N. 131 - Novembre 2018
(CLXII)
LA
TRAGEDIA DEL SOTTOMARINO KURSK AL CINEMA
Il
culto
del
sacrifico
per
la
Madre
Russia
di
Leila
Tavi
Il film Kursk del registra danese Thomas Vinterberg è stato presentato in anteprima in Italia alla Festa del Cinema di Roma e racconta l’incidente occorso all’equipaggio del sottomarino nucleare Kursk (Kypck), a disposizione della Flotta del Nord (Северный флот, Severnyy Flot) della Marina Russa nel mar Glaciale Artico.
Girato
nello
stile
dei
classici
war
drama
di
Hollywood,
il
film
è
chiaramente
pensato
per
un
pubblico
statunitense
e
internazionale,
non
certamente
per
la
Russia.
I
dialoghi
sono
in
inglese,
gli
interpreti
principali
noti
al
grande
pubblico:
Colin
Firth,
Matthias
Schoenaerts,
Léa
Seydoux,
Peter
Simonischek,
August
Diehl
e
Max
Von
Sydow,
al
posto
di
anonimi
attori
russi.
La
sceneggiatura
si
basa
sul
libro
del
giornalista
Robert
Moore
del
2003
dal
titolo
A
Time
to
Die.
The
Untold
Story
of
the
Kursk
Tragedy,
che
analizza
a
fondo
le
prove
forensi
e
quello
che
di
scritto
è
rimasto
delle
ultime
ore
di
vita
dei
marinai
sopravvissuti
all’esplosione
all’interno
del
sottomarino
e
intrappolati
sul
fondo
del
mare.
La
prima
pubblicazione
sul
Kursk
apparve
nel
2002,
scritta
da
un
noto
autore
statunitense,
Clyde
W.
Burleson,
Kursk
down!
The
shocking
true
story
of
the
sinking
of a
Russian
nuclear
submarine.
Nel
2002
fu
prodotto
un
documentario
per
la
televisione,
per
il
canale
History
Channel
dal
titolo
The
Raising
of
the
Kursk,
per
la
regia
di
Gary
Lang.
L’adattamento
della
sceneggiatura
del
film
di
Vinterberg
è
opera
del
candidato
all’Oscar
Robert
Rodat,
noto
per
aver
scritto
la
storia
per
il
film
Saving
Private
Ryan
(Salvate
il
Soldato
Ryan,
1998).
Rodat
ha
messo
in
risalto
nella
sua
rivisitazione
del
libro
di
Moore
principalmente
la
tragedia
umana
dei
marinai.
Nella
ricostruzione
dei
fatti
lo
sceneggiatore
ha
consultato
il
Commodoro
David
Russell,
che
guidò
la
missione
di
salvataggio
del
Kursk
da
parte
della
Royal
Navy
britannica
e
che
aveva
già
contribuito
anche
alle
ricerche
di
Moore
per
la
stesura
del
suo
libro.
Oltre
a
essere
stato
consulente
storico
per
il
film,
il
Commodoro
Russell
rappresenta
un
personaggio
che
è
una
figura
centrale
del
film,
interpretato
dall'attore
britannico
Colin
Firth,
vincitore
dell’Oscar
nel
2011
per
The
King's
Speech.
La
narrazione
del
film
si
articola
attraverso
tre
punti
di
vista
distinti:
quello
dei
militari,
quello
delle
autorità
governative
e
quello
dei
civili.
Il
primo
atto
ruota
attorno
al
matrimonio
di
uno
dei
marinai,
introducendoci
alla
comunità
della
Marina
e
alle
vite
di
questi
uomini.
Il
secondo
atto
descrive
l'incidente
del
Kursk
e
l'operazione
di
salvataggio,
guidata
dalla
Royal
Navy
britannica.
L’atto
terzo
accenna,
con
tono
lirico,
a
ciò
che
è
avvenuto
in
seguito.
Pur
vantando
un
cast
d'ensemble
internazionale,
il
film
si
apre
e si
chiude
con
Misha,
un
bambino
di
cinque
anni
(Artemiy
Spiridonov),
figlio
di
uno
delle
vittime,
che
è
una
sorta
di
"testimone
silenzioso"
degli
eventi
che
riguardano
il
Kursk
e
che
dimostra
come,
all’inizio
del
XIX
secolo,
le
future
generazioni
russe
guardavano
sfiduciate
al
loro
governo.
Il
sottomarino
affondò
a
108
metri
di
profondità
la
mattina
del
12
agosto
2000,
durante
una
manovra
in
acque
internazionali,
a
est
della
penisola
dei
Pescatori
(Полуостров
Рыбачий,
Poluostrov
Rybačij),
nel
mare
di
Barents,
150
chilometri
a
nord
della
basa
navale
di
Severomorsk
(Северомо́рск)
e a
circa
250
chilometri
dalla
costa
norvegese,
alla
posizione
esatta
di
69°
36.99
N,
37°
34.50
E. A
bordo
si
trovava
un
equipaggio
formato
da
118
uomini.
Il
sottomarino
fu
commissionato
dalla
Marina
Russa
tra
dicembre
1994
e
gennaio
1995
al
distretto
industriale
di
Severodvinsk
(Северодвинск),
nella
Russia
subartica,
nell'oblast'
di
Arcangelo
(Арха́нгельск,
Archangel'sk),
una
delle
principali
zone
fin
dall’epoca
sovietica
per
la
costruzione
di
sottomarini.
La
fabbrica
in
cui
fu
costruito
era
la
Zdjozdočka
(Звёздочкa)
e
l’ideatore
del
Kursk
fu
Igor’
Dmitrievič
Spasskij
(Игорь
Дмитриевич
Спасский),
l’ingegnere
che
progettò
oltre
duecento
sottomarini
nucleari
per
il
suo
Paese.
Il
Kursk,
identificato
come
K-141,
apparteneva
alla
classe
Antej
(Oscar-II,
secondo
la
classificazione
NATO),
uno
dei
migliori
sottomarini
multifunzione
al
mondo.
Alimentato
da
due
reattori
nucleari,
misurava
154
metri
di
lunghezza
e
18,2
metri
di
larghezza,
poteva
raggiungere
i 32
nodi
di
profondità
e 16
in
superfice.
Al
momento
dell’incidente
trasportava
missili,
di
cui
nessuna
testata
nucleare,
e
siluri,
per
un
peso
complessivo
di
14.000
tonnellate.
Fu
assegnato
alla
base
navale
di
Vidjaevo
(Видя́ево),
nella
regione
del
Murmansk
Oblast’
(Му́рманская
о́бласть),
nella
baia
Ara
(Ара-губа),
ed
entrò
a
far
parte
della
7°
Divisione
SSGN
della
1a
Flotta.
Il
Kursk
era
un
sottomarino
a
doppio
scafo,
con
dieci
compartimenti
stagni
separati
da
portelli.
Lo
scafo
idrodinamico
esterno
era
costituito
da
lastre
in
acciaio
da 8
mm,
ricoperte
da
uno
strato
di
gomma
alto
circa
80
mm.
L’utilizzo
della
gomma
nei
sottomarini
da
guerra,
in
generale,
è
quello
di
impedire
che
altri
sottomarini
o
navi
da
superficie
riconoscano
il
sottomarino
attraverso
l’eliminazione
dell’eco
dai
segnali
sonar.
Lo
scafo
a
pressione
interna
del
Kursk
era
costituito
da
lastre
di
acciaio
da
50
mm e
la
distanza
tra
i
due
scafi
variava,
a
seconda
del
punto
di
misurazione,
dall’uno
ai
due
metri.
L'enorme
quantità
di
potenza
disponibile
dai
suoi
due
reattori
nucleari
(VM
–
5PWR
/
380
Mw)
ha
reso
la
classe
Oscar
II
un
sottomarino
ad
attacco
rapido,
in
grado
di
tracciare
e
dare
la
caccia
ai
gruppi
di
combattimento
di
superficie
della
marina
statunitense,
si
trattava
pertanto
dell'unico
sottomarino
straniero
pienamente
in
grado
di
distruggere
le
navi
statunitensi
in
superficie.
Nello
specifico
il
progetto
del
Kursk
era
il
949A,
classe
Antey
(Aнтей),
dalla
figura
mitologica
greca
Anteo.
Durante
l’esercitazione
navale
dell’agosto
2000
avrebbe
dovuto
lanciare
dei
siluri
a
salve
contro
l'incrociatore
nucleare,
classe
Kirov,
Pjotr
Velikij
(Пётр
Великий,
Pietro
il
Grande).
Alle
11:28,
ora
locale,
furono
lanciati
dei
siluri
di
prova,
a
cui
seguì
un’esplosione,
molto
probabilmente
causata
da
un
altro
siluro
a
bordo
del
Kursk.
La
forte
onda
sismica
prodotta
fece
affondare
il
sottomarino.
Una
seconda
esplosione,
a
circa
due
minuti
e
mezzo
dalla
precedente,
sommerse
definitivamente
il
sottomarino,
così
da
renderne
impossibile
il
recupero
in
tempi
brevi.
La
maggior
parte
degli
uomini
a
bordo
morì
sul
colpo,
con
loro
il
comandante
Gennadij
Ljačin
(Генна́дий
Петро́вич
Ля́чин).
A
bordo
si
trovavano
al
momento
dell’incidente
tre
tipi
di
armi:
ventiquattro
missili
supersonici
di
modello
P-700
Granit
(П-700
«Гранит»,
conosciuto
in
Occidente
con
il
nome
in
codice
NATO
di
SS-N-19
Shipwreck),
diciotto
РПК-6М
«Водопад»
(codice
NATO
SS-N-16
Stallion)
e un
numero
equivalente
di
siluri
all’avanguardia.
Almeno
la
metà
dei
potenti
siluri
e
tutti
i
missili
a
bordo
del
Kursk
rimasero
intatti
quando
il
sottomarino
nucleare
affondò.
Alcuni
analisti
politici
giunsero
alla
conclusione
che
l’esplosione
non
fu
un
evento
fortuito,
ma
che
ci
fossero
implicazioni
con
il
conflitto
ceceno,
che
nel
1999
era
entrato
nella
seconda
fase.
Alcuni
dei
siluri
in
dotazione
al
Kursk
erano
stati
prodotti
nella
fabbrica
Dagdizel’
(Дагдизель),
situata
nella
città
di
Kaspijsk
(Каспи́йск),
in
Dagestan
(Респу́блика
Дагеста́н),
affiliata
alla
KTRV
(Корпорация
Тактическое
Ракетное
Вооружение);
la
Dagdizel’
produce
siluri
dal
1932.
Dal
Dagestan
proveniva
anche
l’ingegnere
capo
del
Kursk,
Mamed
Gadžiev
(Мамед
Гаджиев),
che
il
giorno
dell’incidente
era
nel
sottomarino
per
testare
un
nuovo
modello
di
siluro
della
Dagdizel’.
Si
ipotizzò
che
il
siluro
fosse
stato
manomesso,
al
fine
di
farlo
esplodere
a
bordo.
A
queste
confutazioni
non
sono
seguite
prove
e,
pertanto,
questa
rimane
soltanto
un’ipotesi,
anche
se
nella
fabbrica
di
Dagdizel’
nel
maggio
del
2000
l’FSB
aveva
sventato
un
tentativo
di
furto
di
ben
cinquemila
tonnellate
di
metalli
non
ferrosi,
come
riportato
in
un
comunicato
dell’ITAR-TASS
del
27
maggio,
cioè
dimostra
quanto
la
sicurezza
all’interno
dell’impianto
fosse
inefficace.
In
un’intervista
rilasciata
il
27
agosto
2000
al
«Sunday
Times»,
Rustam
Usmanov
(Pyctam
Усманов),
capo
dello
stabilimento
militare
di
Dagdizel’,
dichiarò
che
il
suo
ingegnere
capo
era
a
bordo
del
Kursk
per
monitorare
i
test
sui
siluri
di
loro
produzione.
Mamed
Gadžiev
era
un
veterano
nella
progettazione
di
armi
e
con
lui
a
bordo
del
Kursk
si
trovava
il
primo
tenente
Arnol’d
Borisov
(Арно́льд
Борисов),
un
altro
dipendente
della
fabbrica
di
Kaspijsk.
La
Dagdizel’
ha
progettato
per
lungo
tempo
sistemi
di
propulsione
per
i
siluri
Shkval
(Шквал,
groppo)
trasportati
dai
sottomarini
nucleari
russi
di
classe
Oscar-II,
di
cui
il
Kursk
faceva
parte.
I
dipendenti
dell’impresa
partecipavano
regolarmente
a
test
per
i
siluri
di
loro
fabbricazione
e in
dotazione
a
sottomarini
atomici
russi.
Durante
l’intervista
Usmanov
negò,
come
prevedibile,
che
i
due
uomini
stessero
lavorando
a
un’"arma
segreta"
per
la
Marina
Russa:
«Mamed
Gadžiev
e
Arnold
Borisov
stavano
supervisionando
un
regolare
test
di
lancio
dei
siluri
sul
Kursk.
Il
compito
dei
nostri
uomini
era
quello
di
supervisionare
e
controllare
che
il
siluro
funzionasse
a
dovere.
I
nostri
specialisti
non
avevano
a
che
fare
con
un
nuovo
prototipo
di
siluro».
Dopo
l’incidente
molti
uomini
dell’intelligence
in
Occidente
erano
comunque
convinti
che
la
Marina
Russa
stesse
testando
una
nuova
versione
di
Shkval,
che
poteva
raggiungere
una
velocità
di
200
nodi.
Si
trattava
di
un
modello
molto
particolare,
perché
viaggiava
in
una
capsula
di
gas,
così
da
ridurre
l'attrito
con
l'acqua
circostante.
Gli
Stati
Uniti
avevano
classificato
lo
Shkval
nella
categoria
dei
mezzi
di
guerra
navale
più
pericolosi
e lo
consideravano
il
siluro
più
efficace
e
perfetto
secondo
gli
standard
mondiali
dell’epoca.
Subito
dopo
l'affondamento
del
sottomarino
nell'agosto
2000,
i
separatisti
rivendicarono
che
il
sottomarino
fosse
stato
affondato
da
uno
shakhid
daghestano,
ma
nessuna
prova
è
stata
prodotta.
Le
forze
dell'ordine
russe
hanno
smentito
che
uno
dei
due
daghestani
etnici
a
bordo
del
Kursk
avrebbe
potuto
fare
qualcosa
di
deliberato
per
affondarlo.
L'indagine
ufficiale
russa
sull'incidente
mortale
non
ha
rivelato
tracce
di
sabotaggio.
Per
la
Russia
il
Dagestan
è
una
regione
strategica,
anche
perché
lì
si
trova
il
70%
delle
coste
russe
del
Caspio,
con
i
giacimenti
petroliferi
offshore.
Machačkala
(Махачкала)
è il
porto
libero
dai
ghiacci
più
meridionale
della
Russia,
la
cui
presenza
si è
intensificata
quando
le
esportazioni
di
petrolio
della
regione
hanno
raggiunto
il
mercato
mondiale.
Sarebbe
stata
un’ipotesi
scomoda
quella
dell’esplosione
del
Kursk
a
causa
di
un
attentato
terroristico
per
il
governo
russo,
non
ci
fu
pertanto
nessuna
inchiesta
sui
siluri
della
Dagdizel’.
L’esperto
di
terrorismo
Simon
Saradžijan
(Симон
Сараджян)
nel
suo
saggio
dal
titolo
Россия:
осознание
опасности
ядерного
терроризма
(Rossija:
osoznanie
opasnosti
jadernogo
terrorizma
(Russia:
Analisi
della
minaccia
del
terrorismo
nucleare),
apparso
nel
2003
sulla
rivista
«Annals
of
the
American
Academy
of
Political
and
Social
Science»,
riteneva
che
non
fosse
da
escludere
l’ipotesi
del
sabotaggio
per
terrorismo,
considerato
che,
i
lavoratori
delle
strutture
navali
e di
altre
strutture
marittime
hanno
le
migliori
opportunità
per
dirottare
o
sabotare
navi.
Secondo
Saradžijan
tali
crimini
sono
più
difficili
da
prevenire,
in
quanto
gli
addetti
ai
lavori
hanno
un’approfondita
conoscenza
delle
eventuali
vulnerabilità
delle
strutture
e
possono
trarre
vantaggio
dalla
fiducia
di
cui
godono
tra
i
loro
colleghi.
Un’inchiesta
del
quotidiano
russo
«Nezavisimaija
Gazeta»
(Независимая
газета)
del
2001
cercò
invece
di
provare
che
l’incidente
del
Kursk
avesse
a
che
fare
con
lo
spionaggio
statunitense.
L’articolo
apparve
il
12 e
il
13
settembre
2000,
a
firma
del
retro-ammiraglio
Valerij
Aleksin
(Вале́рий
Иванович
Але́ксин)
dell’Accademia
di
Scienza
Militare
(Академия
военных
наук
Российской
Федерации.
Akademija
Voennych
Nauk
Rossijskoj
Federacii)
ed
ex
Capo
Ufficiale
Navale
della
Marina
Russa.
L’operazione
di
MASINT
(Measurement
and
Signature
Intelligence),
condotta
dallo
United
States
Department
of
Defense
nel
mare
di
Barents
il
12
agosto
2000
può
essere
considerata
la
fase
finale
dell’operazione
di
intelligence
statunitense
sulla
tecnologia
dei
siluri
Shkval.
Tale
operazione
sarebbe
passata
inosservata
ai
Russi
e
all’opinione
pubblica
internazionale,
se
non
ci
fosse
stato
uno
scandalo
legato
a
un’operazione
di
spionaggio
che
coinvolse
Edmond
Pope,
un
ex
ufficiale
dei
servizi
segreti
navali
statunitensi.
Pope
operò
in
Russia
come
uomo
d'affari
e
sotto
copertura,
assumendo
l’identità
del
prof.
Daniel
Kiley,
un
ricercato
che
è
effettivamente
esistito
e
impiegato
presso
University
Applied
Research
Laboratory
tre
mesi
prima
della
tragedia
del
Kursk,
laboratorio
in
cui
si
facevano
studi
anche
sui
sommergibili.
Pope
si
trasferì
in
Russia,
dove
fondò
due
imprese
private:
la
SERF
Technologies
International,
che
studia
la
tecnologia
navale
straniera,
e la
TechSource
Marine
Group
Limited,
società
di
intermediazione
per
l'acquisto
della
tecnologia
russa
da
parte
dell'Occidente.
Pope
fu
arrestato
per
spionaggio
in
Russia
nell’aprile
del
2000,
perché
accusato
di
voler
acquistare
alcuni
rapporti
tecnici
su
un
siluro
speciale
a
propulsione
a
razzo,
basato
sull’applicazione
diretta
del
terzo
principio
della
dinamica
e
ideato
dal
prof.
Anatoly
Babkin
(Анато́лий
Ива́нович
Ба́бкин)
del
Centro
statale
per
lo
studio
dei
missili
intitolato
all’accademico
V.
P.
Makeev
(Государственный
ракетный
центр
имени
академика
В.
П.
Макеева,
Gosudarstvennyj
raketnyj
centr
imeni
akademika
V.
P.
Makeeva).
Nonostante
Pope
avesse
dichiarato
che
il
contratto
di
30.000
dollari
che
aveva
firmato
con
l’ing.
Babkin
prevedesse
che
le
relazioni
tecniche
non
avrebbero
contenuto
informazioni
segrete,
in
un’intervista
telefonica
del
dicembre
successivo
con
il
«New
York
Times»,
l'avvocato
del
signor
Pope
ha
specificato
che
uno
dei
rapporti
avrebbe
potuto
includere
alcune
informazioni
classificate,
ma
che
il
suo
assistito
non
era
colpevole
di
alcun
reato,
perché
non
era
a
conoscenza
di
ricevere
materiale
classificato.
Nel
mercato
libero
che
seguì
dopo
la
caduta
dell'Unione
Sovietica,
la
definizione
di
informazione
segreta
non
fu
più
così
restrittiva
quando
fu
necessario
aggiornarne
l’ormai
vecchia
normativa
sovietica.
Così
gli
scienziati
russi,
caduti
in
disgrazia
e
impoveriti
dalla
pesante
crisi
economica
nel
loro
Paese,
cominciarono
a
cercare
nuove
fonti
di
reddito,
anche
vendendo
segreti
di
Stato
a
imprese
occidentali,
inoltre
il
governo
russo
stesso
cercò
di
essere
più
tollerante
verso
le
ingerenze
commerciali
da
parte
di
imprenditori
occidentali.
Nell’articolo
scritto
dal
retro-ammiraglio
Aleksin
si
fa
riferimento
al
decreto
del
4
aprile
2000
a
firma
del
presidente
Vladimir
Putin,
che
inquadrava
l’esercitazione
del
12
agosto
come
la
più
grande
esercitazione
navale
russa
dopo
quasi
un
decennio,
dal
nome
Лето-X
(Estate-X)
e
con
trenta
navi
e
tre
sottomarini
coinvolti.
Tale
operazione
militare
era
sotto
stretta
osservazione
da
parte
dei
Paesi
leader
della
NATO,
così
il
12
agosto
nel
mare
di
Barents
vi
erano
elementi
della
naval
intelligence
britannica
e
statunitense,
insieme
a
navi
norvegesi.
La
flotta
internazionale
si
trovavano
a
circa
trenta
miglia
dalla
flotta
russa
impegnata
nell’esercitazione.
Di
stanza
nel
mare
di
Barents
c’erano
quel
giorno
anche
i
due
sottomarini
statunitensi
Memphis
e
Toledo,
nonché
il
britannico
Splendid,
che
negli
ultimi
tempi
avevano
avuto
come
destinazione
proprio
la
zona
del
mar
Glaciale
Artico
tra
la
Norvegia
e la
Russia.
Altre
navi
di
superficie
dei
tre
Paesi
sorvegliavano
la
flotta
russa.
Secondo
l’ex
ufficiale
della
Marina
Russa
il
Kursk
sarebbe
affondato
per
una
collisione
con
uno
dei
tre
sottomarini
menzionati
sopra.
A
prova
della
sua
tesi
Aleksin
fa
riferimento
alla
telefonata
tra
Bill
Clinton
e
Vladimir
Putin
del
13
agosto
e
alla
visita
in
incognito
del
direttore
della
Center
Intelligence
George
J.
Tenet.
La
notizia
sarebbe
però
trapelata
ai
giornali
secondo
Aleksin
grazie
a
una
soffiata
di
un
alto
funzionario
del
Foreign
Intelligence
Service,
che
perse
il
suo
posto
a
causa
della
sua
leggerezza.
L’ipotesi
della
collusione
con
un
altro
sottomarino
o
con
una
mina
della
Seconda
Guerra
Mondiale
fu
anche
quella
dell’allora
vice
premier
Il’ja
Klebanov
(Илья
Иосифович
Клебанов),
incaricato
da
Putin
di
coordinare
le
operazione
di
soccorso
del
Kursk.
Aleksin
rimprovera
nel
suo
saggio
le
autorità
russe,
in
particolar
modo
Putin,
Klebanov
e
l’allora
ministro
della
Difesa
Igor’
Sergeev
(Игорь
Дмитриевич
Сергеев)
di
non
aver
mai
richiesto
alla
Gran
Bretagna
e
agli
Stati
Uniti
di
poter
visionare
le
condizioni
in
cui
si
trovavano
i
due
sottomarini
Toledo
e
Splendid,
che
non
apparirono
mai
in
foto
o in
video
per
più
di
una
settimana
dopo
l’incidente
del
Kursk,
al
contrario
del
Memphis.
Secondo
l’ipotesi
portata
avanti
in
un
primo
tempo
dalla
commissione
russa
il
Toledo
avrebbe
urtato
il
sottomarino
russo,
senza
tuttavia
causargli
gravi
danni.
Il
Toledo,
danneggiato,
avrebbe
tentato
di
allontanarsi,
aiutato
dal
Memphis.
Rilevando
che
il
Kursk
stava
attivando
i
sistemi
d'arma,
il
Memphis
avrebbe
lanciato
un
siluro
di
tipo
Mark
48,
colpendo
in
pieno
la
sezione
di
prua
del
sottomarino
russo,
che
conteneva
i
siluri.
Ciò
avrebbe
creato
una
reazione
a
catena
innescando
le
cariche
dei
siluri
del
Kursk.
Sempre
secondo
questa
tesi,
gli
Stati
Uniti
e la
Federazione
Russa
si
sarebbero
successivamente
accordate
e i
primi,
responsabili
dell'incidente,
avrebbero
indennizzato
la
Russia
cancellando
un
debito
di
circa
dieci
miliardi
di
dollari.
I
sostenitori
di
questa
teoria
indicano
come
prova
le
immagini
del
relitto
del
Kursk
quando
fu
recuperato
che
mostrerebbero
un
foro
circolare,
rivolto
verso
l'interno,
presente
sulla
fiancata
e
vicino
al
luogo
dell'esplosione.
Gli
Stati
Uniti
negarono
di
aver
mai
fatto
avvicinare
i
loro
mezzi
al
Kursk,
ma
di
aver
lasciato
almeno
cinque
miglia
di
distanza
tra
loro
e la
flotta
russa.
Il
29
giugno
2002
si
conclusero
i
lavori
della
commissione
d'inchiesta
presieduta
da
Ustinov
e la
versione
ufficiale
dei
fatti
fu
che
le
esplosioni
a
bordo
del
sottomarino
russo
furono
causate
da
un
siluro
difettoso,
che
innescò
delle
reazioni
a
catena.
All’esplosione
dell’agosto
2000
sopravvissero
ventitré
uomini,
riuniti
nel
compartimento
IX,
agli
ordini
dell’ufficiale
più
alto
in
grado
tra
i
superstiti,
il
capitano
Dmitrij
Kolesnikov
(Дмитрий
Колесников),
di
soli
27
anni,
che
aveva
coraggiosamente
riuniti
tutti
gli
uomini
ancora
vivi
nel
compartimento
IX,
perché
dotato
di
una
botola
di
emergenza
a
cui
un
DRSV
(Deep
Submergence
Rescue
Vehicle)
avrebbe
potuto
attraccare
per
evacuare
il
compartimento
e
mettere
in
salvo
i
marinai.
Nel
film
il
protagonista
interpretato
dal
talentuoso
attore
belga
Matthias
Schoenaerts
è
invece
indicato
come
Mikhail
Averin,
che
non
ha
riscontro
in
nessuno
dei
due
libri
pubblicati
sull’incidente,
né
nel
documentario
di
Lang.
Nel
libro
di
Moore
si
legge
che
il
tenente
capitano
Dmitrij
Kolesnikov
aveva
uno
stipendio
di
2.700
rubli
al
mese,
l’equivalente
di
poco
più
di
mille
dollari
all'anno.
Gli
fu
elargito
un
bonus
corrispondente
a
circa
cento
dollari
per
aver
trascorso
un
trimestre
intero
in
alto
mare
nel
Mediterraneo,
lontano
dalla
famiglia.
È
chiaro
che
vi
fosse
una
sostanziale
differenza
con
la
generazione
di
marinai
a
cui
suo
padre
era
appartenuto,
sostenuta
da
un’inattaccabile
fede
comunista
e a
cui
era
concessa
una
serie
di
privilegi
legati
alla
professione
di
militare.
Con
il
crollo
del
regime
comunista
erano
venute
a
mancare
sia
l'ideologia
che
le
ricompense
e i
giovani
ufficiali
della
marina
erano
motivati
principalmente
dalla
lealtà
alla
loro
Patria
e ai
loro
compagni.
Il
primo
equipaggio
russo
per
le
operazioni
di
soccorso
partì
con
molto
ritardo,
poiché
la
boa
di
salvataggio
di
emergenza
del
sottomarino
era
stata
intenzionalmente
disabilitata.
Ci
vollero
oltre
sedici
ore
per
localizzare
esattamente
il
sottomarino
affondato.
L’annuncio
della
presenza
di
sopravvissuti
a
bordo
fu
data
due
giorni
dopo
l’incidente
dal
capo
dello
Stato
maggiore
della
Flotta
russa
Mihail
Mocak
(Михаил
Васильевич
Моцак).
Nonostante
le
prime
difficoltà
e
gli
ingenti
tagli
ai
finanziamenti
destinati
alla
Flotta,
lo
Stato
russo
disponeva
ancora
di
due
dei
migliori
modelli
al
mondo
di
DRSV.
Una
capsula
di
tipo
Priz
(Приз)
fallì
però
il
primo
tentativo
di
soccorso,
fu
sostituita
con
un
modello
più
grande
di
capsula,
di
classe
Bester,
che
a
sua
volta
fallì
altri
tre
tentativi.
Constatata
la
gravità
della
situazione,
la
Marina
Russa
autorizzò
dopo
cinque
giorni
dall’incidente
un'operazione
di
salvataggio
formata
da
personale
non
russo,
che
ebbe
luogo
durante
il
periodo
tra
il
17 e
il
22
agosto
2000.
Furono
utilizzate
la
nave
Seaway
Eagle,
di
proprietà
della
società
norvegese
Stolt
Offshore,
e
che
salparono
dal
porto
di
Trondheim.
Lo
scopo
principale
della
spedizione
era
quello
di
aprire
finalmente
il
portello
di
salvataggio
nel
compartimento
IX
nel
tentativo
di
far
uscire
i
membri
dell'equipaggio
ancora
in
vita.
Tale
missione
fu
eseguita
da
subacquei
norvegesi
e
britannici
specializzati
in
operazioni
in
alto
mare.
Durante
la
notte
tra
il
20 e
il
21
agosto,
i
subacquei
riuscirono
ad
aprire
il
portello
di
salvataggio,
quando
ormai
tutti
i
marinai
erano
morti
a
causa
della
mancanza
d’aria
e
dell’infiltrazione
d’acqua
nel
compartimento
IX.
Dopo
la
spedizione
con
la
Seaway
Eagle,
il
governo
russo
autorizzò
una
seconda
spedizione
tra
il
20
ottobre
e il
7
novembre,
per
permettere
ai
subacquei
di
entrare
nell'area
interna
del
Kursk,
allo
scopo
di
recuperare
i
corpi
delle
vittime.
Fu
inoltre
possibile
recuperare
documenti
e
strumentazione
per
risalire
alla
causa
della
catastrofe.
La
multinazionale
statunitense
Halliburton
prese
parte
alle
operazioni
condotte
nel
corso
della
seconda
spedizione
con
la
nave
MSV
Regalia.
Dodici
corpi
furono
estratti
dal
compartimento
IX
del
sottomarino;
sono
stati
prelevati
inoltre
i
detriti
del
fondale
marino
e i
documenti
dalla
sala
di
controllo.
In
una
tasca
dell’uniforme
della
salma
del
capitano
Kolesnikov
furono
trovati
degli
appunti.
Il
capitano
Kolesnikov
scrisse:
Sono
le
13:15.
Tutto
il
personale
delle
sezioni
sei,
sette
e
otto
si è
spostato
alla
sezione
nove.
Ci
sono
23
persone
qui.
Abbiamo
preso
questa
decisione,
perché
nessuno
di
noi
può
sfuggire.
Sono
le
15:45.
È
troppo
buio
per
scrivere,
ma
cercherò
di
farlo
al
tatto.
Sembra
che
non
ci
sia
più
nessuna
possibilità.
Forse
il
10 o
il
20
per
cento.
Speriamo
che
almeno
qualcuno
legga
questo
mio
messaggio.
Ecco
una
lista
del
personale
per
sezione.
Quelli
nella
nona
sezione
cercheranno
di
uscire.
Saluti
a
tutti,
non
c'è
bisogno
di
disperarsi.
Altri
marinai
tentarono
di
lasciarono
ai
loro
cari
dei
messaggi
nelle
ultime
disperate
ore
di
agonia.
Il
primo
tenente
Andrej
Borisov
così
prese
congedo
da
sua
moglie
e da
suo
figlio:
Miei
cari
Nataša
e
Saša!
Se
state
leggendo
questa
lettera
significa
che
non
ci
sono
più.
Vi
amo
così
tanto
entrambi.
Nataša,
perdonami
per
tutto.
Saša,
diventa
un
vero
uomo.
Con
amore,
baci.
Ancora
una
testimonianza
scritta
di
uno
dei
marinai,
che
ormai
aveva
perso
ogni
speranza:
Stiamo
male.
Siamo
indeboliti
dal
monossido
di
carbonio,
stiamo
lottando
per
sopravvivere.
Non
sopravvivremo
alla
decompressione
quando
riemergeremo.
Possiamo
resistere
per
non
più
di
un
giorno.
Durante
l’inchiesta
per
stabilire
le
cause
dell’incidente
gli
esperti
russi
avvalorarono
la
tesi
di
una
saldatura
difettosa
di
un
siluro
tipo
65
Kit
(Кит,
Balena),
che
avrebbe
causato
una
fuoriuscita
di
HTP,
una
soluzione
di
perossido
d’idrogeno,
che
avrebbe
fatto
reazione
con
il
cherosene,
provocando
l’esplosione.
L’incendio
propagatosi
a
seguito
di
questa
prima
esplosione
avrebbe
poi
fatto
detonare
circa
due
minuti
e
mezzo
dopo
cinque
o
sette
altri
siluri,
per
questo
la
seconda
esplosione
è
stata
avvertita
fino
in
Alaska.
Fu
un’esplosione
pari
a 2
o 3
tonnellate
di
TNT
(2,0
o
3,0
tonnellate
di
lunghezza;
2,2
o
3,3
tonnellate
corte),
che
ha
provocato
il
crollo
delle
pareti
tra
i
primi
tre
compartimenti
e
tutti
i
ponti,
causato
una
grande
falla
nello
scafo,
distrutto
i
compartimenti
quattro
e
cinque,
uccidendo
infine
tutti
i
marinai
ancora
in
vita
davanti
al
reattore
nucleare.
Durante
entrambe
le
spedizioni
alla
NRPA
(Statens
strålevern,
l’Autorità
norvegese
per
la
protezione
dalle
radiazioni)
è
stato
chiesto
di
fornire
assistenza
in
materia
di
radioprotezione
per
i
subacquei
e
per
l'equipaggio
della
Regalia,
nonché
di
effettuare
operazioni
di
monitoraggio
ambientale,
come
misure
di
dosaggio,
campionamento
dei
sedimenti,
campionamento
dell'acqua
e
dell’aria.
Sia
a
bordo
della
nave
Seaway
Eagle,
che
della
Regalia
fu
allestito
un
laboratorio
mobile
di
monitoraggio
delle
radiazioni.
Oltre
ai
diversi
tipi
di
apparecchiature
di
dosaggio,
i
due
laboratori
erano
equipaggiati
con
due
differenti
apparecchi
per
la
spettroscopia
gamma,
un
rivelatore
al
germanio
(HpGe)
ad
alta
risoluzione
(2,0
keV
per
7Cs)
e un
rilevatore
di
ioduro
di
sodio
(Nal)
con
risoluzione
inferiore
(58
keV
per
137
Cs),
ma
con
efficienza
superiore.
Due
tipi
di
apparecchiature
Nal
sono
state
utilizzate:
un
rivelatore
2" x
2"
con
analizzatore
multicanale
EasySpec
e un
rilevatore
3" x
3"
con
analizzatore
multicanale
del
tipo
Canberra
serie
10.
Le
autorità
russe
dichiararono
che
i
due
reattori
nucleari
a
bordo
del
Kursk
si
erano
automaticamente
spenti
al
momento
dell’esplosione
a
bordo,
grazie
al
sistema
dello
shut
down
di
emergenza
e
che
il
sottomarino
era
equipaggiato
con
testate
convenzionali.
A
causa
della
segreto
di
Stato
che
protegge
i
dati
relativi
alla
costruzione
dei
sottomarini
russi,
la
NRPA
ha
calcolato
l'inventario
per
il
sottomarino
Kursk
sulla
base
di
un
modello
di
reattore
computerizzato
stimato
simile
a
quello
dei
reattori
del
Kursk,
cercando
su
questa
base
di
fare
ipotesi
riguardo
al
fatto
se
il
Kursk
trasportasse
o
meno
testate
nucleari.
Non
sono
stati
rilevati
dalla
NRPA
elevati
livelli
di
radioattività
durante
le
misurazioni
di
campioni
ambientali
nei
pressi
o
addirittura
dall'interno
del
Kursk,
come
dichiarato
dall’autorità
norvegese
stessa
in
uno
studio
del
2002
pubblicato
nel
«Marine
Pollution
Bulletin».
Prima
dello
studio
della
NRPA
ne
fu
pubblicato
uno
in
Francia
a
tre
mesi
dall’incidente
del
Kursk,
da
parte
dell’Institut
de
protection
et
de
sûreté
nucléaire
(IPSN),
che
nel
2002
fu
trasformato
nell’Institut
de
radioprotection
et
de
sûreté
nucléaire
(IRSN).
Secondo
lo
studio
francese
la
contaminazione
radioattiva
avrebbe
interessato
inizialmente
le
acque
del
mare
di
Barents
e
poi,
a
seconda
delle
correnti
e
della
circolazione
generale
delle
masse
d'acqua,
la
contaminazione
si
sarebbe
diffusa
dal
mar
Glaciale
Artico
all'oceano
Atlantico,
anche
se
con
una
forte
diminuzione
della
radioattività.
In
effetti,
la
struttura
idrologica
del
mare
di
Barents,
dove
è
affondato
il
Kursk,
è
fortemente
influenzata
dallo
scambio
di
masse
d'acqua
sia
con
l'oceano
Atlantico
che
con
il
mar
Glaciale
Artico,
che
introducono
rispettivamente
nel
mare
di
Barents
97.7
106
km3
per
anno
e
16.4
106
km3
per
anno.
Per
un
completo
rinnovamento
delle
acque
del
mare
di
Barents
gli
scienziati
stimano
che
occorrono
di
media
dodici
anni.
La
contaminazione
causata
dalla
fuoriuscita
di
elementi
radioattivi
dai
reattori
del
sottomarino
Kursk,
si
sarebbe
diretta
pertanto,
secondo
gli
scienziati
francesi,
in
una
prima
fase
lungo
la
costa,
in
direzione
del
mare
di
Kara
(Карское
море,
Karskoje
More)
e
dell’arcipelago
Novaija
Zemlija
(Но́вая
Земля́),
per
proseguire
poi
verso
il
centro
del
mar
Glaciale
Artico.
Le
acque
contaminate
sarebbero
state
poi
mescolate
con
i
corpi
idrici
dell'Artico,
prima
di
affiorare
in
superficie
nell'oceano
Atlantico
attraverso
lo
stretto
situato
tra
l'Isola
degli
Orsi
(Bjørnøya)
in
Norvegia
e
quella
di
Spitsbergen,
infine
attraverso
lo
Stretto
di
Fram,
tra
l’isola
di
Spitsbergen
e la
Groenlandia.
Uno
studio
del
25
ottobre
2000,
sempre
dell’agenzia
francese,
ha
ricostruito
la
possibile
dinamica
di
raffreddamento
dei
due
reattori
nucleari
all’interno
del
sottomarino.
Il
Kursk
era
alimentato
da
due
reattori
nucleari
ad
acqua
pressurizzata
del
tipo
"OK-650B",
con
una
capacità
termica
di
190
megawatt
ciascuno,
situati
sul
retro
del
sottomarino.
Secondo
le
poche
informazioni
rese
disponibili
dalla
Marina
Russa,
ogni
nucleo
conteneva
135
chilogrammi
di
uranio
arricchito
al
25%
in
isotopo
235;
subito
dopo
l'esplosione
i
due
reattori
nucleari
sarebbero
stati
chiusi
per
la
caduta
delle
barre
di
controllo
e
per
l’iniezione
di
veleno
liquido
a
base
di
boro
(il
boro
assorbe
i
neutroni
e
impedisce
che
la
reazione
a
catena
si
sviluppi).
In
caso
di
arresto
del
reattore
in
un
sottomarino,
il
suo
nocciolo
è
raffreddato
dall'acqua
del
circuito
primario,
che
a
sua
volta
è
raffreddata
direttamente
dall’acqua
marina.
Sulla
base
degli
studi
fatti
dalle
autorità
competenti
norvegesi,
la
concentrazione
media
di
cesio
137
nell'acqua
del
mare
di
Barents
fu
dopo
l’incidente
di
15
becquerel
per
metro
cubo
(Bq/m3),
considerando
i 5
Bq/m3
esistenti
prima
dell'affondamento.
In
merito
alle
misurazioni
del
cesio
effettuate
nei
pesci
catturati
in
quello
stesso
mare,
la
NRPA,
in
collaborazione
con
gli
organismi
nazionali
coinvolti
nel
controllo
della
radioattività
in
mare,
ovvero
il
Norwegian
Directorate
of
Fisheries
(Fiskeridirektoratet)
e la
Norvegian
Food
Safety
Authority
(Mattilsynet),
dimostrò
nel
2000
che
i
valori
massimi
rilevati
erano
di 1
becquerel
per
chilogrammo
di
pesce.
I
limiti
fissati
dalla
Norvegia
per
l’industria
ittica
furono
di 3
becquerel
per
chilogrammo
di
pesce,
quattrocento
volte
inferiore
al
limite
di
commercializzazione
indicato
nel
regolamento
europeo
89/2218/EURATOM
del
18/07/1989,
che
regolamentava
i
livelli
massimi
consentiti
per
i
prodotti
alimentari
a
seguito
di
un
incidente
nucleare.
Tenendo
conto
dei
suddetti
scambi
di
acque
tra
il
mare
di
Barents
e
gli
altri
mari
artici,
il
livello
di
contaminazione
delle
acque
del
mare
di
Barents
sarebbe
tornato,
secondo
gli
studi
effettuati
dai
Francesi,
a
livelli
di
radioattività
precedenti
a
quelli
registrati
dopo
l'affondamento
del
Kursk
in
meno
di
cinque
anni,
considerando
dei
valori
medi
per
tutta
l’estensione
del
mare
di
Barents,
senza
tenere
conto
che
in
alcune
zone
i
livelli
di
contaminazione
sarebbero
potuti
essere
ovviamente
più
elevati
nei
giorni
e
nelle
settimane
successive
all'emissione
di
radioattività.
In
altri
mari
dell'Artico
e
dell'Europa
settentrionale,
la
contaminazione
dovuta
all'incidente
del
Kursk
si
sarebbe
potuta
verificare
solo
a
lungo
termine
e
pertanto
di
difficile
rilevazione,
considerato
che,
per
esempio,
nel
canale
della
Manica,
l'arrivo
di
acqua
contaminata
non
si
sarebbe
verificato
che
dopo
cento
anni
dallo
scarico
dei
materiali
radioattivi,
con
un’attività
corrispondente
che
non
avrebbe
superato
il
centesimo
di
Bq/m3,
un
valore
da
duecento
a
trecento
volte
inferiore
all'attività
di
volume
rilevata
nel
mare
di
Barents
alla
fine
del
2000.
Nel
film
l’aspetto
che
riguarda
l’eventuale
contaminazione
nucleare
dei
mari
non
è
trattato,
si
dà
per
scontato
che
il
sacrificio
degli
uomini
addetti
alla
sala
dei
reattori
scongiurò
la
catastrofe
nucleare.
Molto
spazio
nella
versione
cinematografica
ha
invece
la
querele
le
moglie
dei
marinai
del
Kursk
con
le
autorità
russe,
che
per
la
ragion
di
Stato
ritardarono
l’intervento
di
un’equipe
fatta
solo
di
tecnici
stranieri
per
il
recupero
dei
ventuno
sopravvissuti.
Il
regista
ha
messo
in
luce
l’inadeguata
gestione
della
tragedia
da
parte
della
Marina
Russa,
che
ha
incentrato
la
comunicazione
pubblica
del
tragico
evento
sulle
conferenze
stampa
dell’ammiraglio
Vladimir
Kuroedov
(Владимир
Иванович
Куроедов),
allora
al
comando
dell’intera
esercitazione
di
cui
il
Kursk
aveva
fatto
parte.
In
effetti
è
provato
che
non
ci
sia
stata
nessuna
reazione
coerente
da
parte
delle
autorità
russe
di
fronte
all'opinione
pubblica
e,
in
particolar
modo
nei
confronti
dei
familiari
delle
vittime.
Soprattutto
nelle
insoddisfacenti
e
scarse
notizie
fornite
immediatamente
dopo
il
disastro.
La
Marina
Russa
si è
comportata
in
quell’occasione
come
sono
solite
fare
le
autorità
russe,
ha
diffuso
meno
notizie
possibili
e,
fatto
ancor
più
grave,
ha
ritardato
l’intervento
degli
specialisti
britannici
e
norvegesi
per
salvare
almeno
i
ventitré
marinai
riusciti
a
sopravvivere
all’esplosione
e
intrappolati
nel
compartimento
IX
del
sottomarino.
Il
Kursk
affondò
il
12
agosto
2000,
ma
la
Russia
chiese
ufficialmente
a
esperti
che
vennero
dall’estero
solo
il
16
agosto
2000.
Il
presidente
Putin,
che
era
in
carica
da
pochi
mesi
nel
suo
primo
mandato,
tornò
a
Mosca
dallo
località
turistica
sul
mar
Nero
Soči,
dove
era
in
vacanza,
il
18
agosto
e
solo
il
22
agosto
incontrò
le
famiglie
dell'equipaggio
del
Kursk.
Il
ritardo
nelle
operazioni
di
soccorso
per
i
sopravvissuti,
l’atteggiamento
ambiguo
e il
ritardo
con
cui
il
presidente
Putin
intervenne
in
pubblico,
nonché
le
persistenti
contraddizioni
sulle
cause
del
disastro
infiammarono
l'opinione
pubblica
russa,
causando
a
Putin
la
prima
grande
crisi
politica
della
sua
presidenza.
«Sono
confusa
e
triste
allo
stesso
tempo»,
le
parole
di
Larisa
Mikhailova
(Лариса
Михайлова),
vedova
di
un
ufficiale
che
prestò
servizio
nei
sottomarini
russi,
all’interno
dell’articolo
di
Daniel
Williams
per
il
«Washington
Post»
del
18
agosto
2000:
«È
come
guardare
un
film
al
rallentatore.
Ci è
voluto
così
tanto
tempo,
e
tutti
continuavano
a
dire
che
tutto
sarebbe
andato
bene».
Il
giornalista
ha
raccolto
anche
la
testimonianza
della
madre
di
uno
dei
marinai
in
attesa
dei
soccorsi:
«Siamo
indignate
perché
i
nostri
figli
sono
ancora
lì.
Poco
è
stato
fatto
per
salvarli».
I
parenti
dei
marinai
del
Kursk
continuarono
a
denunciare
la
carenza
di
informazioni.
Come
si
vede
anche
nel
film
di
Vinterberg,
molti
si
riunivano
nel
porto
di
Murmansk,
a
circa
100
miglia
dal
sito
di
affondamento,
per
attendere
le
notizie.
A
Kursk,
nella
Russia
occidentale,
città
omonima
del
sottomarino,
sette
madri
di
membri
dell'equipaggio
si
riunirono
per
fare
un
viaggio
in
treno
a
Murmansk,
il
viaggio
fu
finanziato
dal
CSMR,
the
Commitee
of
Soldiers'
Mothers
of
Russia
(Комитетов
Солдатских
Матерей
России,
Komitetov
Soldatskich
Materej
rossii),
una
ONG
dai
principi
pacifisti
e
attiva
per
i
diritti
civili
in
Russia
dal
1989.
Le
donne
riuscirono
a
raggiungere
Severomorsk,
nonostante
le
autorità
russe
incaricate
di
gestire
la
crisi
cercarono
di
dissuaderle
per
non
creare
ulteriore
confusione
nella
zona
dei
soccorsi.
Il
23
agosto
Putin
annunciò
un
giorno
di
lutto
nazionale
e,
non
avendo
trovato
evidenza
di
una
colpa
da
far
ricadere
all’esterno
della
Federazione
Russa,
accusò
gli
oligarchi
e i
magnati
dei
media
russi
di
aver
depauperato
lo
Stato
durante
i
primi
anni
della
privatizzazione
selvaggia
e,
di
conseguenza,
di
essere
stati
la
causa
dell’indebolimento
delle
forze
armate
russe,
a
cui
furono
ridotti
i
finanziamenti
a
causa
della
crisi
economica,
così
da
rendere
incidenti
come
quello
del
Kursk
sempre
più
frequenti.
In
un
articolo
apparso
sul
«Segodnya»
(Сегодня)
proprio
il
23
agosto
un
giornalista
constatava
con
amarezza
come
il
governo
attribuisse
delle
colpe
‘interne’
al
disastro
del
Kursk,
perché
troppo
debole
per
denunciare
e
contrastare
colpe
‘esterne’.
Una
delle
mogli
dei
marinai
annegati,
durante
una
diretta
televisiva,
disse
al
presidente
Putin
che
esigeva
un
risarcimento
pari
a
dieci
anni
di
stipendio
del
marito
morto
per
poter
crescere
i
suoi
due
figli
orfani.
Putin,
colto
impreparato
da
tale
richiesta
ha
voluto
sapere
quanto
prendesse
un
sommergibilista
di
stipendio
e
gli
fu
detto
l’equivalente
di
un
comandante
e
non
di
un
normale
membro
dell’equipaggio.
Il
mensile
di
un
ufficiale
ammontava
a
circa
6.000
rubli,
circa
250
dollari.
Putin
accordò
a
tutte
le
famiglie
delle
vittime
un
indennizzo
di
720.000
rubli,
lo
stipendio
mensile
di
un
ufficiale
moltiplicato
per
dieci.
Il
famoso
avvocato
russo
Boris
Kuznetsov
(Борис
Аврамович
Кузнецов),
che
ha
trattato
durante
la
sua
lunga
carriera
molti
casi
di
diritti
umani
tra
cui
anche
quello
dei
parenti
della
giornalista
Anna
Politkovskaja
(А́нна
Степа́новна
Политко́вская),
rappresentò
gli
interessi
di
cinquantacinque
famiglie
di
marinai
deceduti
nell’incidente,
ma
alla
fine
dell’intero
procedimento
ci
fu
il
rigetto
da
parte
della
giustizia
russa
di
tutte
le
sue
denunce.
Così,
a
nome
di
un
parente
di
un
membro
dell'equipaggio,
il
legale
fece
appello
alla
CEDU
(Corte
Europea
dei
Diritti
dell'Uomo)
di
Strasburgo.
Il
caso
fu
accolto
nel
2009,
si
tenne
un'udienza
e
anche
la
denuncia
fu
accolta,
facendo
sorgere
l'aspettativa
che
ci
sarebbe
stata
una
decisione
definitiva
a
favore
del
parente
della
vittima
del
Kursk.
Tuttavia,
non
appena
il
parente
della
vittima
che
Kuznetsov
rappresentava
a
Strasburgo
fu
informato
di
questi
sviluppi,
ritirò
immediatamente
la
denuncia
senza
dare
spiegazioni
né
alla
stampa,
né
tantomeno
al
suo
legale.
Tale
ritiro
ebbe
come
conseguenza
giuridica
che
nessun
tribunale,
compresa
la
Corte
di
Strasburgo,
avrebbe
più
ripreso
il
caso,
pertanto
dal
punto
di
vista
giuridico
il
caso
Kursk
può
definirsi
definitivamente
chiuso.
Dell’incidente
si
discusse
ampiamente
tra
i
media
russi
fino
all’aprile
del
2001.
Durante
questo
periodo
il
Kursk
apparve
spesso
nei
titoli
di
due
quotidiani
non
schierati
con
il
governo
russo:
la
«Nezavisimaija
gazeta»
(già
nominata
sopra),
fondata
nel
1990
e
all’epoca
dei
fatti
finanziata
dell'imprenditore
Boris
Abramovič
Berezovskij
(Бори́с
Абра́мович
Березо́вский),
uno
dei
primi
oligarchi
russi
e
accusato
di
aver
avuto
connessioni
con
la
mafia
locale,
e il
«Segodnya»
(già
nominato
sopra),
fondato
nel
1997
in
Ucraina
e
legato
allora
alle
élite
politiche
e
industriali
del
Donbass.
Un
altro
periodico
russo
diede
allora
ampio
spazio
alla
notizia,
la
«Novaija
Gazeta»
(Новая
газета),
nota
per
i
suoi
articoli
di
giornalismo
investigativo
e
per
il
suo
atteggiamento
critico
nei
confronti
del
governo
russo.
La
discussione
scatenata
dall'incidente
fu
estremamente
accesa.
Subito
dopo
l’incidente
la
Marina
Russa
informò
l’opinione
pubblica
che
il
sottomarino
era
affondato
a
causa
di
problemi
tecnici.
All’inizio
la
Marina
aveva
anche
rassicurato
i
parenti
delle
vittime
coinvolte
nell’incidente,
che
se
la
situazione
si
fosse
aggravata,
l'equipaggio
sarebbe
stato
salvato
con
l'aiuto
di
una
campana
subacquea.
Tuttavia,
tale
operazione
di
salvataggio
fallì
per
due
volte,
a
causa
della
cattiva
manutenzione
della
campana,
che
non
riuscì
ad
agganciare
il
portellone
del
comparto
IX
per
far
uscire
i
sopravvissuti.
Ciò
suscitò
lo
sdegno
dell'opinione
pubblica
in
Russia,
che
accusò
le
autorità
statali
di
non
avere
a
cuore
la
sorte
dei
marinai
del
Kursk.
Inoltre
l’opinione
pubblica
voleva
che
le
autorità
rendessero
noti
i
nomi
dei
responsabili
della
catastrofe.
I
media
"non
allineati"
accusarono
le
autorità
russe,
in
particolare
il
presidente
Putin,
del
fallimento
dell'operazione
di
salvataggio
e,
più
in
generale,
di
non
aver
adempiuto
alle
loro
responsabilità
per
la
sicurezza
dello
Stato
e
dei
suoi
cittadini.
A
un’analisi
approfondita
delle
notizie
uscite
sui
giornali
russi,
non
si
evidenzia
nessun
tipo
di
censura
o di
manipolazione
delle
informazioni
sull'evento.
Oltre
ai
quotidiani,
alcune
ONG
russe
accusarono
pubblicamente
la
Marina
e le
autorità
statali
di
violare
i
diritti
umani,
non
avendo
esperito
tutti
i
mezzi
possibili
per
salvare
i
marinai
scampati
all’esplosione.
La
risposta
alle
ONG
e ai
quotidiani
non
vicini
al
Cremlino
arrivò
direttamente
dal
presidente
Putin,
che
accusò
quei
media
russi
di
aver
cercato
di
distruggere
la
reputazione
dello
Stato
russo
diffondendo
notizie
negative
riguardo
all’incidente
del
Kursk;
il
presidente
Putin
imputò
inoltre
la
grave
situazione
finanziaria
in
cui
versavano
le
forze
armate
russe
in
primis
all’avidità
senza
fondo
dei
magnati
dell’editoria
russa
che,
privi
di
etica,
avevano
solo
come
scopo
ultimo
di
distruggere
lo
Stato
russo,
come
abbiamo
già
visto
in
precedenza.
Diverse
speculazioni
su
ciò
che
causò
l'incidente
furono
portate
avanti
nelle
discussioni
pubbliche
a
riguardo;
gli
ufficiali
della
Marina
e le
autorità
statali,
molto
cauti
sulla
versione
dei
fatti
da
dare,
imputarono
la
causa
dell’incidente
a
tre
differenti
eventi:
la
prima
versione
data
fu
quella
di
una
collisione
con
un
oggetto
estraneo
(presumibilmente
sottomarino);
la
seconda
diffusa
fu
una
collisione
con
una
mina
della
seconda
Guerra
Mondiale
e la
terza
un'esplosione
di
siluri.
Giornalisti,
esperti
militari
e
opinionisti
discussero
nei
talk
show
e
sui
giornali
queste
tre
differenti
versioni,
ma a
causa
della
mancanza
di
ulteriori
informazioni
da
parte
delle
autorità
russe,
questa
discussione
ha
sortito
fino
a
oggi
solo
delle
speculazioni
e
nessuna
rivelazione.
Le
discussioni
principali
furono
sulle
operazioni
di
salvataggio
dei
marinai
superstiti
e
sull’impatto
ambientale
della
catastrofe.
Durante
un’intervista
al
canale
televisivo
russo
«RTR»
(Телеканал
«Россия-РТР»)
Putin
si
assunse
le
responsabilità
della
tragedia,
come
più
alta
carica
dello
Stato
russo.
Tale
assunzione
di
responsabilità
spinse
le
autorità
russe
a
fare
una
riflessione
sullo
stato
delle
forze
armate
in
Russia,
al
fine
di
prevenire
tragici
episodi
come
quello
del
Kursk.
Lo
stesso
Putin
in
una
seconda
intervista
al
canale
«RTR»
del
26
dicembre
2000
dichiarò
che
la
Russia
non
aveva
bisogno
di
forze
armate
«dall’apparato
gigantesco
ma
indefinito»,
quanto
di
truppe
piccole
e
mobili.
Nel
«Russia
Journal»
apparse
un
articolo
il
17
febbraio
2002
in
cui
i
lettori
furono
informati
circa
le
dichiarazioni
del
procuratore
generale
russo
Vladimir
Ustinov
(Владимир
Васильевич
Устинов),
che
aveva
affiancato
Kuroedov
in
una
conferenza
stampa
nel
porto
settentrionale
di
Murmansk
per
annunciare
i
risultati
dei
mesi
d’inchiesta
sul
naufragio
del
Kursk.
Ustinov
dichiarò
che
gli
investigatori
non
avevano
trovato
alcuna
prova
della
presenza
di
un'altra
nave
o
sottomarino
in
prossimità
del
Kursk
nel
mare
di
Barents
al
momento
dell’incidente,
come
le
agenzie
di
stampa
Interfax
(Интерфакс)
e
ITAR-Tass
(Информационное
агентство
России,
Informacionnoe
agentstvo
Rossii)
riferirono.
Il
15
dicembre
del
2001
Putin
aveva
licenziato
l'ammiraglio
Vjačeslav
Popov
(Вячесла́в
Алексе́евич
Попо́в)
e
degradato
altri
ammiragli,
anche
se
l’ufficio
stampa
della
Marina
insistette
allora
che
i
cambiamenti
ai
vertici
della
Flotta
del
Nord
non
fossero
legati
alla
vicenda
del
Kursk.
Ustinov
dichiarò
alla
stampa
lunedì
11
febbraio
2002
che
l’inchiesta
aveva
rivelato
«gravi
violazioni
da
parte
dei
capi
della
flotta
del
Nord
e
dell'equipaggio
del
Kursk».
Il
Kursk
aveva
partecipato
all’esercitazione
dell’agosto
2000
con
l'antenna
di
emergenza
e la
boa
difettose.
Sempre
lunedì
11
febbraio
Putin
sollevò
dall’incarico
il
vice
primo
ministro
Ilja
Klebanov,
che
era
stato
incaricato
dell'operazione
di
salvataggio
del
Kursk,
a
ministro
dell'industria
e
della
tecnologia.
Klebanov
aveva
avuto
un
precedente
incarico
politico
nel
campo
dell'industria,
così
il
Cremlino
giustificò
la
decisione
presa
come
utile
a
concentrarsi
su
un
settore
di
sua
competenza.
In
un’intervista
a
«RFE/RL»
dell’agosto
2010,
in
occasione
della
commemorazione
delle
vittime
a un
decennio
dall’incidente,
il
capitano
di
sottomarino
Igor’
Kurdin,
presidente
del
Consiglio
di
Amministrazione
del
Club
dei
Sommergibilisti
di
San
Pietroburgo
(Игорь
Курдин,
председатель
Санкт-Петербургского
клуба
Моряков-подводников),
dichiarò
che
se
pur
fossero
passati
dieci
anni
ancora
l’allora
attache
in
Russia
della
Marina
britannica
Geoffrey
McCready
ancora
si
chiedeva
come
mai
i
Russi
avessero
più
volte
rifiutato
l’aiuto
delle
forze
navali
britanniche
per
i
soccorsi.
Kurdin
inoltre
specificò
nel
2010
che
l’ipotesi
dello
speronamento
da
parte
del
sottomarino
statunitense
Toledo
era
da
escludersi.
Nell’intervista
ricordò
come
dovette
contattare
personalmente
il
presidente
statunitense
George
W.
Bush,
su
richiesta
dei
familiari
delle
vittime,
riguardo
a un
possibile
coinvolgimento
dei
due
sottomarini
statunitensi,
considerato
che
Ustinov
non
ricevette
mai
risposta
dalla
Casa
Bianca
alla
sua
lettera
ufficiale.
Kurdin
sottolineò
al
giornalista
del
«RFE/RL»
che
Bush
ironizzò
sul
fatto
che
forse
la
richiesta
ufficiale
del
governo
russo
non
era
mai
arrivata,
perché
inviata
a un
indirizzo
sbagliato,
la
Casa
Gialla,
al
posto
della
Casa
Bianca.
Bush
rispose
invece
alla
richiesta
di
spiegazioni
da
parte
delle
famiglie
dei
marinai
deceduti,
esprimendo
le
sue
condoglianze
e
dichiarando
la
totale
estraneità
ai
fatti
da
parte
dell’equipaggio
dei
sottomarini
statunitensi
allora
nel
mare
di
Barents.
Kurdin
condusse
un’indagine
indipendente
per
oltre
dieci
anni,
recuperando
testimonianze
orali
e
scritte,
senza
trovare
mai
traccia
di
collisione.
Nessun
metallo
o
vernice
estranea
fu
trovato
sullo
scafo
del
Kursk.
Se
ipotizziamo
che
un
sottomarino
statunitense
avesse
colpito
il
Kursk,
sarebbe
affondato
insieme
al
sottomarino
russo
con
la
seconda
esplosione.
In
linea
teorica
ci
sarebbe
potuto
essere
un
attacco
con
un
siluro,
ma
quando
un
siluro
si
muove
fendendo
l'acqua
fa
un
suono
caratteristico
che
tutte
le
navi
della
zona
-
navi
di
superficie
e
sottomarini
-
avrebbero
dovuto
sentire,
eppure
nessuno
sentì
nulla
in
quella
circostanza.
Nonostante
tutte
le
supposizioni
sulle
possibili
cause,
quando
si
verificò
l'incidente
le
autorità
statali
si
trovarono
di
fronte
a un
dilemma:
affidarsi
all’esperienza
e ai
mezzi
più
sofisticati
a
disposizione
di
altri
Paesi
e
così
lasciare
libero
accesso
ai
segreti
militari
russi?
Alla
fine
il
governo
russo
decise
di
sacrificare
la
ragione
di
Stato
per
cercare
di
salvare
i
superstiti
del
Kursk,
ma
troppo
tardi,
quado
ormai
a
bordo
erano
tutti
morti;
il
ritardo
con
cui
la
Russia
decise
di
chiedere
aiuto
alla
Gran
Bretagna
e
alla
Norvegia
adirò
l’opinione
pubblica
russa.
Ovviamente
la
Marina
e le
autorità
russe
credevano
di
essere
in
grado
di
gestire
la
situazione
senza
aiuti
esterni.
Il
presidente
Putin
dichiarò
in
un’intervista
a
Gazeta.ru
(Газета.Ru)
del
1°
settembre
2000
che
gli
era
stato
assicurato
dagli
alti
vertici
della
Marina
che
disponevano
di
tutte
le
forze
e i
mezzi
necessari
per
portare
a
termine
con
successo
la
missione
di
soccorso.
L’ottimismo
iniziale
era
stato
dettato
dal
fatto
che
il
sottomarino
fu
localizzato
sul
fondo
marino
in
tempi
molto
brevi,
solo
dopo
quattro-cinque
ore,
un
tempo
inferiore
rispetto
a
casi
equivalenti
verificatesi
in
Occidente.
Con
la
scusa,
inoltre,
che
tali
operazioni
di
salvataggio
operate
da
occidentali
non
sempre
avevano
portato
al
compimento
della
missione,
l’aiuto
da
parte
della
Gran
Bretagna
fu
ignorato,
più
che
declinato,
fino
al
quarto
giorno
dall’incidente.
Pertanto
si
può
affermare
che
furono
operati
modi
non
convenzionali
di
agire
da
parte
degli
alti
vertici
della
Marina
Russa
durante
le
operazioni
di
soccorso
del
Kursk,
in
contraddizione
con
il
modus
operandi
che
aveva
fino
ad
allora
dato
la
priorità
alla
sicurezza
militare
rispetto
alle
vite
di
singoli
uomini.
La
gestione
della
comunicazione
pubblica
durante
la
crisi
del
Kursk
da
parte
delle
autorità
russe,
che
l’opinione
pubblica
occidentale
percepì
allora
come
un
retaggio
d’epoca
comunista,
ha
in
realtà
anche
molto
a
che
fare
con
la
sopportazione
del
dolore
individuale,
del
sacrificio
per
la
Patria
e
della
silenziosa
approvazione
della
brutalità
con
cui
le
autorità
agiscono
nella
gestione
delle
crisi
da
sempre,
tale
fenomeno
è
ancora
più
evidente
se
sono
militari
a
essere
coinvolti.
Per
quanto
riguarda
la
percezione
della
minaccia
ambientale
nel
caso
del
Kursk
possiamo
affermare
che
la
preoccupazione
per
l'ambiente
rimase
marginale
nei
discorsi
pubblici
in
Russia.
L’inviolabilità
della
segretezza
militare
e la
riluttanza
da
parte
delle
autorità
russe
a
permettere
a
funzionari
occidentali
di
ispezionare
armi
di
massima
sicurezza
frappose
vari
ostacoli
al
Programma
multilaterale
per
l'ambiente
nucleare
per
la
Russia
(Multilateral
Nuclear
Environmental
Programme
in
the
Russian
Federation
-
MNEPR),
lanciato
nel
1999.
Secondo
le
stime
dei
funzionari
dell'UE,
circa
cento
sottomarini
russi
si
trovavano
nei
fondali
nelle
acque
a
nord-ovest
della
Russia
all’inizio
del
XIX
secolo;
il
progetto
mirava
a
rimuovere
il
combustibile
nucleare
e i
reattori
dalle
navi
abbandonate,
per
evitare
il
rischio
di
fuoriuscita
di
materiali
radioattivi
nell'oceano.
Il
programma
fu
sottoscritto
dalla
Russia
solo
il
21
marzo
2003,
in
occasione
di
un
vertice
tra
la
Russia
e
l'Unione
Europea
che
si
svolse
a
Stoccolma.
Ciò
è
indice
di
come
non
si
discutesse
pubblicamente
in
Russia
all’epoca
della
tragedia
del
Kursk
di
protezione
dell'ambiente
e di
politica
ambientale,
in
linea
con
la
stato
di
arretratezza
della
società
civile
e
delle
istituzioni
democratiche
in
generale.
Ancora
oggi
l'intera
responsabilità
per
il
miglioramento
della
sicurezza
ambientale
è
lasciata
alle
autorità
statali,
senza
un
confronto
con
portatori
d’interesse
e
associazioni
civiche.
Infine,
con
la
retorica
di
dover
garantire
in
primis
la
sicurezza
di
Stato
è
facile
legittimare
quasi
tutto,
pertanto
quando
si
verifica
un
pericolo
reale
in
Russia
l'autorizzazione
ad
agire
da
parte
degli
apparati
di
Stato
porta
alla
militarizzazione
anche
di
questioni
non
militari.
Segni
di
questa
"militarizzazione"
della
politica
ambientale,
palesati
già
nei
primi
anni
dopo
il
crollo
del
regime
comunista,
hanno
ancora
effetti
devastanti
sulla
popolazione
civile.