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N. 3 -
Marzo 2008
(XXXIV)
STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA
La guerra civile (1936-1939) - Parte IV
di Cristiano Zepponi
I
generali
insorti
il
17
ed
il
18
luglio
del
1936
si
ispirarono
direttamente
alla
ricca
tradizione
dei
pronunciamientos
spagnoli,
dal
secolo
precedente
fino
a
Primo
de
Rivera,
recuperando
così
i
“classici”
del
genere.
Si
presentarono
quindi
come
paladini
dell’ordine
repubblicano
minacciato
dagli
estremismi
del
Fronte
popolare
(Franco
concluse
il
proclama
del
18
luglio
sbandierando
nientemeno
che
le
parole
d’ordine
di
“Fraternità,
Libertà,
Uguaglianza”),
ed
in
questa
veste
si
aspettavano
una
resistenza
poco
più
che
simbolica.
Presto,
si
scoprirono
ingannati.
I
responsabili
repubblicani,
come
detto,
attendevano
come
imminente
una
rivolta,
ed
erano
stavolta
preparati
per
contrastarla;
ma
prevedevano
un
golpe
localizzato,
regionale
e
limitato,
e
non
un
attacco
così
esteso
ed
eterogeneo.
I
congiurati
tentarono
da
subito,
però,
di
unificare
il
comando
militare,
costituendo
a
Burgos,
il
23
luglio,
una
Giunta
di
difesa
nazionale;
vi
prendevano
parte
il
gen.
Miguel
Cabanellas,
repubblicano
e
massone
inviso
alla
destra,
in
qualità
di
presidente,
i
gen.
Saliquet
e
Ponte,
monarchici,
oltre
ai
gen.
Mola
e
Dàvila
ed
ai
colonnelli
Montaner
e
Morrera,
apparentemente
apolitici.
A
questi
si
aggiunsero
Franco
(il
3
agosto)
ed
anche
i
gen.
Queipo
de
Llano
e
Orgaz,
rispettivamente
repubblicano
e
monarchico,
il
17
settembre.
Una
notevole
diffidenza
separava
i
militari
di
professione
dai
falangisti
(corrente
fascista
inizialmente
minoritaria,
antimonarchica,
anticapitalista
e
laicizzante,
aureolata
dal
sacrificio
del
capo
del
movimento,
Josè
Antonio
Primo
de
Rivera,
fucilato
dai
repubblicani
il
20
novembre
del
1936),
dai
monarchici
“alfonsini”
(influente
oligarchia
terriera,
bancaria
e
industriale
finanziatrice
della
rivolta,
aspirante
ad
una
monarchia
costituzionale
ragionevolmente
liberale)
e
dalle
loro
scarse
milizie
armate;
a
questo
sprezzante
trattamento
si
sottraevano
solo
i
carlisti
(movimento
diffuso
in
alcune
regioni
rurali
del
nord,
favorevole
ad
un
ritorno
alla
concezione
monarchica
antiliberale,
assolutista
e
temperato
dalle
franchigie
comunali
e
provinciali
abolite
nell’ottocento),
le
cui
unità
armate,
i
Requetès,
formate
dai
contadini
di
Navarra
e
guidate
da
un
clero
integralista,
avevano
fama
di
salda
disciplina
e
fanatica
dedizione.
La
burocrazia
ed
il
funzionamento
politico
della
rivolta
furono
invece
appannaggio
degli
ex-cedisti,
che
coprivano
un
arco
politico
vastissimo
dopo
la
disfatta
di
Gil
Robles
e
che
godevano
delle
competenze
e
delle
ideologie
necessarie
al
ruolo.
Il
pronunciamiento
non
sapeva
in
che
direzione
procedere,
tirato
com’era
da
tanti
punti
diversi,
da
rivalità,
divergenze
e
divisioni,
nello
stesso
apparato
militare.
A
complicare
la
situazione,
due
giorni
dopo
il
golpe,
il
gen.
Sanjurjo
morì
in
un
incidente
aereo
in
Portogallo,
indebolendo
la
parte
“alfonsina”
proprio
mentre
alcuni
altri
insorti,
in
particolare
i
gen.
Mola
e
Queipo
de
Llano
(che
nel
suo
“feudo”
di
Siviglia
si
atteggiava
a
capo
del
governo),
si
rivelavano
decisamente
ostili
alla
soluzione
monarchica.
La
Giunta
si
rivelò
quindi
incapace
di
mediare,
ed
imporre
la
propria
autorità:
anzi,
a
stento
riuscì
ad
eleggere
un
coordinatore,
il
26
luglio,
nella
persona
del
gen.
Cabanellas,
il
più
vecchio
del
gruppo.
Ma
la
sua
influenza
politica
non
era
marcata
come
voluto
dai
sostenitori,
e
richiesto
dagli
eventi;
la
lotta
alla
sua
successione,
quindi,
prese
il
via
contemporaneamente
alla
sua
nomina.
Fuori
gioco
Goded,
con
il
suo
patrimonio
di
simpatie
tra
la
borghesia
conservatrice
rinchiuso
nella
prigione
di
Barcellona,
indifferente
Mola,
troppo
preso
dalla
guerra
per
poter
manifestare
ambizioni
politiche,
rimaneva
un
solo
candidato:
il
discreto
generale
Franco.
Il
21
settembre
la
Giunta
arrivò
così
a
nominarlo
generale
in
capo,
e
poi
“capo
di
governo
dello
Stato
spagnolo”;
qualcuno,
con
acume,
protestò
per
l’indeterminatezza
del
mandato.
Nella
prima
ordinanza,
pubblicata
il
1°
ottobre
del
1936,
il
militare
si
autoproclamò
comunque
“capo
di
stato”:
quasi
per
caso,allora,
nacque
il
regime
franchista.
La
Chiesa,
come
di
consueto,
fornì
le
basi
ideologiche
ad
un
regime
che
ne
aveva
disperato
bisogno,
e
che
rischiava
di
perdere
il
sostegno
delle
masse
conservatrici.
Ma
un
appoggio
diretto
dovette
attendere,
soprattutto
perché
il
governo
basco
(a
maggioranza
democristiana)
resisteva
agli
insorti;
per
quasi
due
anni
la
diplomazia
papale
adottò
quindi
un
atteggiamento
dilatorio,
che
obbligò
Franco
a
moltiplicare
le
concessioni
(sospensione
delle
leggi
sull’insegnamento,
sul
matrimonio
civile
e
sul
divorzio)
fino
ad
un’evidente
presa
di
posizione
dell’episcopato.
Il
contenimento
delle
velleità
politiche
degli
alleati
fu
raggiunto
con
il
decreto
di
unificazione
del
19
aprile
1937:
si
formò
quindi
un
partito
unico
ed
eterogeneo
tra
tutte
le
componenti
conservatrici,
fuse
(ed
annullate)
tra
loro
sotto
la
mediazione
del
Caudillo
(titolo
ereditato
dai
capi
militari
del
Medioevo,
per
sottintendere
il
compimento
del
destino
storico
della
nazione).
Questo
prese
il
nome
di
Falange
espaňola
tradicionalista
y de
las
juntas
de
offensiva
nacional-sindacalista
(“Fet
y de
las
Jons”):
un
appellativo
complesso,
che
tradiva
una
sostanziale
carenza
di
unità
ideologica
e di
solide
basi
fasciste.
Tra
i
repubblicani
si
viveva
tutt’altro
clima.
Nonostante
la
passione
degli
inizi,
infatti,
le
difficoltà
materiali
e
morali
presero
presto
a
crescere
a
dismisura.
Al
momento
del
golpe
si
trovavano
nelle
mani
del
governo
legittimo
35
provincie
su
50:
le
più
popolate,
le
più
industrializzate,
ma
anche
le
più
deboli
dal
punto
di
vista
agricolo.
La
produzione
delle
campagne,
momentaneamente
interrotta
dalla
collettivizzazione
spontanea
delle
terre,
impose
quindi
la
necessità
di
un
rigido
razionamento,
in
particolare
nella
capitale
ed
in
Catalogna.
Tutte
le
componenti
del
Fronte
popolare
erano
presenti;
ma
ben
presto
quelle
più
borghesi
(alle
quali
appartenevano
il
presidente
della
repubblica
Azaňa
ed i
membri
del
governo
Giral)
cominciarono
a
scomparire,
essendo
impreparate
alla
situazione
(e
troppo
moderate
per
adattarvisi).
Crebbe
a
dismisura,
invece,
l’influenza
dei
partiti
e
dei
movimenti
operai:
la
corrente
socialista
(rappresentata
dal
sindacato
Ugt
e
dal
partito,
il
Psoe)
su
Madrid
ed
in
Castiglia,
quella
anarchica
( il
sindacato
Cnt
e la
Federaciòn
anarquista
ibèrica)
a
Valencia,
in
Aragona
e
soprattutto
a
Barcellona,
dove
la
situazione
ricordava
la
Comune
di
Parigi
del
1871,
quella
comunista,
che
prese
a
lievitare
nei
consensi
grazie
a
disciplina
e
realismo
politico.
Le
adesioni,
che
arrivarono
a
pioggia,
erano
anche
dovute
alla
diffidenza
con
cui
erano
valutati
coloro
che
avevano
scelto
di
non
iscriversi
ad
un’organizzazione
specifica.
A
loro
volta,
le
correnti
erano
spaccate
sulle
priorità:
i
“realisti”
da
una
parte
(sinistra
borghese,
socialisti
moderati
e
comunisti
ortodossi),
tesi
alla
ricostruzione
dello
Stato
e di
un
esercito
efficiente,
e
consci
che
era
preferibile
differire
le
riforme,
e
con
esse
la
rivoluzione,
al
fine
di
sopravvivere
politicamente
allo
scontro;
e
gli
“idealisti
puri”
(anarchici,
socialisti
marxisti
e
trotzkisti)
dall’altra,
conquistati
dall’idea
di
un
rovesciamento
immediato
delle
istituzioni
e
delle
strutture
esistenti.
Poiché
le
sinistre
non
avevano
un
mediatore,
dato
che
il
disfattismo
di
Azaňa
ne
aveva
logorato
presto
la
popolarità,
e
che
il
nuovo
governo
di
Francisco
Largo
Caballero,
datato
4
settembre
1936,
era
stato
ridotto
all’impotenza
da
dispute
e
divergenze,
questa
rivalità
esplose
allora
a
Barcellona,
tra
il 3
ed
il 6
maggio
1937,
in
un
primo
scontro
intestino
tra
comunisti
ed
anarchici.
Una
guerra
civile
nella
guerra
civile.
I
ribelli,
comunque,
cominciarono
ben
presto
a
soffrire
dell’impreparazione
ad
un
lungo
conflitto,
anche
perché
inizialmente
si
arenarono
nelle
regioni
rurali
della
Navarra,
della
Vecchia
Castiglia,
della
Galizia
e,
in
parte,
dell’Aragona,
senza
riuscire
a
collegarsi
con
gli
insorti
andalusi
(Granata
e
Siviglia).
Si
rivelò
da
subito
fondamentale
l’arrivo
delle
unità
coloniali
di
stanza
in
Marocco;
ma
la
flotta
e
l’aeronautica
si
rivelarono
fedeli
alla
Repubblica.
Ad
ovviare
all’inconveniente
pensarono
le
due
principali
potenze
fasciste,
Italia
e
Germania.
A
Roma
si
registrò
agli
inizi
una
diffusa
perplessità
sulle
decisioni
da
adottare;
ma
la
prontezza
di
Hitler,
rapidissimo
nell’inviare
un
gruppo
di
velivoli
da
trasporto
(Ju
52),
contribuì
a
convincere
un
Mussolini
timoroso
di
vedersi
scavalcato
dall’alleato
tedesco
nella
“primogenitura”
ideologica
dello
scontro
contro
il
campo
democratico
ed
il
bolscevismo,
apparentati
dalla
comune
discendenza
dall’Illuminismo.
Colmo
di
ardore
guerriero,
quindi,
acconsentì
all’aiuto
dei
“nazionali”
spagnoli;
all’alba
del
30
luglio
di
quello
stesso
1936
presero
il
volo
da
Elmas
(Sardegna),
senza
contrassegni
di
nazionalità,
dodici
SM
81
al
comando
del
colonnello
Bonomi,
pilotati
da
aviatori
politicamente
fedeli,
tra
cui
Ettore
Muti,
e
diretti
a
Melilla,
in
Marocco.
Ma
la
pochezza
del
nostro
apparato
militare
prese
il
sopravvento
sulla
logica
del
“menare
le
mani”
del
“Duce”:
un
velivolo
si
inabissò
al
largo
di
Orano,
un
altro
si
andò
a
sfasciare
in
un
atterraggio
d’emergenza
nel
Marocco
francese,
ed
un
terzo
riuscì
a
farsi
sequestrare
addirittura
in
Algeria,
dove
aveva
preso
terra
per
noie
meccaniche.
Il
25%
di
perdite,
senza
sparare
un
colpo.
L’arrivo
dei
primi
mezzi
aerei
italo-tedeschi
per
rompere
l’isolamento
delle
sacche
andaluse
presuppose
quindi
una
prima
internazionalizzazione
della
guerra
civile.
Fin
da
agosto,
infatti,
era
apparso
evidente
che
nessuno
dei
due
schieramenti
potesse
vincere
senza
aiuti
esterni;
neanche
i
repubblicani,
la
cui
zona
cominciò
subito
a
perdere
ogni
aspetto
di
potere
regolare,
tranne
a
Madrid,
dove
le
apparenze
erano
più
o
meno
rispettate.
Ne
derivò
innanzitutto
una
colpevole
debolezza
nel
contenere
esecuzioni
sommarie
e
giustizia
“politica”
(finirono
massacrati
un
quinto
dei
rappresentanti
del
clero,
oltre
che
migliaia
di
fascisti,
veri
o
presunti),
ed
inoltre
una
marcata
debolezza
delle
milizie
“operaie”,
male
armate,
addestrate
e
disciplinate,
rispetto
alle
truppe
insorte,
specie
coloniali.
Le
forniture
di
materiali
militari
ai
repubblicani,
che
rimanevano
comunque
depositari
dell’investitura
elettorale,
si
rivelarono
complicate
innanzitutto
dall’inesistenza
di
un’istituzione
capace
di
organizzarne
la
distribuzione,
e
poi
dalla
mancanza
di
convergenze
politiche
con
le
altre
democrazie.
La
simpatia
per
i
repubblicani
non
smosse
gli
USA
dalla
consueta
politica
isolazionistica,
contraddetta
peraltro
dal
sostegno
industriale
(petrolio
e
automezzi)
ai
rivoltosi.
L’Inghilterra,
governata
dai
conservatori,
si
riteneva
estranea
ai
valori
proposti
dai
due
schieramenti,
entrambi
alieni
dai
comportamenti
di
una
democrazia
civilizzata,
e
per
di
più
perseguiva
in
quegli
anni
la
politica
“accomodante”
di
Chamberlain
nei
confronti
di
Germania
ed
Italia:
il
suo
aiuto
ufficiale
fu
quindi
inesistente.
La
Francia
del
“Front
populaire”,
nonostante
fosse
probabilmente
la
potenza
più
vicina
ai
repubblicani,
esitò
ad
impegnarsi
in
un
conflitto
alle
frontiere,
e
condivise
le
indecisioni
anglosassoni,
limitando
le
forniture
ad
un
periodo
così
breve
(fino
all’8
agosto
1936)
da
risultare
ininfluente.
Entrambe
le
nazioni,
per
di
più,
presero
a
raccomandare
una
politica
di
equidistanza
a
cui
non
credette
nessuno,
che
salvasse
la
faccia
e
che
potesse
essere
aggirata
a
piacimento.
Non
paghe,
il
21
agosto
pubblicarono
una
dichiarazione
di
non
intervento,
finchè
il 9
settembre
non
ottennero
che
Italia,
Germania,
Unione
Sovietica
e
Portogallo
costituissero
un
omonimo
comitato.
Il
gioco
della
finzione
funzionò
per
tutti,
tranne
che
per
i
suoi
ideatori:
Francia
e
Inghilterra,
infatti,
furono
le
uniche
potenze
a
non
praticare
il
doppio
gioco,
mentre
gli
altri
(e
la
quasi
totalità
del
tanto
decantato
“comitato
di
non
intervento”)
badarono
solo
ad
evitare
di
farlo
troppo
apertamente
Come
al
solito,
l’atteggiamento
dell’Italia
imperiale
fu
esagerato,
e
criminale.
Le
due
potenze
fasciste,
infatti,
potevano
godere
del
vantaggio
della
vicinanza
con
il
Paese
iberico
rispetto
all’URSS,
che
divenne
presto
l’unico
fornitore
“ufficiale”
dei
repubblicani,
ed
anche
del
controllo
navale,
instaurato
il
19
aprile
del
1937,
sulla
sua
costa
mediterranea.
Nonostante
ciò,
le
navi
sovietiche
provenienti
da
Odessa
presero
da
subito
ad
attraversare
il
Mediterraneo
con
una
certa
regolarità.
Il
conte
Ciano,
con
la
complicità
degli
alti
gradi
della
Marina,
non
esitò
allora
a
dare
il
via
ad
una
guerra
corsara
contro
questo
traffico,
violando
le
più
elementari
norme
di
comportamento
internazionale.
Iniziati
il
10
agosto
1937,
gli
attacchi
sottomarini
portarono
in
breve
all’affondamento
di
due
imbarcazioni,
una
al
largo
di
capo
Matapan
e
l’altra
nei
pressi
di
Algeri:
i
sopravvissuti
furono
lasciati
morire,
senza
assistenza,
per
non
svelare
l’identità
degli
attaccanti.
Per
errore,
poi,
un
mercantile
inglese
fu
colato
a
picco
al
largo
di
Valencia,
e
addirittura
una
salva
di
siluri
fu
lanciata
contro
un
cacciatorpediniere
britannico.
Fu
uno
dei
momenti
più
bassi,
in
sostanza,
della
storia
moderna
del
nostro
Paese,
e
allo
stesso
modo
delle
forze
armate
italiche,
spesso
pronte
ad
accettare
senza
remore
ordini
illegittimi
del
genere.
La
stampa
internazionale,
pur
priva
di
prove
tangibili,
non
trovò
difficoltà
a
mettere
sotto
accusa
il
governo
fascista,
che
ebbe
almeno
la
decenza
di
sospendere
le
incursioni.
Anche
per
questo,
l’Unione
Sovietica
alla
fine
ottenne
dalla
Francia
il
permesso
di
transito
sul
territorio
francese
(13
marzo-metà
di
giugno
1938)
per
i
convogli
di
armi;
allo
stesso
modo,
dalla
Francia
passarono
i
volontari
filo-repubblicani
delle
brigate
internazionali.
Secondo
Hugh
Thomas
(H.Thomas,
“Storia
della
guerra
civile
spagnola”,
Torino,
Einaudi,
1963,
p.
660-663)
i
lealisti
ricevettero
1.627
aerei,
931
carri
armati,
928
cannoni
e
14.962
veicoli,
per
lo
più
russi.
I
nazionali,
invece,
1.040
aerei,
1.930
cannoni
e
7.663
veicoli
italiani,
oltre
a
quantità
imprecisate
di
aiuti
tedeschi
e di
camion
americani
forniti
dalle
grandi
società
d’oltreoceano
ad
un
governo
che
sembrava
poterne
difendere
gli
interessi.
I
combattenti
stranieri
sarebbero
stati
87.000
per
i
nazionali
(unità
regolari
italo-tedesche,
addestrate
e
ben
armate)
e
45.000
per
i
repubblicani
(soprattutto
membri
delle
brigate
internazionali,
volontari,
ed
esperti
russi).
C’è
da
sottolineare,
inoltre,
che
mentre
i
nazionali
potevano
godere
di
crediti
da
rimborsare
(forse)
alla
fine
della
guerra,
i
repubblicani
dovevano
pagare
tutte
le
forniture
in
contanti:
in
questo
contesto
si
spiega
il
trasferimento
della
gran
parte
delle
riserve
auree
della
Banca
di
Spagna
a
Mosca.
La
guerra
consistette
in
una
continua,
drammatica
erosione
della
zona
repubblicana.
Nel
caos
più
totale
della
fase
iniziale,
i
franchisti
riuscirono
come
detto
a
collegare
gli
eserciti
del
sud
e
del
nord,
ripulendo
l’Andalusia
orientale,
l’Estremadura
e la
frontiera
portoghese,
mentre
i
repubblicani
mantennero
il
controllo
di
Madrid,
della
Catalogna,
dei
Paesi
Baschi.
A
novembre
del
primo
anno
di
guerra
fu
respinta
un’altra
offensiva
su
Madrid,
mentre
riuscì
l’attacco
verso
Malaga,
presa
dagli
insorti
con
l’appoggio
del
corpo
di
spedizione
italiano
nel
febbraio
del
1937.
Una
sconfitta
che
accelerò
la
costituzione
di
un
nuovo
esercito
popolare
repubblicano,
ad
opera
del
generale
Miaja
e
del
colonnello
Rojo.
Un
mese
dopo,
però,
il
“Corpo
di
truppe
volontarie”
(Ctv)
mussoliniano
fu
sorprendentemente
sconfitto
da
truppe
lealiste,
in
gran
parte
composte
da
volontari
antifascisti
italiani,
sul
campo
di
Guadalajara:
un
evento
più
importante
dal
punto
di
vista
psicologico
che
da
quello
militare,
al
punto
da
turbare
i
pensieri
del
“Duce”
che
sembra
abbia
preso
anche
in
considerazione
l’idea
di
un
ritiro
dei
propri
contingenti.
Ma
Guadalajara,
sebbene
assurta
a
simbolo,
costituì
solo
un
episodio.
Il
26
aprile
di
quell’anno,
infatti,
la
“Legione
Condor”
della
Luftwaffe
(l’aviazione
tedesca)
sperimentò
le
proposte
del
generale
italiano
Douhet,
teorico
del
terrore
dal
cielo.
La
cittadina
di
Guernica,
pur
priva
di
obiettivi
militari,
fu
dapprima
sottoposta
al
mitragliamento
a
volo
radente
di
decine
di
velivoli
da
combattimento,
che
aprì
la
via
a
massicce
formazioni
di
bombardieri,
armati
di
ordigni
dirompenti
ed
incendiari.
Il
primo
attacco
terroristico
dall’aria
non
produsse
altro
che
le
felicitazioni
di
Hugo
von
Sperrle,
capo
del
reparto
nazista,
1600
morti,
e
l’indignazione
dell’arte.
Inoltre,
nella
primavera
dello
stesso
anno,
attuando
una
massiccia
concentrazione
di
forze
nel
settore,
i
nazionali
avviarono
l’offensiva
contro
le
provincie
costiere
dell’Atlantico;
la
zona
era
in
gran
parte
difesa
dal
governo
basco,
legittimato
dallo
statuto
di
autonomia
concesso
il
1°
ottobre
1936,
e
dai
famosi
soldati
della
regione
- i
gudarìs
-,
numericamente
limitati
ma
agguerriti
e
supportati
dalle
fortificazioni
allestite
intorno
a
Bilbao.
Mentre
cadeva,
il
17
maggio
’37,
il
governo
Caballero,
sostituito
da
Negrìn
(leader
dei
minimalisti
e
sostenitore
di
una
politica
di
ristabilimento
dell’ordine
interno
e
dell’autorità
della
repubblica,
oltre
che
di
riapertura
simultanea
alla
borghesia
ed
alla
Chiesa
attraverso
l’arresto
della
persecuzione
religiosa
e la
restaurazione
dello
Stato
di
diritto),
si
accentuò
l’isolamento
delle
forze
basche,
rinforzato
dal
blocco
navale
imposto
dai
franchisti
e
dagli
inglesi,
ansiosi
di
controllare
l’area
di
“non
intervento”.
Nonostante
la
resistenza,
Bilbao
cadde
il
17
giugno
1937,
ed
entro
il
19
ottobre
le
forze
nazionali
arrivarono
ad
occupare
Gijòn,
nelle
Asturie.
“La
guerra
di
Spagna”
scrisse
Georges
Bernanos,
“è
un
cimitero.
E’
il
cimitero
dei
princìpi
veri
e
falsi,
delle
buone
intenzioni
e
delle
malvagie.
Se
c’è
uno
spettacolo
compassionevole
è
quello
di
tanti
disgraziati,
accovacciati
da
tanti
mesi
attorno
alla
marmitta,
che
assaggiano
con
la
forchetta,
ognuno
vantando
il
proprio
pezzo:
repubblicani,
democratici,
fascisti,
antifascisti,
clericali
e
anticlericali,
povera
gente
e
poveri
diavoli”.
Il
cimitero
di
Bernanos
riprese
presto
a
correre,
furiosamente,
senza
lasciare
agli
abitanti
neanche
il
tempo
di
seppellire
i
loro
morti;
bloccata
una
delle
poche
offensive
lealiste
nella
provincia
di
Teruel,
nell’inverno
1937-1938,
i
franchisti
ripresero
l’avanzata
il 9
marzo,
in
direzione
del
Mediterraneo:
il
15
aprile
1938
arrivò
a
compimento
con
la
presa
del
porto
di
Vinaroz,
separando
la
Catalogna
dal
resto
del
territorio
repubblicano.
La
scomparsa
di
Prieto
nel
campo
repubblicano
(rimosso
dalla
carica
di
ministro
della
Difesa
a
causa
dell’ostilità
del
Partito
comunista,
e
delle
sconfitte
militari)
fece
di
Negrìn,
che
saggiamente
preferì
appoggiarsi
agli
stessi
comunisti,
l’eroe
della
resistenza
ad
oltranza.
L’andamento
del
conflitto
consentì
comunque
agli
attori
politici
di
schierarsi,
senza
fretta:
il
1°
luglio,
soprattutto,
una
lettera
pastorale
collettiva
dei
vescovi
spagnoli
paragonò
la
rivolta
ad
una
“crociata”
moderna:
il
clero
prese
così
posizione,
gettando,
evangelicamente,
benzina
sul
fuoco.
Franco
attendeva
senza
fretta
la
fine
della
guerra,
ben
sapendo
che
il
tempo
ne
avrebbe
rafforzato
l’autorità:
provvide,
sempre,
ad
organizzare
la
vittoria,
lasciando
però
maturare
potere
e
prestigio
personale.
Lasciò
quindi
che
i
suoi
soldati
riposassero,
anche
a
costo
di
lasciar
stagnare
il
fronte,
e di
esporsi
a
controffensive.
Con
la
forza
della
disperazione,
per
l’ultima
volta,
i
repubblicani
attaccarono
quindi
sull’Ebro
il
24
luglio
del
1938,
tentando
di
ristabilire
le
comunicazioni
con
Valencia
e
Madrid;
ma
gli
insorti
godevano
di
una
netta
superiorità
numerica,
e
nonostante
la
sorpresa
dei
primi
giorni,
alla
fine,
l’assalto
fallì.
Le
brigate
internazionali,
di
cui
nel
frattempo
il
comitato
di
non
intervento
aveva
ottenuto
il
ritiro,
sfilarono
allora
a
Barcellona,
in
una
parata
d’addio.
Nelle
loro
file
aveva
combattuto
il
meglio
della
cultura
europea,
tra
cui
Togliatti,
Nenni,
Pacciardi,
Malraux,
Hemingway,
Saint-Exupèry,
Spender
e
Dos
Passos.
Il
Vaticano,
avvertendo
come
prossima
una
conclusione
del
conflitto,
innalzò
la
rappresentanza
presso
il
governo
insorto
di
Burgos
al
rango
di
nunziatura,
sotto
la
guida
di
mons.
Cicognani,
mentre
precedentemente
era
stata
costituita
da
una
semplice
delegato
d’affari
(mons.
Antoniutti,
dal
7
ottobre
1937).
Mentre
la
voce
di
Dolores
Ibarruri,
la
“Pasionaria”,
echeggiava
tra
le
macerie
di
Madrid
e
Barcellona
(ispirando
anche
Pilar,
protagonista
femminile
di
“Per
chi
suona
la
campana”
di
Hemingway),
incitando
alla
resistenza
con
la
rabbia
e il
calore
dell’urlo
“No
pasaran”,
le
forze
franchiste
ricominciarono
la
pressione
contro
un
avversario
morente.
Terragona
cadde
il
15
gennaio
1939,
Barcellona
fu
abbandonata
il
25,
Gerona
il 4
febbraio.
La
ritirata
lealista
proseguì
in
Francia,
che
accolse
500.000
rifugiati.
Le
dimissioni
di
Azaňa,
il
27
febbraio,
consentirono
il
riconoscimento
del
nuovo
governo
franchista
da
parte
della
stessa
Francia
e
dell’Inghilterra.
Il
restante
territorio
repubblicano
fu
occupato
entro
gli
ultimi
giorni
di
marzo,
dopo
l’esilio
di
Negrìn
e
dei
suoi
ministri,
e
dopo
la
seconda
guerra
civile
interna
al
campo
lealista,
tra
comunisti
ed
anarchici
(5-10
marzo).
Una
giunta
guidata
dal
socialista
Besteiro
provvide
allora
a
negoziare
un
programma
di
resa
dell’esercito
repubblicano,
disarmato
entro
il
31
marzo.
Gli
sconfitti,
incapaci
di
formare
un
governo
in
esilio,
sarebbero
rimasti
lontani
dalla
Spagna
per
36
anni
Due
Spagne
si
erano
affrontate
con
violenza,
al
prezzo
di
600.000
morti;
e il
mito
di
quella
sconfitta,
negli
ambienti
di
sinistra
esterni
al
Paese,
avrebbe
continuato
a
vivere.
All’interno,
invece,
si è
preferito
finora
evitare
il
tema,
tralasciando
il
giudizio
di
colpe
e
colpevoli,
per
non
creare
tensioni.
Converrebbe
allora
riandare
con
la
mente
a
Federico
Garcìa
Lorca,
che
all’alba
di
quella
guerra
trovò
la
morte,
la
notte
tra
il
18
ed
il
19
agosto
1936,
per
mano
di
un
ex-cedista,
ed
ex-tipografo,
che
rispondeva
al
nome
di
Ruiz
Alonso,
perché
aveva
fatto
“più
danni
con
i
suoi
libri
che
gli
altri
con
le
rivoltelle”.
In
risposta
a
quest’odio
irriducibile,
ed
irrazionale,
brillano
di
umana
passione
le
sue
parole,
rivelate
ad
Enzo
Biagi
molti
anni
dopo
dalla
voce
della
“Pasionaria”
e
regalate
alla
madre:
“Io
sono
del
partito
dei
poveri”.
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