N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
“SOMEWHERE”
Gli anonimi luoghi della solitudine
di Giovanna D’Arbitrio
Nella
scena
iniziale
del
film
una
potente
Ferrari
nera
gira
in
tondo
in
una
landa
desolata.
Il
guidatore
ha
lo
sguardo
assente
e
ripete
l’azione
meccanicamente
come
un
robot.
È
Johnny
Bravo
(Stephen
Dorff),
un
attore
famoso,
che
conduce
una
vita
vuota
e
arida
a
Los
Angeles
in
un
appartamento
dell’hotel
Chateau
Marmont
tra
superficiali
incontri
sessuali,
feste,
droga,
alcolici
e
fans.
Alberghi,
piscine,
studi
televisivi,
ambienti
anonimi
in
“qualche
luogo”
(somewhere)
sono
il
simbolo
di
una
vita
senza
radici
e
punti
di
riferimento,
senza
persone
care
intorno,
una
drammatica
realtà
vissuta
oggi
da
tanti
esseri
umani
costretti
a
vagare
per
il
mondo
da
un
paese
all’altro
per
motivi
di
lavoro
oppure
per
aver
perduto
il
significato
stesso
della
vita.
L’improvviso
arrivo
della
figlia
Cleo
(Elle
Fanning),
mandata
a
lui
dalla
ex
moglie
che
ha
bisogno
di
star
sola
per
un
periodo
di
riflessione,
modifica
in
qualche
modo
la
vita
di
Johnny
facendogli
prendere
coscienza
dei
suoi
errori.
Cleo
è
come
una
farfalla
gentile
che
si
muove
leggera
quando
pattina,
gli
sorride
con
i
grandi
occhi
amorevoli
e
innocenti,
lo
accompagna
ovunque,
anche
in
Italia.
Qui
gli
viene
assegnato
un
Telegatto
e,
tra
paillettes,
sfavillanti
luci,
ballerine
e
alcuni
personaggi
italiani
(Simona
Ventura,
Valeria
Marini,
Frassica,
Michetti),
ancora
una
volta
la
vanità
del
mondo
dello
spettacolo
è
messo
in
evidenza.
Volti
noti
come
quelli
di
Benicio
Del
Toro
o
Laura
Chiatti
nel
film
diventano
anch’essi
quelli
di
comparse
senza
identità
in
un
mondo
falso
e
superficiale.
La
regista,
Sofia
Coppola,
ha
precisato
in
un’intervista
che
non
intendeva
dare
una
rappresentazione
negativa
dell’Italia,
evidenziando
di
aver
preso
spunto
per
la
trama
del
film
da
alcuni
ricordi
personali,
quando
viaggiando
con
suo
padre,
Francis
Ford
Coppola,
aveva
avuto
esperienze
simili
a
quelle
di
Cleo
nel
mondo
dello
show
business.
Anche
se
Sofia
non
lo
ha
detto,
tuttavia
ci
sembra
che
non
siano
a
lei
sconosciute
le
opere
dei
grandi
maestri
italiani,
in
particolare
Antonioni
il
quale
sui
temi
di
solitudine
e
incomunicabilità
fu
capace
di
creare
dei
veri
capolavori.
Lo
stile
di
ripresa,
lento,
talvolta
ripetitivo
e
ossessivo,
i
lunghi
silenzi,
i
primi
piani
che
scavano
nell’anima
dei
personaggi,
i
dialoghi
scarni
ed
essenziali,
sono
lezioni
da
lui
impartite
già
da
tempo
a
tanti
registi.
Da
rilevare
che
i
trailer
danno
un’immagine
in
parte
fuorviante
poiché,
puntando
più
sulle
scene
poetiche
del
rapporto
padre-figlia
che
sui
loro
drammi
esistenziali,
non
preparano
lo
spettatore
ad
affrontare
una
storia
piuttosto
dura
e a
tratti
anche
monotona.
Interessanti
infine
le
affermazioni
di
Stephen
Dorff
che,
parlando
del
personaggio
da
lui
interpretato,
ha
dichiarato:
“Anch’io
ho
attraversato
momenti
di
depressione.
Come
attore
trascorri
3 o
4
mesi
sul
set,
la
troupe
diventa
la
tua
famiglia,
poi
devi
aspettare
un
nuovo
ingaggio,
non
puoi
andare
in
ufficio
come
i
comuni
mortali:
è lì
che
devi
confrontarti
con
la
solitudine.
Spesso
sto
in
albergo
ad
aspettare
un
nuovo
ruolo,
suono
la
mia
chitarra
o
gioco
a
tennis.
Non
vedo
l’ora
di
avere
una
famiglia”.
Con
queste
significative
conclusioni,
non
ci
resta
che
apprezzare
il
lavoro
della
giovane
regista
e
sceneggiatrice,
autrice
di
film
notevoli
come
“Il
Giardino
delle
Vergini
Suicide”
(Oscar
2003
per
la
sceneggiatura),
“Lost
in
Translation”,
“
Marie
Antoinette”
(Oscar
2007
per
i
costumi)
ed
infine
“Somewhere”,
accolto
con
un
lungo
applauso
al
Festival
di
Venezia
2010
dove
ha
conquistato
il
prestigioso
Leone
d’Oro.