N. 13 - Giugno 2006
SOMALIA:
CORNO D’AFRICA FERITO
La situazione somala a 15 anni dalla guerra
civile
di Laura
Novak
Sono passati 15 anni da quando il regime di Siad Barre in
Somalia cadde, provocando una catena di violenza
civile inaudita. Era il 1991 quando l’obiettivo di
ripresa di troupe televisive di tutto il mondo era
indirizzato lì, in Somalia e in particolare alla sua
capitale storica, Mogadiscio.
Poi truppe di caschi blu dell’ONU (con reparti anche
italiani) e peacekeepers internazionali entrarono
nella città e nelle zone più colpite dalla guerra con
lo scopo di riportare l’ordine nel paese ed, in
seguito, una stabilità politica. Le luci di quei
riflettori si spensero allora e Mogadiscio, così come
tutto lo stato somalo, iniziò un lungo percorso di
abbandono.
Combattimenti giornalieri e bilanci di perdite umane
crescenti, in questo ultimo anno, hanno bloccato e
immobilizzato la situazione politica istituzionale
somala.
A tutt’oggi, dopo l’ultimo regime di Barre, lo stato, in
quanto organo concreto e solido, non esiste in
Somalia. Un governo provvisorio istituito nel maggio
del 2005, con presidente Abdullahi Yusuf e premier del
governo Mohammed Ghedi, tiene debolmente le redini di
uno stato alla deriva.
La situazione attuale vede due tipi di contrasti diversi,
ma entrambi dichiarati, che lacerano la stabilità del
paese: il primo è rappresentato da un duro scontro
parlamentare tra forze politiche avverse; da una parte
i parlamentari dissidenti che dichiarano l’arrivo del
tempo per la creazione di uno stato solido e stabile
con sede unica nuovamente a Mogadiscio; dall’altra gli
altri membri del Parlamento, per la maggior parte
ministri in carica, che appoggiano la decisione del
premier somalo e del suo presidente che considerano
non sicura Mogadiscio, preferendole una piccola città
a
90
km, Jowhar.
Il tutto poi alimentato dalla presenza in Somalia, da anni
indiscussa, di gruppi d’elite di milizie locali, i
cosiddetti “signori della guerra”, che controllano
traffici illeciti, come quello d’armi.
Le prime avvisaglie di nuovi scontri nel paese, dopo la
guerra civile del 1991, si sono avute nel maggio del
2005, in seguito al conseguimento temporaneo della
carica di leader somalo da parte di Ghedi. La sua
decisione, appoggiata da alte cariche istituzionali e
dai suoi alleati politici, di rimanere con la sede del
governo a Jowhar e di attendere il momento propizio
per il ritorno a Mogadiscio, ha creato disordini non
solo nelle sedute parlamentari ma anche tra le due
città protagoniste, Jowhar e Mogadiscio. Secondo fonti
che provengono dall’ambiente dei “signori della
guerra”, appunto nel maggio del 2005, il premier
avrebbe avuto in mente un tentativo di presa della
capitale, attraverso l’utilizzo dell’esercito somalo
insieme a quello etiope. Tentativo poi sventato
proprio dagli scontri tra i militari radunati da Ghedi
a Jowhar e le truppe guerrigliere di Mogadiscio.
Nonostante le smentite operate da Ghedi circa questo
fittizio tentativo di presa della capitale, dal
settembre 2005 la politica del premier sembra
cambiare.
Anche se non ci sono prove tangibili, da allora forti dubbi
esistono nell’opinione pubblica somala su possibili
nuove alleanze e legami tra i due massimi
rappresentanti del governo somalo, il presidente
Yussuf e il primo ministro Ghedi, e quei “signori
della guerra” che da anni con i loro eserciti illegali
controllano varie zone della capitale in particolare.
A dare, forse, supporto a questa tesi è la recente
creazione, ad opera dei maggiori gruppi che occupano
stabilmente Mogadiscio, di una ARCPT (Alleanza per il
Ripristino Pace e Controllo Terrorismo), vale a dire
un poco convincente tentativo di organizzare una
milizia antiterroristica locale, legalizzata dallo
Stato, finanziata da “benefattori” somali, tra cui si
pensa ci siano uomini politici importanti, e
stranieri, tra cui, sempre in maniera ipotetica, si
crede ci siano anche gli Stati Uniti. Si potrebbe dire
quasi una nuova forma di unione di scopi ed intenti
contro un nemico maggiore: quello dei fondamentalisti.
L’alleanza ha come sua finalità dichiarata quello di
combattere lo strapotere di milizie integraliste
islamiche a Mogadiscio, dedite alla diffusione della
pagina più estremista delle leggi religiose
dell’Islam, nella creazione di tribunali islamici e
nella rimessa in vigore delle legge della sharia.
Ed è proprio in questo contesto che prende il via il
secondo tipo di scontro che lacera ad oggi l’ex
colonia italiana: quello di aspetto
religioso/integralista. Attualmente
la
Somalia, secondo rapporti delle intelligence
governative di svariati paesi del mondo, in testa
l’America, è uno dei luoghi più attivi sul fronte del
reclutamento e dell’addestramento di terroristi
islamici. Cellule di Al Qaeda si sono da tempo
stabilizzate nel territorio somalo, approfittando
dello sbando e dell’abbandono in cui versa il paese.
Ed è proprio tra questa nuova alleanza militare
somala, la ARCPT, e i guerriglieri delle Corti
Islamiche Somale, che continuano ad avvenire,
nell’ultimo mese, battaglie armate.
La situazione, ormai prossima al collasso, peggiora nei
primi giorni di maggio di quest’anno, quando, a
Mogadiscio, e in particolare nel piccolo villaggio di
Guta, a sud della capitale, si accendono scontri
violentissimi tra le due fazioni, prolungati per tre
giorni. Giorni in cui la popolazione civile ha pagato
in prima persona, come avviene sempre in questi casi,
dovendo lasciare obbligatoriamente le proprie
abitazioni e incominciando un lento e pericoloso
cammino verso la capitale, in cerca di un riparo.
Trenta morti e settanta feriti è il bilancio finale di vite
umane cadute durante gli scontri. Un bilancio che
continua giornalmente ad accrescere, considerando che
il cessate il fuoco, imposto dal governo ad entrambe
le fazioni, è stato rispettato solo per un giorno. I
disordini sono poi andati ad allargarsi a macchia
d’olio fino a raggiungere la zona a più alto tasso di
presenza di immigrati arabi, afgani, pachistani, tutti
di religione islamica, della città. Il quartiere,
quello Wahara ‘Adde, è dove, fino a poche settimane
fa, si sa per certo aveva trovato rifugio uno degli
accusati degli attacchi terroristici, nell’agosto del
1998, contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar
Es Salama, Fazul Harun.
La situazione, che peggiora sempre più rapidamente, crea
preoccupazione anche su altri aspetti della vita
giornaliera.
Il rapporto del febbraio del 2006 ad opera
dell’Organizzazione Umanitaria dell’Unicef affronta la
situazione somala con allarmismo, evidenziando come i
conflitti che in questi anni hanno tremato la
popolazione stiano peggiorando una condizione di vita
della gente somala già pessima.
La siccità, dopo un lungo periodo, ha prosciugato molte
delle poche fonti idriche rimaste nel paese,
soprattutto nella parte sud. I bacini d’acqua sono
andati a ridursi notevolmente lasciando senza acqua
interi villaggi. Inoltre, senza possibilità di
annaffiare le terre ed abbeverare gli animali, anche
la pastorizia e l’agricoltura, a cui si dedica il 70%
della popolazione della Somalia, sono entrate in fase
agonizzante, con interi capi di bestiame morti a
seguito della siccità.
Per sfuggire ad un destino che sembra ormai scritto, intere
famiglie abbandonano i piccoli campi della zona più
arida del sud e raggiungono, sovrappopolandole, le
città maggiori, che iniziano a risentire molto del
flusso migratorio.
Per tentare di risolvere la situazione l’Unicef si è
impegnata con alcune comunità locali a costruire, con
un’importante stanziamento di denaro, cisterne d’acqua
e impianti provvisori sanitari, che consentano il
blocco di tutte quelle epidemie che la siccità ha
portato con sé.
La malnutrizione, che ha ormai raggiunto quote da capogiro,
miete sempre vittime innocenti. Circa 1,5 milioni di
persone in Somalia vivono al di sotto la soglia della
povertà e con meno del 10% dei bambini somali
vaccinati contro la polio o il morbillo,
la
Somalia vive uno dei suoi momenti più bui.
Perché però i media, sempre a ricordarci sadicamente e
macabramente alcuni dei conflitti armati nel mondo,
non parli di questa e di altre situazioni
irrisolvibili del mondo, nessuno se lo chiede. Altre
zone del mappamondo, come il Sudan, il Chiad, parte
dell’Asia orientale, convivono giornalmente con guerre
civili e violenze degeneri, sui quali gran parte
dell’opinione pubblica tace, la maggior parte delle
volte non per ignoranza, ma per oculata e squallida
scelta del silenzio.
Grande risonanza, come è giusto comunque che sia, viene
invece data ad ogni singola vicenda di guerra in Iraq
o in Afghanistan, mentre condizioni simili e
altrettanto cruente vengono abbandonate nell’oscurità.
In Somalia le Istituzione Internazionali, che dovrebbero
garantire sempre e comunque il rispetto dei diritti
civili, come ONU e NATO sono latitanti da anni.
Paradosso importante data la forte ingerenza in
Somalia che singoli stati, come Stati Uniti o Etiopia,
forzano a livello politico ed economico.
Le coscienze devono, secondo la mia opinione, prendere atto
che la situazione, che sta delineando una nuova guerra
civile all’orizzonte, va risolta con azioni mirate e
concrete. Le soluzioni fino ad ora attuate sono solo
tentativi, poi falliti, di tamponare emorragie, senza
operare però sulla sua causa.
Un governo stabile e affidabile, in cui un popolo, diviso
da molti fattori culturali, possa rispecchiarsi, leggi
a cui tutti, senza esclusioni, debbano sottostare,
eliminare una corruzione politica dilagante e
adoperarsi per la creazione di un reale e funzionale
sistema sanitario sarebbero, a mio avviso, i primi
piccoli passi obbligatori lungo un cammino di cui,
secondo il mio parere, non si vede il termine.
Riferimenti bibliografici:
Sabatucci, Vidotto, PROFILI STORICI DAL 1900 AD OGGI,
Roma, Laterza, 2000
www.warnews.it
www.corriere.it
www.unicef.it
www.italosomali.org |