia ed il funzionamento politico della rivolta furono invece appannaggio degli ex-cedisti, che coprivano un arco politico vastissimo dopo la disfatta di Gil Robles e che godevano delle competenze e delle ideologie necessarie al ruolo.

Il pronunciamiento non sapeva in che direzione procedere, tirato com’era da tanti punti diversi, da rivalità, divergenze e divisioni, nello stesso apparato militare. A complicare la situazione, due giorni dopo il golpe, il gen. Sanjurjo morì in un incidente aereo in Portogallo, indebolendo la parte “alfonsina” proprio mentre alcuni altri insorti, in particolare i gen. Mola e Queipo de Llano (che nel suo “feudo” di Siviglia si atteggiava a capo del governo), si rivelavano decisamente ostili alla soluzione monarchica.

La Giunta si rivelò quindi incapace di mediare, ed imporre la propria autorità: anzi, a stento riuscì ad eleggere un coordinatore, il 26 luglio, nella persona del gen. Cabanellas, il più vecchio del gruppo. Ma la sua influenza politica non era marcata come voluto dai sostenitori, e richiesto dagli eventi; la lotta alla sua successione, quindi, prese il via contemporaneamente alla sua nomina. Fuori gioco Goded, con il suo patrimonio di simpatie tra la borghesia conservatrice rinchiuso nella prigione di Barcellona, indifferente Mola, troppo preso dalla guerra per poter manifestare ambizioni politiche, rimaneva un solo candidato: il discreto generale Franco.

Il 21 settembre la Giunta arrivò così a nominarlo generale in capo, e poi “capo di governo dello Stato spagnolo”; qualcuno, con acume, protestò per l’indeterminatezza del mandato. Nella prima ordinanza, pubblicata il 1° ottobre del 1936, il militare si autoproclamò comunque “capo di stato”: quasi per caso,allora, nacque il regime franchista.

La Chiesa, come di consueto, fornì le basi ideologiche ad un regime che ne aveva disperato bisogno, e che rischiava di perdere il sostegno delle masse conservatrici. Ma un appoggio diretto dovette attendere, soprattutto perché il governo basco (a maggioranza democristiana) resisteva agli insorti; per quasi due anni la diplomazia papale adottò quindi un atteggiamento dilatorio, che obbligò Franco a moltiplicare le concessioni (sospensione delle leggi sull’insegnamento, sul matrimonio civile e sul divorzio) fino ad un’evidente presa di posizione dell’episcopato.

Il contenimento delle velleità politiche degli alleati fu raggiunto con il decreto di unificazione del 19 aprile 1937: si formò quindi un partito unico ed eterogeneo tra tutte le componenti conservatrici, fuse (ed annullate) tra loro sotto la mediazione del Caudillo (titolo ereditato dai capi militari del Medioevo, per sottintendere il compimento del destino storico della nazione). Questo prese il nome di Falange espaňola tradicionalista y de las juntas de offensiva nacional-sindacalista (“Fet y de las Jons”): un appellativo complesso, che tradiva una sostanziale carenza di unità ideologica e di solide basi fasciste.

Tra i repubblicani si viveva tutt’altro clima. Nonostante la passione degli inizi, infatti, le difficoltà materiali e morali presero presto a crescere a dismisura.

Al momento del golpe si trovavano nelle mani del governo legittimo 35 provincie su 50: le più popolate, le più industrializzate, ma anche le più deboli dal punto di vista agricolo.

La produzione delle campagne, momentaneamente interrotta dalla collettivizzazione spontanea delle terre, impose quindi la necessità di un rigido razionamento, in particolare nella capitale ed in Catalogna.

Tutte le componenti del Fronte popolare erano presenti; ma ben presto quelle più borghesi (alle quali appartenevano il presidente della repubblica Azaňa ed i membri del governo Giral) cominciarono a scomparire, essendo impreparate alla situazione (e troppo moderate per adattarvisi).

Crebbe a dismisura, invece, l’influenza dei partiti e dei movimenti operai: la corrente socialista (rappresentata dal sindacato Ugt e dal partito, il Psoe) su Madrid ed in Castiglia, quella anarchica ( il sindacato Cnt e la Federaciòn anarquista ibèrica) a Valencia, in Aragona e soprattutto a Barcellona, dove la situazione ricordava la Comune di Parigi del 1871, quella comunista, che prese a lievitare nei consensi grazie a disciplina e realismo politico. Le adesioni, che arrivarono a pioggia, erano anche dovute alla diffidenza con cui erano valutati coloro che avevano scelto di non iscriversi ad un’organizzazione specifica.

A loro volta, le correnti erano spaccate sulle priorità: i “realisti” da una parte (sinistra borghese, socialisti moderati e comunisti ortodossi), tesi alla ricostruzione dello Stato e di un esercito efficiente, e consci che era preferibile differire le riforme, e con esse la rivoluzione, al fine di sopravvivere politicamente allo scontro; e gli “idealisti puri” (anarchici, socialisti marxisti e trotzkisti) dall’altra, conquistati dall’idea di un rovesciamento immediato delle istituzioni e delle strutture esistenti.

Poiché le sinistre non avevano un mediatore, dato che il disfattismo di Azaňa ne aveva logorato presto la popolarità, e che il nuovo governo di Francisco Largo Caballero, datato 4 settembre 1936, era stato ridotto all’impotenza da dispute e divergenze, questa rivalità esplose allora a Barcellona, tra il 3 ed il 6 maggio 1937, in un primo scontro intestino tra comunisti ed anarchici.

Una guerra civile nella guerra civile.

I ribelli, comunque, cominciarono ben presto a soffrire dell’impreparazione ad un lungo conflitto, anche perché inizialmente si arenarono nelle regioni rurali della Navarra, della Vecchia Castiglia, della Galizia e, in parte, dell’Aragona, senza riuscire a collegarsi con gli insorti andalusi (Granata e Siviglia).

Si rivelò da subito fondamentale l’arrivo delle unità coloniali di stanza in Marocco; ma la flotta e l’aeronautica si rivelarono fedeli alla Repubblica.

Ad ovviare all’inconveniente pensarono le due principali potenze fasciste, Italia e Germania.

A Roma si registrò agli inizi una diffusa perplessità sulle decisioni da adottare; ma la prontezza di Hitler, rapidissimo nell’inviare un gruppo di velivoli da trasporto (Ju 52), contribuì a convincere un Mussolini timoroso di vedersi scavalcato dall’alleato tedesco nella “primogenitura” ideologica dello scontro contro il campo democratico ed il bolscevismo, apparentati dalla comune discendenza dall’Illuminismo.

Colmo di ardore guerriero, quindi, acconsentì all’aiuto dei “nazionali” spagnoli; all’alba del 30 luglio di quello stesso 1936 presero il volo da Elmas (Sardegna), senza contrassegni di nazionalità, dodici SM 81 al comando del colonnello Bonomi, pilotati da aviatori politicamente fedeli, tra cui Ettore Muti, e diretti a Melilla, in Marocco.

Ma la pochezza del nostro apparato militare prese il sopravvento sulla logica del “menare le mani” del “Duce”: un velivolo si inabissò al largo di Orano, un altro si andò a sfasciare in un atterraggio d’emergenza nel Marocco francese, ed un terzo riuscì a farsi sequestrare addirittura in Algeria, dove aveva preso terra per noie meccaniche.

Il 25% di perdite, senza sparare un colpo.

L’arrivo dei primi mezzi aerei italo-tedeschi per rompere l’isolamento delle sacche andaluse presuppose quindi una prima internazionalizzazione della guerra civile. Fin da agosto, infatti, era apparso evidente che nessuno dei due schieramenti potesse vincere senza aiuti esterni; neanche i repubblicani, la cui zona cominciò subito a perdere ogni aspetto di potere regolare, tranne a Madrid, dove le apparenze erano più o meno rispettate.

Ne derivò innanzitutto una colpevole debolezza nel contenere esecuzioni sommarie e giustizia “politica” (finirono massacrati un quinto dei rappresentanti del clero, oltre che migliaia di fascisti, veri o presunti), ed inoltre una marcata debolezza delle milizie “operaie”, male armate, addestrate e disciplinate, rispetto alle truppe insorte, specie coloniali.

Le forniture di materiali militari ai repubblicani, che rimanevano comunque depositari dell’investitura elettorale, si rivelarono complicate innanzitutto dall’inesistenza di un’istituzione capace di organizzarne la distribuzione, e poi dalla mancanza di convergenze politiche con le altre democrazie.

La simpatia per i repubblicani non smosse gli USA dalla consueta politica isolazionistica, contraddetta peraltro dal sostegno industriale (petrolio e automezzi) ai rivoltosi.

L’Inghilterra, governata dai conservatori, si riteneva estranea ai valori proposti dai due schieramenti, entrambi alieni dai comportamenti di una democrazia civilizzata, e per di più perseguiva in quegli anni la politica “accomodante” di Chamberlain nei confronti di Germania ed Italia: il suo aiuto ufficiale fu quindi inesistente.

La Francia del “Front populaire”, nonostante fosse probabilmente la potenza più vicina ai repubblicani, esitò ad impegnarsi in un conflitto alle frontiere, e condivise le indecisioni anglosassoni, limitando le forniture ad un periodo così breve (fino all’8 agosto 1936) da risultare ininfluente. Entrambe le nazioni, per di più, presero a raccomandare una politica di equidistanza a cui non credette nessuno, che salvasse la faccia e che potesse essere aggirata a piacimento. Non paghe, il 21 agosto pubblicarono una dichiarazione di non intervento, finchè il 9 settembre non ottennero che Italia, Germania, Unione Sovietica e Portogallo costituissero un omonimo comitato.

Il gioco della finzione funzionò per tutti, tranne che per i suoi ideatori: Francia e Inghilterra, infatti, furono le uniche potenze a non praticare il doppio gioco, mentre gli altri (e la quasi totalità del tanto decantato “comitato di non intervento”) badarono solo ad evitare di farlo troppo apertamente


Come al solito, l’atteggiamento dell’Italia imperiale fu esagerato, e criminale.

Le due potenze fasciste, infatti, potevano godere del vantaggio della vicinanza con il Paese iberico rispetto all’URSS, che divenne presto l’unico fornitore “ufficiale” dei repubblicani, ed anche del controllo navale, instaurato il 19 aprile del 1937, sulla sua costa mediterranea. Nonostante ciò, le navi sovietiche provenienti da Odessa presero da subito ad attraversare il Mediterraneo con una certa regolarità.

Il conte Ciano, con la complicità degli alti gradi della Marina, non esitò allora a dare il via ad una guerra corsara contro questo traffico, violando le più elementari norme di comportamento internazionale. Iniziati il 10 agosto 1937, gli attacchi sottomarini portarono in breve all’affondamento di due imbarcazioni, una al largo di capo Matapan e l’altra nei pressi di Algeri: i sopravvissuti furono lasciati morire, senza assistenza, per non svelare l’identità degli attaccanti. Per errore, poi, un mercantile inglese fu colato a picco al largo di Valencia, e addirittura una salva di siluri fu lanciata contro un cacciatorpediniere britannico.

Fu uno dei momenti più bassi, in sostanza, della storia moderna del nostro Paese, e allo stesso modo delle forze armate italiche, spesso pronte ad accettare senza remore ordini illegittimi del genere. La stampa internazionale, pur priva di prove tangibili, non trovò difficoltà a mettere sotto accusa il governo fascista, che ebbe almeno la decenza di sospendere le incursioni.

Anche per questo, l’Unione Sovietica alla fine ottenne dalla Francia il permesso di transito sul territorio francese (13 marzo-metà di giugno 1938) per i convogli di armi; allo stesso modo, dalla Francia passarono i volontari filo-repubblicani delle brigate internazionali.

Secondo Hugh Thomas (H.Thomas, “Storia della guerra civile spagnola”, Torino, Einaudi, 1963, p. 660-663) i lealisti ricevettero 1.627 aerei, 931 carri armati, 928 cannoni e 14.962 veicoli, per lo più russi. I nazionali, invece, 1.040 aerei, 1.930 cannoni e 7.663 veicoli italiani, oltre a quantità imprecisate di aiuti tedeschi e di camion americani forniti dalle grandi società d’oltreoceano ad un governo che sembrava poterne difendere gli interessi.

I combattenti stranieri sarebbero stati 87.000 per i nazionali (unità regolari italo-tedesche, addestrate e ben armate) e 45.000 per i repubblicani (soprattutto membri delle brigate internazionali, volontari, ed esperti russi).

C’è da sottolineare, inoltre, che mentre i nazionali potevano godere di crediti da rimborsare (forse) alla fine della guerra, i repubblicani dovevano pagare tutte le forniture in contanti: in questo contesto si spiega il trasferimento della gran parte delle riserve auree della Banca di Spagna a Mosca.

La guerra consistette in una continua, drammatica erosione della zona repubblicana.

Nel caos più totale della fase iniziale, i franchisti riuscirono come detto a collegare gli eserciti del sud e del nord, ripulendo l’Andalusia orientale, l’Estremadura e la frontiera portoghese, mentre i repubblicani mantennero il controllo di Madrid, della Catalogna, dei Paesi Baschi.

A novembre del primo anno di guerra fu respinta un’altra offensiva su Madrid, mentre riuscì l’attacco verso Malaga, presa dagli insorti con l’appoggio del corpo di spedizione italiano nel febbraio del 1937. Una sconfitta che accelerò la costituzione di un nuovo esercito popolare repubblicano, ad opera del generale Miaja e del colonnello Rojo.

Un mese dopo, però, il “Corpo di truppe volontarie” (Ctv) mussoliniano fu sorprendentemente sconfitto da truppe lealiste, in gran parte composte da volontari antifascisti italiani, sul campo di Guadalajara: un evento più importante dal punto di vista psicologico che da quello militare, al punto da turbare i pensieri del “Duce” che sembra abbia preso anche in considerazione l’idea di un ritiro dei propri contingenti.

Ma Guadalajara, sebbene assurta a simbolo, costituì solo un episodio.

Il 26 aprile di quell’anno, infatti, la “Legione Condor” della Luftwaffe (l’aviazione tedesca) sperimentò le proposte del generale italiano Douhet, teorico del terrore dal cielo.

La cittadina di Guernica, pur priva di obiettivi militari, fu dapprima sottoposta al mitragliamento a volo radente di decine di velivoli da combattimento, che aprì la via a massicce formazioni di bombardieri, armati di ordigni dirompenti ed incendiari.

Il primo attacco terroristico dall’aria non produsse altro che le felicitazioni di Hugo von Sperrle, capo del reparto nazista, 1600 morti, e l’indignazione dell’arte.

Inoltre, nella primavera dello stesso anno, attuando una massiccia concentrazione di forze nel settore, i nazionali avviarono l’offensiva contro le provincie costiere dell’Atlantico; la zona era in gran parte difesa dal governo basco, legittimato dallo statuto di autonomia concesso il 1° ottobre 1936, e dai famosi soldati della regione - i gudarìs -, numericamente limitati ma agguerriti e supportati dalle fortificazioni allestite intorno a Bilbao.

Mentre cadeva, il 17 maggio ’37, il governo Caballero, sostituito da Negrìn (leader dei minimalisti e sostenitore di una politica di ristabilimento dell’ordine interno e dell’autorità della repubblica, oltre che di riapertura simultanea alla borghesia ed alla Chiesa attraverso l’arresto della persecuzione religiosa e la restaurazione dello Stato di diritto), si accentuò l’isolamento delle forze basche, rinforzato dal blocco navale imposto dai franchisti e dagli inglesi, ansiosi di controllare l’area di “non intervento”.

Nonostante la resistenza, Bilbao cadde il 17 giugno 1937, ed entro il 19 ottobre le forze nazionali arrivarono ad occupare Gijòn, nelle Asturie.

“La guerra di Spagna” scrisse Georges Bernanos, “è un cimitero. E’ il cimitero dei princìpi veri e falsi, delle buone intenzioni e delle malvagie. Se c’è uno spettacolo compassionevole è quello di tanti disgraziati, accovacciati da tanti mesi attorno alla marmitta, che assaggiano con la forchetta, ognuno vantando il proprio pezzo: repubblicani, democratici, fascisti, antifascisti, clericali e anticlericali, povera gente e poveri diavoli”.

Il cimitero di Bernanos riprese presto a correre, furiosamente, senza lasciare agli abitanti neanche il tempo di seppellire i loro morti; bloccata una delle poche offensive lealiste nella provincia di Teruel, nell’inverno 1937-1938, i franchisti ripresero l’avanzata il 9 marzo, in direzione del Mediterraneo: il 15 aprile 1938 arrivò a compimento con la presa del porto di Vinaroz, separando la Catalogna dal resto del territorio repubblicano.

La scomparsa di Prieto nel campo repubblicano (rimosso dalla carica di ministro della Difesa a causa dell’ostilità del Partito comunista, e delle sconfitte militari) fece di Negrìn, che saggiamente preferì appoggiarsi agli stessi comunisti, l’eroe della resistenza ad oltranza.

L’andamento del conflitto consentì comunque agli attori politici di schierarsi, senza fretta: il 1° luglio, soprattutto, una lettera pastorale collettiva dei vescovi spagnoli paragonò la rivolta ad una “crociata” moderna: il clero prese così posizione, gettando, evangelicamente, benzina sul fuoco.

Franco attendeva senza fretta la fine della guerra, ben sapendo che il tempo ne avrebbe rafforzato l’autorità: provvide, sempre, ad organizzare la vittoria, lasciando però maturare potere e prestigio personale. Lasciò quindi che i suoi soldati riposassero, anche a costo di lasciar stagnare il fronte, e di esporsi a controffensive.

Con la forza della disperazione, per l’ultima volta, i repubblicani attaccarono quindi sull’Ebro il 24 luglio del 1938, tentando di ristabilire le comunicazioni con Valencia e Madrid; ma gli insorti godevano di una netta superiorità numerica, e nonostante la sorpresa dei primi giorni, alla fine, l’assalto fallì.

Le brigate internazionali, di cui nel frattempo il comitato di non intervento aveva ottenuto il ritiro, sfilarono allora a Barcellona, in una parata d’addio.

Nelle loro file aveva combattuto il meglio della cultura europea, tra cui Togliatti, Nenni, Pacciardi, Malraux, Hemingway, Saint-Exupèry, Spender e Dos Passos.

Il Vaticano, avvertendo come prossima una conclusione del conflitto, innalzò la rappresentanza presso il governo insorto di Burgos al rango di nunziatura, sotto la guida di mons. Cicognani, mentre precedentemente era stata costituita da una semplice delegato d’affari (mons. Antoniutti, dal 7 ottobre 1937).

Mentre la voce di Dolores Ibarruri, la “Pasionaria”, echeggiava tra le macerie di Madrid e Barcellona (ispirando anche Pilar, protagonista femminile di “Per chi suona la campana” di Hemingway), incitando alla resistenza con la rabbia e il calore dell’urlo “No pasaran”, le forze franchiste ricominciarono la pressione contro un avversario morente.

Terragona cadde il 15 gennaio 1939, Barcellona fu abbandonata il 25, Gerona il 4 febbraio. La ritirata lealista proseguì in Francia, che accolse 500.000 rifugiati.

Le dimissioni di Azaňa, il 27 febbraio, consentirono il riconoscimento del nuovo governo franchista da parte della stessa Francia e dell’Inghilterra.

Il restante territorio repubblicano fu occupato entro gli ultimi giorni di marzo, dopo l’esilio di Negrìn e dei suoi ministri, e dopo la seconda guerra civile interna al campo lealista, tra comunisti ed anarchici (5-10 marzo).

Una giunta guidata dal socialista Besteiro provvide allora a negoziare un programma di resa dell’esercito repubblicano, disarmato entro il 31 marzo. Gli sconfitti, incapaci di formare un governo in esilio, sarebbero rimasti lontani dalla Spagna per 36 anni

Due Spagne si erano affrontate con violenza, al prezzo di 600.000 morti; e il mito di quella sconfitta, negli ambienti di sinistra esterni al Paese, avrebbe continuato a vivere. All’interno, invece, si è preferito finora evitare il tema, tralasciando il giudizio di colpe e colpevoli, per non creare tensioni.

Converrebbe allora riandare con la mente a Federico Garcìa Lorca, che all’alba di quella guerra trovò la morte, la notte tra il 18 ed il 19 agosto 1936, per mano di un ex-cedista, ed ex-tipografo, che rispondeva al nome di Ruiz Alonso, perché aveva fatto “più danni con i suoi libri che gli altri con le rivoltelle”.

In risposta a quest’odio irriducibile, ed irrazionale, brillano di umana passione le sue parole, rivelate ad Enzo Biagi molti anni dopo dalla voce della “Pasionaria” e regalate alla madre: “Io sono del partito dei poveri”.


 

 

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