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N. 109 - Gennaio 2017 (CXL)

Sotto l’ombrello della NATO

la visione internazionale del Pci durante la segreteria Berlinguer

di Luca Rondena

 

Gli anni Settanta coincisero con alcuni dei momenti più difficili della storia italiana e internazionale. Mentre la “strategia della tensione” rischiava di travolgere lo Stato democratico nella penisola, il contesto globale si riscopriva fragile e frastagliato, tra continue crisi economiche e politiche. Il clima della distensione internazionale si esauriva dinanzi all’ingresso in campo di nuovi attori e di rinnovate dinamiche conflittuali. In un mondo diviso tra socialismo e imperialismo, il Partito Comunista Italiano dovette affrontare una consistente crisi di identità. Un partito in continua lotta tra le proprie radici storiche e il bipolarismo della Guerra Fredda, tra le esclusioni dalla vita politica italiana e le tensioni con Mosca.

 

Il protagonista di questo percorso denso di complessità fu Enrico Berlinguer, segretario per dodici anni del maggiore partito comunista del mondo occidentale. Proprio il peso politico, storico, sociale e culturale dell’esperienza comunista in Italia portò spesso sotto i riflettori internazionali parole e azioni dei suoi leader. Il PCI non ambiva soltanto ad un ruolo di governo al fianco o in opposizione alla Democrazia Cristiana, ma ambiva ad un ruolo di primo piano anche negli sviluppi della diplomazia mondiale. Per Berlinguer, il partito doveva svolgere quel ruolo di ponte tra oriente ed occidente necessario al mantenimento di un dialogo proficuo tra le parti. Con l’esaurimento di ogni spazio di responsabilità di governo in Italia, al PCI non restò che concentrarsi sui temi europei ed internazionali.

 

Ma quali furono le radici dell’internazionalismo del Partito Comunista Italiano? E quali i limiti interni ed esterni alle aspirazioni berlingueriane?

 

Il PCI fu internazionalista per tradizione, per ideologia. La storia del socialismo e del marxismo è prima di tutto una storia internazionalista. La rete di collegamenti tra i vari partiti comunisti ha sempre caratterizzato l’evoluzione del movimento comunista, divenendo un “legame di ferro” nei confronti del primo partito in grado di attuare la rivoluzione: il partito bolscevico di Lenin.

 

Dal 1917, la Russia fu il fulcro e l’esempio per i partiti comunisti, che in gran parte si scissero dai rispettivi partiti socialisti e si istituirono proprio in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. Questo fu il caso anche dei comunisti italiani. In quegli anni lo sguardo internazionale dei comunisti di tutti i paesi si volgeva verso l’URSS, verso il paese del socialismo realizzato che durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale divenne anche il simbolo della lotta al nazifascismo. L’internazionalismo era dunque racchiuso in quel sostegno alla causa del socialismo stalinista, che si espandeva ai paesi dell’Est Europa. L’inizio della Guerra Fredda e la formazione delle alleanze militari, NATO in occidente e Patto di Varsavia in oriente, portarono il PCI all’esclusione dai governi della fase costituente prima e dei governi repubblicani poi.

 

Il sentiero da percorrere nel panorama sovranazionale era già tracciato. Anche negli errori e negli sbandamenti degli anni Cinquanta, il partito non poteva che stare dalla parte del socialismo. L’appartenenza del PCI al comunismo internazionale di stampo sovietico non era solo un legame tra i vertici dei vari partiti e movimenti, ma un principio identitario. Un principio che univa le anime dei militanti e che in parte sopravvisse anche alla caduta del Muro di Berlino. L’Unione Sovietica come madre, maestra e modello per la realizzazione del socialismo.

 

Questa visione dell’URSS consolidò la segreteria Togliatti negli anni più turbolenti, rafforzando il sentimento tra le masse e il leader comunista. Fino alla fine degli anni Sessanta, la visione internazionale del PCI rimase saldamente ancorata alle radici del socialismo sovietico. Ogni rapporto e contatto si svolgeva lungo le coordinate del mondo esclusivamente comunista. Si trattava di un internazionalismo unidirezionale che non discostava la linea italiana da quella dei partiti fratelli. Una linea che si era consolidata negli anni e che aveva conservato il mito sovietico come fattore unitario e di propaganda politica. Per il PCI era determinante anche un ulteriore elemento: l’appoggio internazionale. Con l’URSS c’era una chiara affinità d’intenti, ma per le prerogative del partito, il sostegno di una delle due forze in campo nel confronto mondiale era essenziale. Il superamento di questa fase nell’ottica dei comunisti italiani non si realizzò mai, se non di fronte allo scioglimento definitivo dell’Unione Sovietica.

 

Ma un nuovo percorso, negli anni Settanta e Ottanta sicuramente si aprì. Sul cambiamento di passo del PCI nei riguardi di Mosca fu determinante la leadership di Berlinguer. Nei vent’anni dalla morte di Togliatti a Yalta, il mutamento principale all’interno di Via delle Botteghe Oscure riguardò due temi: la visione dinamica della distensione e la riforma del comunismo. Due assi portanti della strategia di Berlinguer che miravano al superamento della Guerra Fredda e alla fine del dogmatismo dottrinario sostenuto da Mosca. I due obiettivi collimavano nell’idea di una pace definitiva che sorpassasse il sistema capitalistico. Il PCI sopravvalutava il proprio ruolo e la propria capacità di influire concretamente nella diplomazia internazionale.

 

Ciononostante, l’azione di Berlinguer fu elemento di disturbo sia per gli Stati Uniti sia per l’URSS. Allo stesso modo il tentativo di scuotere il marxismo-leninismo dalle sue radici sovietiche. Laddove socialismo e socialdemocrazia avevano fallito, Berlinguer prefigurava una “terza via” capace di eliminare il capitalismo e garantire la democrazia e il pluralismo. Una “via” tutta in salita, che, oltre ad essere teorizzata, necessitava di fondamenta stabili esterne al PCI. Ma il limite maggiore a queste strategie proveniva dal partito stesso. Sebbene con la segreteria di Berlinguer si innalzarono i toni dello scontro tra PCI e PCUS, lo “strappo” con Breznev si realizzò soltanto nei primi anni Ottanta.

 

Il continuo allontanarsi e riavvicinarsi nel rapporto tra i due partiti, non permise al PCI di compiere quel salto di qualità necessario ad affermarsi pienamente come possibile forza di governo e coerente movimento politico. Le critiche mosse al socialismo sovietico e al monolitismo ideologico dell’URSS non coincidevano con le conseguenti prese di posizione essenziali per la creazione di un nuova strategia politica. La scelta di ritardare la resa dei conti con il proprio passato e con l’esperienza sovietica non poté che logorare il consenso interno e spezzare le possibilità di rilancio a livello europeo ed internazionale. Il PCI pagava un’ambiguità protratta nel tempo, una “doppiezza” che mirava sia a salvaguardare l’autonomia del partito che il mito sovietico. Il prezzo di questa scelta fu l’isolamento. Finiti gli anni del “compromesso storico” e dell’“eurocomunismo”, al partito non restava che osservare, dall’esterno, l’evoluzione degli eventi.

 

Oltre agli errori commessi dal partito, pesarono indubbiamente i pareri negativi degli Stati Uniti e dei democristiani riguardo la partecipazione dei comunisti al governo. L’eterno veto degli americani nei confronti del “fattore K” italiano non si soffermava sulle aperture antisovietiche portate avanti da Berlinguer, come l’accettazione della NATO e la condivisione dei principi democratici. Il fattore ideologico impediva a Kissinger e ai suoi successori di accettare i comunisti all’interno di governi dell’Europa Occidentale. In questo si rifletteva la staticità della distensione. La logica dei blocchi come conditio sine qua non per la stabilità internazionale.

 

Nel frattempo, in Italia, restavano insuperabili gli ostacoli posti dalla politica democristiana e dai diversi ambienti avversi ai comunisti. Il pentapartito sopravviveva all’opposizione comunista e si rinsaldava nella presidenza di Craxi. Di conseguenza, anche la proposta berlingueriana dell’”alternativa democratica” si svuotava dinanzi alla mancanza di alleanze nel panorama della sinistra italiana. L’esaurimento di strategie concretizzabili non poté che esasperare il partito, impossibilitato a trovare strade convincenti e vincenti.

 

La scomparsa di Berlinguer e dello stato sovietico determinarono la fine di quella storia politica, sociale e culturale che fu il comunismo nel contesto italiano. Berlinguer lasciò in eredità una serie di principi e valori spesso legati più alla sua persona che al partito. L’austerità e la moralità del singolo sono infatti state mitizzate dai suoi sostenitori. La sua personalità trova ancora oggi un sostegno trasversale, un sostegno che idealizza l’uomo oltre alla sua appartenenza politica.

 

Ma l’eredità fondamentale, abbracciata dalle evoluzioni recenti dell’ex PCI, fu più che altro nell’organizzazione capillare delle strutture di partito e nel nuovo significato dato alla dimensione europea. Oltre alla costruzione di una scuola di pensiero critica, il PCI di Berlinguer si divincolava dall’idea antieuropeista condivisa dalla maggior parte dei partiti fratelli europei, imponendosi come parte attiva per la creazione di un sistema continentale “né antisovietico, né antiamericano” che facesse del progresso, della cooperazione e della democrazia principi irrinunciabili.

 

Sotto l’ombrello della NATO, il PCI di Berlinguer si prefiggeva l’uguaglianza come presupposto indispensabile per la libertà e il socialismo riformato come soluzione alle ipocrisie del capitalismo.

 

«Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita» (Enrico Berlinguer, cit. durante il comizio di Padova del 7 giugno 1984).



 

 

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