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N. 3 -
Marzo 2008
(XXXIV)
STORIA DELLA SPAGNA CONTEMPORANEA
Tra pronunciamientos e parlamentarismo truccato (1860-1923)
di Cristiano Zepponi
Qualsiasi
analisi
delle
vicende,
passate
e
recenti,
della
Spagna,
non
può
prescindere
dagli
anni
sessanta
dell’Ottocento,
fondamentale
cesura
temporale
e
preludio
del
“XIX
secolo
lungo”.
Il
timore
di
una
presa
di
coscienza
del
proletariato,
e di
una
protesta
popolare
potenzialmente
rivoluzionaria,
spinse
le
diverse
componenti
della
nuova
elìte
dirigente
a
ricercare
nuove
alleanze,
alla
ricerca
di
un
sistema
politico
meno
fragile
rispetto
al
passato,
e
meno
vulnerabile
ad
altri,
eventuali,
colpi
di
stato;
a
questa
convergenza
prese
parte
innanzitutto
la
grande
borghesia,
consolidatasi
con
lo
smembramento
delle
terre
ed
anelante
ad
una
più
diretta
posizione
sul
piano
politico,
ed
in
più
l’esercito,
progressivamente
imborghesitosi,
e
divenuto
in
breve
un
elemento
progressivamente
sempre
più
conservatore,
e
anti-progressista;
a
questi
due
nuovi
protagonisti
si
unì
l’alta
nobiltà,
che
comprese
in
breve
come
i
vantaggi
di
un’apertura
fossero
ben
maggiori
di
quelli
ottenibili
barricandosi
in
una
sterile
difesa
dei
suoi
privilegi
di
casta.
Tutti
e
tre,
quindi,
aspiravano
ad
un
ordinamento
sociale
stabile,
ed
arrivarono
presto
ad
ottenerlo:
i
possidenti,
con
il
pronunciamiento
(colpo
di
stato)
del
1868,
ottennero
l’esilio
della
regina
Isabella,
instaurando
al
contempo
una
monarchia
di
aspetto
moderno
(Costituzione
del
1869).
I
generali
Serrano
e
Prim
-
dopo
essersi
attribuiti
le
cariche
di
reggente
e
primo
ministro
- si
adoperarono
per
colmare
il
vuoto
istituzionale
che
si
era
così
formato,
e
per
farlo
scelsero
un
re,
nella
persona
di
Amedeo
di
Savoia,
che
finì
per
accettare
(1870).
Una
serie
di
avvenimenti,
però,
fecero
fallire
il
tentativo:
lo
scoppio
dell’ultima
guerra
carlista,
l’agitazione
popolare
di
fronte
alla
nomina
del
“re
scelto
a
palazzo”,
la
grave
impotenza
delle
Cortes.
A
ciò
si
aggiunsero,
nello
stesso
anno,
l’assassinio
di
uno
degli
artefici
del
processo
- il
gen.
Prim
- e,
tre
anni
dopo,
le
dimissioni
dell’altro
- il
gen.
Serrano
-,
preoccupato
per
la
piega
presa
dagli
avvenimenti.
A
questo
punto,
Amedeo
prese
la
giusta
decisione
di
abdicare,
aprendo
la
strada
alla
soluzione
repubblicana:
nella
primavera
del
1873,
quindi,
fu
proclamata
quella
che
viene
oggi
chiamata
prima
repubblica
spagnola.
L’esperimento,
però,
conobbe
subito
gravi
difficoltà:
mentre
l’insurrezione
carlista
si
intensificava,
cominciarono
a
diffondersi
nel
Paese
le
aspettative
generate
dalla
Ia
Internazionale,
contribuendo
a
generare
un
clima
di
fermento
generale.
Fu
così
che
l’ala
più
radicale
dei
repubblicani
(il
partito
federalista)
imboccò
la
strada
dell’insurrezione.
In
poche
settimane,
a
macchia
d’olio,
questa
si
diffuse
al
punto
di
generare
alcune
“piccole
repubbliche”
ispirate
alla
Comune
di
Parigi,
a
Cartagena,
Malaga,
Alcoy,
in
Andalusia.
Questa
rivolta,
di
breve
durata,
ebbe
vari,
e
profondi
effetti:
gettò
per
anni
il
discredito
sul
regime
repubblicano,
vanificò
ogni
tentativo
di
Francesco
Pi y
Margall
di
radicare
l’idea
repubblicana
nel
Paese,
contribuì
a
spostare
l’asse
politico
verso
destra,
alla
ricerca
di
un
ordine
conservatore
sempre
più
deciso
a
riproporre
l’opzione
monarchica,
nonostante
la
moderazione
degli
ultimi
due
leader
repubblicani,
Salmeròn
e
Castelar.
La
Spagna
imboccò,
così,
la
strada
della
monarchia
costituzionale:
e lo
fece,
come
al
solito,
con
rapidi
sussulti.
Nel
gennaio
1874,
il
pronunciamiento
del
gen.
Pavìa
impose
un
governo
di
salvezza
nazionale;
a
dicembre,
invece,
il
colpo
di
stato
del
gen.
Martìnez
Campos
restaurò
il
ramo
dinastico
di
re
Alfonso
XII.
Nonostante
l’artefice
diretto
del
secondo,
e
più
importante
golpe,
fosse
il
suddetto
gen.
Campos,
l’eminenza
grigia
del
progetto
fu
l’ex-ministro
monarchico
Antonio
Cànovas
del
Castello.
Fu,
questa,
una
figura
particolare,
difficilmente
definibile
con
il
solo
attributo
di
conservatore:
politico
colto,
affascinato
dal
declino
della
Spagna
e
conoscitore
dell’epoca
degli
Olivares
e
degli
Asburgo,
pessimista
nei
confronti
delle
possibilità
del
Paese
ed
oppositore
nei
confronti
del
suffragio
universale,
che,
concedendo
il
voto
alla
moltitudine
“miserabile
e
mendicante,
può
assicurare
solo
il
trionfo
del
comunismo
e la
rovina
del
principio
di
proprietà”
(Guy
Hermet,
“Storia
della
Spagna
nel
Novecento”,
ed.
Il
Mulino,
pag.
50),
riteneva
che
la
stabilità
della
Spagna
potesse
essere
garantita
solo
da
una
monarchia
costituzionale
e
parlamentare
stabile,
con
un
esecutivo
forte
e
l’appoggio
delle
nuove
elìte
emergenti.
In
questa
ottica
ottenne
la
rinuncia
al
trono
dell’ex-regina
Isabella,
divenendo
al
contempo
consigliere
e
capo
del
partito
monarchico
del
futuro
re
Alfonso
XII,
nella
speranza
che
questo
ordinamento
politico
“transitorio”
potesse
preparare
gli
spagnoli
alla
Repubblica.
Il
progetto
politico
di
Cànovas
prese
forma
con
la
Costituzione
del
1876;
si
trattava
di
un
bipartitismo
all’inglese,
possibile
all’interno
di
un
regime
bicamerale
con
Cortes
elette
a
suffragio
censitario
e un
senato
di
notabili
designati
dal
potere
(cui
va
aggiunta
la
soppressione
del
suffragio
universale
maschile,
in
vigore
dal
1869).
Nella
prassi,
il
sistema
si
basava
sull’accordo
tra
i
leader
conservatori
e
liberali,
complici
nello
spartirsi
i
seggi,
alternarsi
al
potere
e
sottrarsi
così
al
giogo
elettorale.
Il
primo
dei
due
partiti
dominanti
(partito
liberalconservatore
–
comunemente
definito
“conservatore”,
terriero
e
clericale,
diffuso
soprattutto
al
sud)
esisteva
già,
formato
com’era
dai
sostenitori
del
“golpe
Campos”;
a
questo
se
ne
aggiunse
nel
1880
un
altro
(partito
liberalfusionista
–
“liberale”,
commerciante
e
laico,
radicato
nel
nord),
guidato
da
Sagasta,
incoraggiato
nell’operazione
proprio
da
Cànovas.
Già
operativo
in
modo
abbastanza
evidente,
il
meccanismo
del
“bipartitismo
alternato”
si
spinse
fino
alla
ricerca
di
un’esplicita
legittimazione,
per
trasformarsi
in
“regola”
del
gioco
politico.
E
questa
venne
nel
1885,
alla
morte
di
Alfonso
XII,
in
virtù
di
un
accordo
“paracostituzionale”
(Hermet,
pag.
52)
che
sancì
l’alternanza
(turno)
fra
i
due
partiti
per
trent’anni
circa
(1876-1907),
e
che
divenne
noto
col
nome
di
Patto
del
Pardo.
Il
Patto
regolamentò
a
meraviglia
la
spartizione
del
potere:
nelle
14
consultazioni
elettorali
del
periodo,
i
due
partiti
raccolsero
sempre
la
larga
maggioranza
dei
seggi,
mai
inferiore
all’80%.
In
questo
modo,
diversi
furono
i
cambi
al
vertice:
il
partito
liberale
ascese
al
governo
nel
1881;
nel
1884
fu
sostituito
da
quello
conservatore,
mentre
due
anni
dopo,
nel
1886,
si
svolse
il
passaggio
inverso,
con
il
ritorno
di
Sagasta
al
potere.
Cànovas,
ancora,
ne
prese
il
posto
nel
corso
del
1890,
fino
alla
sua
morte,
per
mano
anarchica,
avvenuta
nel
1897.
Di
nuovo
toccò
quindi
a
Sagasta,
rimpiazzato
nel
1899
da
Francesco
Silvela
(successore
di
Cànovas).
Joaquìn
Costa,
saggista
dell’epoca,
sosteneva
che
il
“Paese
legale
non
corrisponde
al
Paese
reale”,
e,
nel
libro
“Oligarchia
e
cacicchismo”,
denunciò
le
storture
del
sistema,
che,
infatti,
nascondeva
un
manipolazione
illegale
del
processo
elettorale.
Già
evidente
con
il
suffragio
limitato,
in
vigore
tra
il
1875
ed
il
1890,
anno
in
cui
i
liberali
ripristinarono
il
suffragio
universale
maschile,
il
ricorso
a
brogli
e
coercizioni
nel
corso
delle
consultazioni
elettorali
divenne
dopo
questa
data
generalizzato.
Neanche
l’allargamento
del
suffragio
pose
seri
problemi
sulla
strada
dell’oligarchia
al
potere,
che,
anzi,
ottenne
un’ulteriore
legittimazione,
e
prestigio
all’estero,
dal
maggior
numero
di
votanti;
infine,
garantì
anche
il
“paravento
legale”
(Hermet,
pag.
54)
nei
confronti
dei
soli
antagonisti
pericolosi,
ovvero
la
casta
militare,
responsabile
dei
vari
pronunciamientos
del
periodo
precedente
(e
seguente).
Se è
vero
che
ovunque,
in
America
del
Nord
ed
in
Europa
occidentale,
i
regimi
parlamentari
del
periodo
si
caratterizzavano
per
il
suffragio
censitario,
la
formazione
di
un’oligarchia
dominante
e
l’influenza
dei
notabili
(in
primo
luogo
delle
loro
vaste
reti
clientelari..),
quello
della
Spagna
è un
caso
particolare.
Non
vive,
infatti,
le
grandi
trasformazioni
economico-sociali
degli
altri
Paesi
occidentali,
e,
tra
queste,
lo
spostamento
massiccio
delle
masse
rurali
verso
le
città:
risulta
quindi
facile,
vista
questa
immobilità
sociale,
imporre
uno
stato
di
dipendenza
e
sottomissione
quasi
immutabile
nelle
campagne,
guidato
dai
notabili
(in
Spagna
chiamati
cacicchi,
capi
indiani
americani).
Il
“padrone”
locale
(“don”,
“padrino”,
“compadrazgo”),
figura
transitoria
nei
regimi
parlamentari
del
Nord-Europa,
possedeva
nelle
società
mediterranee
un
solido
retroterra
culturale,
una
“dimensione
sacra”
in
un’ottica
religiosa
e
superstiziosa;
era,
questo,
il
protettore
e
garante
(funzione
difensiva)
di
fronte
alle
minacce
esterne,
dove
latitava
lo
Stato
di
diritto;
il
fornitore
di
aiuti
pratici
(funzione
sussidiale)
in
caso
di
raccolti
scarsi,
o
nell’intervallo
tra
questi;
il
benefattore
(funzione
di
ascesa
sociale),
permettendo
talvolta
la
promozione
a
ranghi
più
redditizi
della
produzione.
Il
signore,
temuto
e
rispettato
nel
gregge
clientelare
(in
sintonia
con
la
Bibbia),
otteneva
così
facilmente
l’entusiastica
adesione
delle
moltitudini
rurali,
che
interpretavano
la
soppressione
di
un
proprio
diritto,
come
“voto
di
scambio”
foriero
di
futura
benevolenza.
Si
ottenevano
così
interi
“pacchetti”
di
voti,
polarizzati
intorno
ala
personalità
indicata
dal
notabile
(cacicchi
d’alto
rango),
che,
a
sua
volta,
otteneva
da
questa,
giunta
al
potere,
sostanziose
autonomie
nella
redistribuzione
delle
risorse
della
collettività,
esautorando
la
pubblica
amministrazione:
degli
intermediari
elettorali,
in
pratica,
esempio
di
“potere
locale
utilizzato
per
fini
nazionali”
(Hermet,
pag.
57).
A
ciò
si
aggiunsero
puri
e
semplici
brogli
elettorali,
che
andarono
aumentando
nei
primi
anni
del
‘900:
morti
“votanti”,
acquisto
diretto
dei
voti
(5
peseta
l’uno)
al
momento
della
consultazione,
pressioni
e
abusi
di
potere,
voci
infondate
sui
vari
programmi
dei
candidati,
schede
false
(in
spagnolo
tutto
ciò
che
rientra
nella
definizione
di
pucherazo,
“fare
un
broglio
elettorale”).
Ed
inoltre
la
legge
elettorale
“farsa”
del
1907,
in
base
alla
quale
i
candidati
delle
varie
circoscrizioni
sarebbero
stati
eletti
automaticamente,
senza
scrutinio,
in
mancanza
di
avversari
(un
terzo
degli
elettori
perse
così,
i
pratica,
il
diritto
di
voto).
Il
sistema
costrinse
all’emarginazione
i
primi
candidati
socialisti,
fino
al
1910,
quando
ciò
avvenne
grazie
solamente
ad
un
patto
con
i
repubblicani.
L’egemonia
dei
due
partiti
dominanti
andò
perfezionandosi,
ma
con
gravi
conseguenze
sociali:
il
gioco
elettorale
visse
una
fase
di
intenso
discredito
(rivolto
allo
Stato
stesso),
l’astensionismo
si
fece
endemico
ostacolo
dello
sviluppo
democratico
(intorno
al
30/35%
nei
primi
del
‘900),
le
masse,
umiliate
dal
processo
elettorale
“legale”,
cercarono
la
loro
affermazione
in
uno
spazio
alternativo,
ovvero
l’ideale
anarchico
di
Bakunin
e
quello
rivoluzionario
della
Ia
internazionale
(Catalogna,
Murcia,
Estremadura,
Andalusia),
spinti
allo
scontro
aperto,
senza
compromessi,
dalla
repressione
dello
Stato.
Gli
anarchici,
in
particolare,
svilupparono
una
rete
chiusa
di
gruppi
d’azione
e
combattimento,
la
“Mano
Nera”,
responsabile
di
rappresaglie
contro
padroni
e
raccolti,
specie
nel
corso
degli
anni
’80
del
XIX
secolo;
e
questa
trovò
simpatie
ed
appoggio
in
ampi
strati
sociali:
nel
1892
migliaia
di
braccianti
andalusi
occuparono
Jerez
per
liberarne
alcuni
membri,
prima
che
a
settembre
il
gen.
Campos
fosse
ferito
dall’attentato
dell’anarchico
Pellai.
All’inizio
del
secolo,
però,
il
movimento
imboccò
la
via
sindacale:
nel
1900
nacque
la
Federazione
delle
società
operaie
(Federaciòn
de
sociedades
obreras
de
la
regiòn
espanola
–
Fsore);
nel
settembre
del
1911,
poi,
vide
la
luce
a
Barcellona
la
Confederazione
nazionale
del
lavoro
(Confederaciòn
nacional
del
trabajo
–
Cnt),
illegale
fino
al
1914,
alleata
del
sindacato
socialista
Ugt
dal
1916
e
rapidamente
cresciuta
fino
ai
714.000
membri
del
1919
(anche
Lenin
puntasse
sulla
Cnt..).
L’anarchia
spagnola
aderiva
così
alla
lotta
sindacale,
pur
mantenendosi
ostile
allo
Stato
ed
al
suo
regime
politico
attraverso
il
ricorso
all’astensionismo.
Nonostante
i
limiti
alla
vita
politica,
il
partito
liberale
riuscì
ad
elaborare
una
serie
di
misure
progressiste
sul
finire
del
secolo,
permettendo
alfine
lo
sviluppo
del
movimento
operaio.
Vennero
così
approvate
le
leggi
sulla
libertà
di
riunione
(riconosciuta
nel
1881),
di
stampa
ed
associazione
(1883-1887),
venne
riproposto
il
suffragio
universale
maschile
(1890),
decretato
un
regime
di
minima
protezione
sociale
con
la
legge
sugli
infortuni
lavorativi
(1900),
sul
lavoro
di
donne
e
bambini
(1908),
sul
diritto
di
sciopero
e
sui
tribunali
di
arbitraggio
e
riconciliazione
dei
conflitti
sociali.
Il
gruppo
socialista
nacque
nel
1879,
nell’ambito
dei
tipografi
madrileni,
e,
seguace
della
frazione
marxista
della
Ia
Internazionale,
prese
nel
1888
il
nome
di
Psoe
(Partido
socialista
obrero
espanol),
distante
dal
massimalismo
violento
degli
anarchici
e
patrocinatore
dalla
fondazione
del
già
citato
Ugt
(Uniòn
general
de
trabajadores):
ma i
risultati
di
entrambe
le
organizzazioni
rimasero
a
lungo
deludenti
La
crescita
tardiva
del
sindacalismo
socialista
è ad
oggi
spiegata
con
la
scarsa
diffusione
della
grande
industria
e
della
pubblica
amministrazione
impiegatizia,
terreni
privilegiati
del
marxismo,
sul
territorio
spagnolo,
a
differenza
della
piccola
industria
e
del
proletariato
agricolo,
dove
storicamente
si
trovava
radicato
l’anarc-sindacalismo.
I
socialisti
si
trovarono
così
confinati
nel
loro
“ambiente
naturale”,
nelle
zone
economicamente
più
progredite
(Madrid,
paesi
baschi,
Andalusia),
e
subirono
anche
la
scissione
degli
elementi
più
radicali,
confluiti
nel
1921
nel
neonato
Pce,
il
Partito
comunista
spagnolo.
Nella
seconda
fase
del
“bipartitismo
truccato”,
i
leader
storici
dei
due
partiti
vennero
sostituiti
da
nuove
personalità:
si
affermarono
così
Antonio
Maura
tra
i
conservatori
(al
potere
nel
1903/1904,
1907/1909,
1919,
1921/1922),
autore
della
disastrosa
legge
elettorale
del
1907,
ma
soprattutto
di
un
fallito
rilancio
coloniale
che
portò
alla
sconfitta
in
Marocco
ed
alla
seguente
“Settimana
tragica”
di
Barcellona,
variante
iberica
della
Comune
di
Parigi
in
cui
gli
anarchici,
dopo
le
violenze
anticlericali,
si
abbandonarono
a
disordini
e
violenze
anticlericali
fino
a
subire
una
dura
repressione
(morì,
tra
gli
altri,
Francisco
Ferrer,
fondatore
della
“Scuola
Moderna”
di
tendenza
moderata).
Ma
Maura,
indebolito
dall’opposizione
del
giovane
re
Alfonso
XIII,
venne
sostituito
nel
1913
dalla
scialba
personalità
di
Eduardo
Dato.
Il
partito
liberale,
invece,
uscito
malconcio
dalla
perdita
di
Cuba
(1897-’98),
alternò
vari
candidati
alla
successione
di
Sagasta:
Montero
Rìos
(1905/1907),
Segismundo
Moret
(1909),
ma,
soprattutto,
Josè
Canalejas,
al
potere
dal
1910:
questi,
soddisfatti
gli
appetiti
radical-sindacalisti
con
la
ley
del
candido
–
sospensione
per
tre
anni
dela
proliferazione
delle
congregazioni
religiose
-,
inaugurò
una
politica
economica
conservatrice,
attenta
agli
ambienti
affaristici
ed
ostile
agli
scioperi,
fino
al
suo
assassinio,
per
mano
anarchica,
nel
1912.
Tutto
il
periodo,
a
partire
dalla
sua
scesa
al
trono
nel
1902,
è
caratterizzato
dai
pesanti
interventi
del
nuovo
re
Alfonso
XIII,
che
divenne
nuovo
fattore
(a
differenza
di
sua
madre,
la
reggente
Marìa
Cristina)
del
gioco
politico,
ormai
sottomesso
docilmente
alle
sue
continue
nomine,
ed
ai
suoi
continui
licenziamenti.
La
proclamazione
della
neutralità,
nell’Europa
avvolta
dalla
nebbia
della
guerra,
concesse
alla
Spagna
un
breve
periodo
di
benessere;
ma
ciò
nonostante,
la
classe
dirigente
non
tardò
a
dividersi
tra
“aliadofili”
e
“germanofili”.
I
conflitti
aumentarono
quando
ci
si
rese
conto
che
i
maggiori
benefici
arridevano
al
grande
capitale,
mentre
la
popolazione
stava
subendo
un
rapido
crollo
del
potere
d’acquisto,
provocato
dall’aumento
dei
prezzi.
Così
l’agitazione
sociale
riprese,
con
maggior
forza;
e
stavolta
gli
ufficiali
presero
il
controllo
della
situazione,
scontenti
per
il
deterioramento
del
loro
tenore
di
vita
e
per
i
favoritismi
del
re
in
materia
di
avanzamenti
di
carriera:
crearono
così,
nel
maggio
1917,
delle
Giunte
di
difesa,
ammesse
dal
governo,
presto
imitate
da
altre
categorie
sociali.
Presto
cominciarono
gli
scioperi:
a
luglio
scoppiarono
a
Valencia,
Bilbao
e
Santiago
di
Compostella,
ad
agosto
si
estesero
ancora,
repressi
con
vigore
dall’esercito
dato
che
l’agitazione
aveva
nel
frattempo
contagiato
la
polizia.
Dopo
che
80
deputati
dell’opposizione
di
sinistra,
riuniti
a
Barcellona,
chiesero
lo
scioglimento
del
governo
e la
proclamazione
di
un’assemblea
costituente,
nel
novembre
1917
lo
stato
tentò
la
carta
del
gabinetto
di
unità
nazionale,
con
i
leader
di
entrambi
i
partiti
ed
il
capo
della
Lliga
catalana,
Francesc
Cambò.
La
rivolta
contadina,
divampata
nel
1918/1919
per
i
continui
rinvii
della
sempre
promessa
riforma
agraria,
portò
all’insurrezione
dei
braccianti
del
sud,
autori
di
occupazioni
delle
grandi
proprietà,
peggiorò
un
quadro
di
scioperi
insurrezionale
da
parte
degli
anarchici,
violenze
di
ogni
genere
e
contro-violenze
attuate
dai
“sindacati
gialli”
sostenuti
dal
governo:
ed
il
regime
parlamentare
ne
uscì
stremato,
nonostante
l’ennesimo
tentativo
di
Maura.
Il
“bipartitismo
alternato”
crollò
perché
non
aveva
cercato
di
assimilare
sostegni
politici
necessari,
in
un
momento
di
gravi
difficoltà
dei
partiti
dominanti,
logorati
e
stravolti
dagli
scandali
elettorali.
I
cacicchi
impedirono
lo
sviluppo
di
un
movimento
operaio
legale,
e la
diffusione
di
ideali
democratici;
i
repubblicani
rimasero
emarginati,
gli
intellettuali
(la
“generazione
del
1898”
formatasi
attorno
all’ateneo
di
Madrid,
che
annoverava
Josè
Ortega
y
Gasset,
Salvador
de
Madariaga,
Gregorio
Maranòn,
Joaquìn
Costa)
rimasero
(a
torto)
considerati
fomentatori
di
disordine,
ed i
loro
tentativi
di
riformare
il
sistema
approdarono
solo
alla
creazione
di
un
quotidiano
di
qualità
(“El
Sol”),
tutto
sommato
di
nicchia,
senza
poter
porre
mano
al
sistema
scolastico
disastrato
(metà
degli
spagnoli
erano
analfabeti
nel
‘900),
orientato
verso
la
borghesia
(tra
il
1875
ed
il
1910
gli
studenti
universitari
non
superano
i
15.000)
ed
egemonizzato
dalla
Chiesa.
I
tentativi
di
Francesco
Giner
de
los
Rìos
di
riformare
l’insegnamento
universitario,
per
stimolare
lo
sviluppo
di
correnti
filosofiche
alternative
(tra
cui
quella
dei
“krausisti”,
e,
in
generale,
i
filoni
scientifico/analitici),
approdarono
sì
alla
fondazione,
dopo
il
1880,
di
una
sorta
di
università
alternativa,
l’Instituciòn
libre
de
ensenanza:
ma
questa
formò
una
parte
troppo
esigua
della
nuova
generazione,
nonostante
fosse
affiancata,
a
partire
dal
1912,
da
un’altra
istituzione
finanziata
ufficialmente,
la
Junta
para
amplicaciòn
de
estudios.
Altrettanto
grave
fu
il
mancato
appoggio
dei
settori
politici
catalani,
segnati
dal
federalismo
degli
anni
1860/’70
e
dalla
comparsa
della
componente
foralista
– di
derivazione
carlista
–
impegnata
nel
dibattito
sulla
politica
centralizzatrice
di
fine
secolo.
Il
fermento
politico
della
regione
si
espresse
così
nelle
Bases
de
Manresa
(1892),
prima
manifestazione
formale
della
richiesta
di
una
certa
autonomia
per
la
Catalogna;
dal
1901,
la
già
citata
Lliga
divenne
portavoce
di
questi
interessi,
ottenendo
41
seggi
delle
Cortes
alle
elezioni
del
1907.
A
nulla
servì
il
tentativo
di
apertura
da
parte
di
Canalejas,
che
avviò
il
progetto
di
Mancomunitat
(Comunità
catalana)
all’indomani
della
“settimana
tragica”
di
Barcellona.
Il
distacco
dal
“centro”,
e
dal
governo,
era
andato
via
via
crescendo,
ben
espresso
dalla
sorda
ostilità
della
popolazione
nei
confronti
dell’ingresso
della
Lliga
nel
governo
di
unità
nazionale
del
1917.
Allo
stesso
modo
furono
dimenticati
i
Paesi
Baschi;
ed
allo
stesso
modo
rimasero
emarginati
i
cattolici,
pur
in
un
Paese
cui
la
Chiesa
forniva
le
fondamenta,
nell’apostolato
e
nell’insegnamento.
Bocciata
l’idea
di
un
grande
partito
cattolico
(nonostante
i
tentativi
del
“Grupo
de
la
democracia
cristiana”
di
Aznar,
del
“Partido
social
popular”
e
del
cristianesimo
sociale
dell’
“Acciòn
social
popular”)
,
attuata
una
tacita
reticenza
nei
confronti
del
regime
parlamentare
da
parte
dell’episcopato,
in
molti
si
ritirarono
spesso
rassegnati
nell’attesa
di
un
ordine
politico
più
tradizionale,
senza
voler
difendere
l’ordine
“cacicchista”
ormai
morente.
I
primi
anni
’20,
con
il
crollo
delle
importazioni
dovuto
al
termine
della
Grande
Guerra,
determinarono
il
declino
della
conflittualità
operaia;
al
tempo
stesso,
si
verificò
un
ribaltamento
di
fronte,
con
la
controffensiva
di
una
nuova
classe
di
imprenditori,
sostenuta
dai
settori
conservatori,
caratterizzati
da
una
più
decisa
volontà
di
intervento
negli
affari
del
Paese.
In
breve,
la
Federazione
imprenditoriale
creata
nel
1914,
e
particolarmente
diffusa
in
Catalogna,
arrivò
ad
allearsi
all’esercito
Al
tempo
stesso,
tentò
di
colpire
i
bastioni
delle
forze
progressiste:
favorendo
la
nascita
di
sindacati
“liberi”
(ad
opera
di
Ramòn
Sales)
e
reclutando
milizie
armate
al
soldo
della
Federazione
stessa
(ad
opera
del
barone
Konig),
subito
messe
in
luce
dall’assassinio
del
leader
anarchico
Salvador
Seguì
(novembre
1921).
In
più,
il
mondo
imprenditoriale
ottenne
la
nomina
di
un
generale
“amico”,
Martìnez
Anido,
a
governatore
civile
della
provincia
di
Barcellona:
questi
si
mostrò
subito
disponibile
alla
linea
dura,
perseguendo
migliaia
di
sindacalisti
e
proteggendo
le
unità
di
pistoleros
padronali,
fino
a
promulgare
la
famigerata
ley
de
fugas
con
la
quale
diversi
militanti
operai
finirono
assassinati
per
il
loro
tentativo
–
assai
dubbio
– di
sfuggire
all’arresto.
L’onda
della
violenza
non
risparmiò
nessuno:
né
Eduardo
Dato
(presidente
del
consiglio)
nel
marzo
1921,
né
il
cardinale
Soldevila
a
Saragozza,
né
del
governatore
civile
di
Vizcaya
(Bilbao).
Le
classi
medie,
preoccupate
per
il
disordine
pubblico,
si
unirono
presto
alla
coalizione
militare-imprenditoriale,
senza
risparmiare
le
proprie
forze
nella
lotta:
il
Somatèn,
la
milizia
scelta
borghese,
negli
scontri,
e
tutte
le
energie
pratiche
nel
tentativo
di
permettere
il
funzionamento
dei
servizi
durante
gli
scioperi,
al
fine
di
vanificarne
la
portata.
Nel
frattempo,
nel
luglio
del
1921,
i
reggimenti
spagnoli
del
generale
Silvestre
vissero
una
delle
pagine
più
amare
della
storia
militare
spagnola:
nello
scontro
di
Annual
le
forze
di
Abd
el-Krim
massacrarono,
ed
umiliarono,
i
resti
del
Rif,
il
corpo
di
spedizione
spagnolo.
La
consultazione
elettorale
del
febbraio
1923
sembrò
prospettare
un
cambiamento
di
rotta:
per
la
prima
volta
alle
urne
il
comportamento
dei
protagonisti
si
caratterizzò
per
la
pulizia
e
l’onestà,
ed
il
programma
riformista
del
governo
di
Prieto
sembrava
prospettare
una
tardiva
presa
di
coscienza,
resistendo
alle
pressioni
congiunte
di
militari
ed
industriali.
Ma
la
lista
degli
avversari,
già,
come
detto,
molto
lunga,
si
arricchì
di
un
nome
prestigioso:
quello
del
re
Alfonso
XIII.
Questi,
per
riavvicinarsi
all’esercito,
si
allontanò
dal
governo,
fino
ad
affermare
davanti
alle
Cortes,
nel
maggio
1921,
che
la
classe
politica
“non
è
all’altezza
dei
propri
doveri”.
Incoraggiò
così
i
generali,
già
particolarmente
intenti
nell’organizzazione
del
complotto,
di
cui
ormai
tutti
aspettavano
– o
temevano
–
l’avvento.
I
militari,
frustrati
dalla
destituzione
del
citato
gen.
Anido,
dal
probabile
ripiegamento
del
Rif,
dal
riscatto
pagato
dal
governo
dopo
Annual,
si
trovarono
così
vicini,
sempre
più,
a
classi
medie
ed
imprenditori,
ansiosi
di
contrastare
i
disordini
dilaganti
e
preoccupati
dalle
velleità
riformiste
del
gabinetto
Prieto,
e
alla
Chiesa,
che
non
contrastava
neanche
l’evidente
deriva
autoritaria
dei
propri
membri
(alcuni
esponenti
del
clero
paragonarono
la
guerra
in
Marocco
ad
una
“santa
crociata”):
faceva
da
cornice
al
tutto
la
ventata
autoritaria
che,
nel
periodo,
spirava
forte
sull’Europa
(Grecia,
Italia,
Polonia,
Balcani).
La
notizia
che
il
governo
avrebbe
formato
una
commissione
d’inchiesta
sui
fatti
di
Annual,
e
che
il
rapporto
sui
lavori
sarebbe
stato
presentato
alle
Cortes
nella
seduta
del
2
ottobre
del
1923,
accelerò
i
preparativi
dell’insurrezione:
circolava
voce,
in
particolare,
che
sarebbero
cadute
molte
teste,
nell’esercito,
ma
non
solo.
Si
diceva
che
potesse
essere
coinvolto
anche
il
re.
Ma
in
troppi,
ormai,
aspettavano
solo
l’uomo
della
provvidenza.
Si
chiamava
Miguel
Primo
de
Rivera.
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