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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA

L'uomo della provvidenza - Parte II
di Cristiano Zepponi

 

La svolta autoritaria imboccata con il colpo di stato del gen. Miguel Primo de Rivera ebbe molti padri, e varie cause. Ma sicuramente, oltre a quelli precedentemente elencati (“Storia della Spagna contemporanea, parte I, “tra pronunciamientos e parlamentarismo truccato, 1860-1923”), un posto d’onore spettò all’esercito, dalle cui fila arrivarono caldi appoggi e attivo sostegno.

Il progetto di una commissione d’inchiesta sulle responsabilità delle sconfitte marocchine fece seguito alla disfatta di Annual, nel luglio 1921, ad opera delle forze di Abd el-Krim: il RIF (l’esercito d’occupazione spagnolo), guidato dal gen. Silvestre, dopo aver perso il proprio comandante finì per essere decimato durante una disastrosa ritirata, lasciando sul campo ca. 15000 uomini.

Per quanto necessaria, l’imminenza della formazione della Commissione costituì la classica goccia in un vaso già colmo, e agitato dalla continua opposizione degli ufficiali, dimentichi della loro incompetenza, al governo legittimo (le Cortes), reo prima di non aver fornito adeguati mezzi materiali e umani, poi di aver timidamente proposto il ritiro del RIF, ed infine di aver sventolato la volontà di perseguire i colpevoli di quella umiliazione nazionale.

Lo scontro tra il potere civile e militare portò, nell’ottobre del 1922, alle dimissioni del gen.Anido ed alla sua fuga da Barcellona, prima di inasprirsi ulteriormente quando sembrò che il gabinetto Prieto volesse effettivamente rimpatriare il RIF, dopo essersi “abbassato” a pagare il riscatto richiesto per la liberazione dei prigionieri di Annual ed aver dato prova di grande remissività nei confronti del caporale Barroso, capo di un ammutinamento a Malaga in occasione della partenza dei rinforzi per il Marocco.

Il re contribuì con zelo ad affossare il regime parlamentare, atteggiandosi da sovrano martire, prigioniero di politici corrotti, e mostrandosi sempre più prodigo nei confronti del corpo militare, e dichiaratamente ostile alla classe politica, fino ad affermare pubblicamente che questa “non è all’altezza dei propri doveri” (maggio 1921); tutto questo mentre sull’Europa intera soffiava il vento dell’autoritarismo: in Italia (ottobre 1922), in Grecia (dopo la disfatta di Smirne contro i turchi), in Polonia, nei Balcani.

Se anche re Alfonso XIII arrivò a pensare di prendere direttamente l’iniziativa, si dovette presto rendere conto che un intero atollo di soggetti politici era disposto a risparmiargli l’incombenza: il mondo imprenditoriale e le classi medie catalane (frustrati dall’allontanamento di Anido), la Chiesa (preoccupata per le velleità riformiste del governo) innanzitutto; e poi la nuova associazione Acciòn ciudadana (“Azione cittadina”), che proclamava la necessità di uno “Stato forte”, mentre alcuni membri del clero contribuivano a rasserenare gli animi paragonando la guerra in Marocco nientemeno che ad una improbabile “Santa crociata”, meritoria di ogni sacrificio, oltre naturalmente all’esercito.

L’uomo della Provvidenza fu come detto Miguel Primo de Rivera, nominato di recente capitano-generale della regione militare di Catalogna e indirizzato sulla strada del golpe dal fallimento nel tentativo di farsi eleggere come senatore a Cadice nel giugno 1923. Teoricamente liberale, dal carattere anticonformista e poco amato dai colleghi dell’esercito (soprattutto delle armi “tecniche”, come artiglieria, genio ed aviazione), il generale seppe però conquistarsi le simpatie (ed il sostegno finanziario) dei dirigenti catalani, degli autonomisti, degli imprenditori e della Lliga.

Si dedicò quindi, per tutta l’estate del 1923, ad ordire un colpo di stato complicato dal rifiuto di uno dei generali più conosciuti nel Paese (il gen.Weyler) ma comunque spalleggiato da buona parte dell’elìte militare ( i gen. Sanjurjo, Barrera, Lòpez de Ochoa) e solidamente legato ad una data fondamentale: quella del 2 ottobre 1923, giorno d’apertura della temuta Commissione d’inchiesta (che sembrava dovesse far cadere molte teste, tra le quali, si disse, quella del re).

Il manifesto con cui Primo de Rivera compì l’atto irreversibile, il 13 settembre di quell’anno, aveva la forma del classico “pronunciamiento”: vi si frammischiavano cioè il desiderio di “salvare il Paese dai politici di professione” e l’immediato scioglimento di Cortes e governo. Seguirono però giorni agitati, dato che guardia civile, la marina, le guarnigioni di Baleari, Valencia e Madrid sembravano restìe ad intervenire, ed i rivoltosi parvero isolati. Ma il governo naufragò nell’indecisione, e l’appoggio del re, che rifiutò di riunire le Cortes come richiesto da Prieto (quante somiglianze con il caso italiano!) accelerò il processo disgregativo del regime parlamentare. Il governo, umiliato e sconfitto, presentò le dimissioni due giorni dopo, il 15. Lo stesso giorno Alfonso XIII affidò a Miguel Primo de Rivera il compito di formarne un altro, che, in virtù di un decreto reale datato 17 settembre, assumerà la forma di un “direttorio” militare presieduto dal generale, “ministro unico”, e formato da soli generali di brigata, mentre nel Paese venivano rapidamente sospese le garanzie costituzionali, diffuso in tutto il territorio lo status di “stato di guerra” e revocata l’autorità dei governatori civili.

“Ci proponiamo di dotare il Paese di un Parlamento in cui l’opinione pubblica, finora nascosta dai politici di professione, sarà rappresentata senza intrighi né inganni” affermò Primo de Rivera dopo l’insediamento; ma, più semplicemente, si procedette allo smantellamento delle istituzioni, eccezion fatta per monarchia e tribunali. L’amministrazione civile si trovò quindi ad essere sottoposta ad una rigida tutela militare, anche a livello di circoscrizioni: i consigli municipali furono sostituiti da sindaci nominati, e l’esercizio di cariche politiche in passato fu perseguito con il divieto di qualunque funzione pubblica (dopo la soppressione dell’immunità parlamentare).

Il generale esercitò il potere da solo, emanando un fiume di decreti ornati dalla firma solo formale del re, contando sull’appoggio di una larga parte della popolazione: liberali, intellettuali, contadini, membri delle classi medie, imprenditori, Chiesa e cattolici (attratti dall’attenzione del nuovo regime per il Vaticano, oltre che dalla promessa di riforma dell’insegnamento), ed anche socialisti (attratti dal suo “paternalismo sociale”, Hermet, op.cit., pag.89).

Nel momento di massima popolarità si concluse l’esperimento del Direttorio militare, mentre si aprì quello del Direttorio civile, il 3 dicembre 1925, un tentativo di stabilizzare le istituzioni del regime: ai quattro ministri dell’esercito si aggiunsero allora sei notabili civili di competenza tecnico-amministrativa.

Molti progetti legislativi videro la luce, liberati dalle lungaggini dei dibattiti parlamentari: un decreto sulla creazione delle confederazioni idrografiche (irrigazione ed energia idroelettrica), grandi lavori nel settore delle comunicazioni (la rete stradale crebbe di 9.455 km in sei anni contro i 2.756 del quinquennio 1918-1923, la legge del ’24 sul trasporto ferroviario incentivò un rinnovamento generale della linea, ricominciarono a svilupparsi i porti, fin’allora quasi abbandonati, e la rete telefonica, quasi inesistente), ), delle manifestazioni di prestigio (esposizione iberico-americana di Siviglia), delle imprese industriali e commerciali pubbliche (il regime, protezionista ed interventista, fece appello anche alle compagnie straniere, obbligandole però con misure “antimperialiste” ad associarsi con capitali nazionali a società semipubbliche cui contribuiva anche lo Stato, in modo da non poter direttamente controllare l’industria iberica, come avvenuto con la Compaňìa telefonica nacional che beneficiò dell’intervento dell’americana International telegraph and telephone, o con la Campsa nel campo petrolifero; e fece sentire il suo apporto a favore dell’industria locale, rafforzando le barriere doganali, sospendendo l’importazione di alcuni prodotti, sovvenzionando con fondi pubblici aziende private e favorendo l’ispanizzazione di alcuni settori, come l’automobilistico e l’elettrico).

La ripresa economica, iniziata nel ’23, fece sentire i suoi effetti: la situazione occupazionale, e quindi la conflittualità operaia, andò tranquillizzandosi, mentre gli ambienti economici riacquistarono spazi ed entusiasmo. Il regime divenne l’alleato del capitalismo nazionale, che protesse ed aiutò.

Dagli iniziali 431 milioni di pesetas di deficit di bilancio, si arrivò al pareggio nel 1926 e ad un disavanzo di 29 milioni nel 1929 (S.Ben-Ami, Fascism from above.The Dictatorship of Primo de Rivera in Spain, Oxford, pp.240-281); fra 1923 e 1930 la bilancia dei pagamenti passò da un deficit di 1.467 milioni di pesetas a 624 milioni: la politica economica del dittatore e del suo ministro delle Finanze Josè Calvo Stelo, nei fatti statalista, dirigista, quasi autarchica nel voler proteggere in tutti i modi il nascente apparato industriale, e che subordinava la proprietà privata alle necessità del Paese, senza farne un principio assoluto, funzionava, e fino al 1960 il volto moderno della Spagna è legato allo sviluppo di questi “ruggenti anni venti” di Primo de Rivera.

L’esercito, al tempo stesso, ottenne la tanto agognata vittoria militare in Marocco, ad Alhucemas (luglio 1927), in cooperazione con reparti francesi.

Si cercò quindi di moralizzare l’amministrazione pubblica e di migliorarne il rendimento, combattendone il proverbiale assenteismo e alleggerendola dall’enorme peso accumulato di cariche e salari.

In campo politico, invece, si tentò di proporre un’alternativa politica al regime partitico: prima creando una sorta di milizia borghese (sul modello del Somatèn catalano) in tutto il Paese, e poi elaborando un ambizioso progetto di partito unico – l’Unione Patriottica – ispirato al modello italiano (mèta di un viaggio ufficiale del dittatore e del re Alfonso XIII a fine 1923).

Ma in Spagna il proposito fallì abbastanza clamorosamente: i comitati locali dell’organizzazione altro non erano che riunioni dei tanto denigrati notabili e cacicchi, ed il partito stesso appariva come una scatola vuota, improvvisata e malvista da chi, anche tra i conservatori, si opponeva ad una istituzionalizzazione del regime.

Nonostante i buoni risultati in campo economico, la personalità ed i provvedimenti di Primo de Rivera cominciarono ad alienargli simpatie: la Carta del lavoro (novembre 1926), ispirata alla dottrina sociale della Chiesa ed a quelle fasciste, autoritaria ed ostile al sindacato unico - l’Organizzazione corporativa nazionale, affidata al cattolico Eduardo Aunòs – allontanò dal dittatore praticamente l’intero sindacalismo iberico. In seguito, per venire incontro al gusto nazionalista dell’esercito, vietò l’uso ufficiale della bandiera e della lingua catalana, e sciolse la Mancomunitat (1924), causando l’aspro risentimento dei suoi complici agli esordi, ovvero le elìte catalane gelose delle proprie tradizioni e della propria autonomia.

Non pago, trasformò una lettera privata di Miguel de Unamuno, che ne criticava i metodi, in affare di Stato, pretendendone le dimissioni con il solo effetto di trasformarlo in un martire capace di allontanare in fretta le simpatie degli intellettuali per il regime. Infine, dovette subire i malumori dell’esercito, che continuava a non amarlo granché, culminati nella rivolta degli artiglieri del settembre 1926.

La modernizzazione dall’alto, inoltre, ebbe l’effetto di unire in un fronte compatto tutti gli avversari del cambiamento: gli agenti economici meno importanti (agricoltori, piccole imprese) cominciarono a lamentarsi per la predilezione del regime verso la grande impresa, e le stesse classi medie manifestarono segni evidenti di disaffezione.

Se non altro, però, Primo de Rivera ebbe l’accortezza di accorgersene, ed elaborò una strategia per recuperare consensi fondata sui vantaggi tangibili derivanti dallo sviluppo economico, un “compenso […] alla perdita di chimeriche libertà politiche” per usare le parole di Aunòs, e sulle nuove, imminenti riforme istituzionali del triennio 1927-1929: i comitati paritari di arbitraggio dei conflitti sociali in cui imprenditori ed operai avrebbero dovuto risolvere le controversie lavorative in una prospettiva di “armonica società cristiana” (Hermet, op.cit., pagg. 96-97), e, soprattutto, l’ ”Assemblea Nazionale degli interessi generali”, risposta del regime al vuoto politico provocato dalla scomparsa del circuito parlamentare.

Nata il 12 settembre 1927, ispirata al Gran Consiglio fascista ed all’Action française, l’Assemblea, di stile corporativo, fu accolta in modo plebiscitario da 7.500.000 spagnoli; ma ben presto ci si accorse delle sue attribuzioni assolutamente modeste: priva di competenze legislative e di sovranità, sottoposta al volere dell’esecutivo, costituiva solo il punto d’incontro di 400 delegati non eletti, rappresentanti le “minoranze scelte” designate dal potere. Consapevoli dei difetti della nuova creazione del gen. de Rivera, i rappresentanti socialisti (Psoe e Ugt) declinarono l’offerta di parteciparvi, privandola di una rappresentanza più vasta e rivelandola per quella che era: l’ennesima scatola vuota, artefice soprattutto di un progetto di Costituzione, peraltro privo di qualsiasi carattere democratico, che però rimaneva troppo “libertario” agli occhi del dittatore, che la pubblicò, ma solo a titolo informativo, per testimoniare l’impegno dei creatori.

Poiché la parabola di Primo de Rivera era stata accompagnata, e garantita, dall’esercito, imboccò la fase conclusiva proprio per mano dei militari, spalleggiati da re Alfonso, preoccupato di non alienarsi le loro simpatie.

Minacciato dalla modernizzazione del regime, e gravato da ancor più pressanti preoccupazioni di carattere professionale (il regime tentò infatti di modificare il sistema di avanzamento di carriera, sostituendo ai criteri di anzianità quelli di merito, e, sempre più spesso, di faziosità e fedeltà al Direttorio; limitò l’afflusso di nuovi cadetti alle accademie, e si preparò ad una serie di licenziamenti assolutamente necessari data la struttura di comando ipertrofica dell’esercito iberico, caratterizzato da rapporto ufficiali/uomini di truppa due volte più alto che negli eserciti moderni), il corpo ufficiali della madrepatria cominciò ad inviare segnali allarmanti, ancora dalle armi tecniche, aggravati dalla creazione di un’Accademia militare centrale, favorevole ai desiderata modernisti dei quadri dell’armata marocchina, guidata da un giovane e promettente generale, di nome Francisco Franco.


Un’inchiesta del ’28 segnalò quindi che i principali capi militari erano contrari ad un prolungamento della dittatura, impegnati com’erano ad ordire rivolte. Attesa da un momento all’altro, la congiura propriamente detta venne organizzata nell’autunno del 1929, sotto la guida del gen. Goded.

Nonostante avrebbe preferito preparare il passaggio dei poteri “con calma e serenità”, per usare sue parole, Primo de Rivera, venuto a conoscenza del golpe imminente, spiazzò tutti, dichiarando pubblicamente di sottomettersi alla “prova straordinaria e decisiva” del giudizio dei suoi pari, i comandanti delle dieci regioni militari e delle tre prefetture marittime in cui era divisa la Spagna, rappresentanti di quell’esercito che l’aveva portato al potere.

Subita un’evidente sfiducia da quasi tutti gli “elettori”, presentò effettivamente le dimissioni il 28 gennaio, due giorni prima di partire per Parigi, dove morì sei settimane più tardi.


 

 

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