N. 141 - Settembre 2019
(CLXXII)
uno sguardo sul vicino oriente
l'impero
ottomano
Di
solimano
il
magnifico
di
Francesco
Biscardi
L’impero
ottomano,
insieme
con
la
Persia
safavide
e
l’India
Moghul,
era
uno
dei
più
importanti
complessi
statuali
musulmani
di
quel
periodo
storico
che
in
Occidente
siamo
soliti
chiamare
ancien
régime
(“antico
regime”),
espressione
coniata
dai
rivoluzionari
francesi,
poi
ripresa
e
codificata
nell’Ottocento.
Tuttavia,
quella
di
ancien
régime,
è
una
categoria
storiografica
riduttiva
sia
perché
abbraccia
un
lungo
periodo
storico,
assai
variegato
e
mutevole
al
suo
interno
(estremamente
diversa
era,
infatti,
l’Europa
del
primo
Cinquecento,
epoca
dei
conquistadores,
di
Carlo
V e
della
Riforma,
da
quella
del
Settecento,
secolo
dei
philosophes,
dell’assolutismo
illuminato
e
delle
rivoluzioni)
e
sia
perché
indica,
in
genere,
una
realtà
geograficamente
circoscritta,
limitata
all’Occidente,
da
cui
rimangono
escluse
l’Europa
orientale
e
l’Impero
ottomano,
che
aveva
propaggini
sul
suolo
europeo.
Protagonista
di
una
grande
espansione
fra
XV e
XVI
secolo,
il
dominio
ottomano,
che
raggiunse
il
suo
apogeo
sotto
il
regno
di
Solimano
il
Magnifico
(1520-1566),
si
estendeva
dal
Kurdistan
e
dal
Caucaso,
attraverso
la
Siria
e
l’Egitto,
lungo
tutta
l’Africa
mediterranea
sino
quasi
a
Gibilterra,
mentre,
verso
nord-est,
inglobava
tutta
l’attuale
Turchia,
Rodi
e la
penisola
balcanica
fino
a
parte
dell’Ungheria.
A
questi
territori
dobbiamo
aggiungere
alcuni
Stati
Vassalli:
il
Khanato
di
Crimea,
la
Transilvania,
la
Valacchia
e la
Moldavia
(odierna
Romania).
In
pratica
tutto
il
Mar
Nero
(nome
tradotto
dal
turco
Karadeniz,
lingua
dove
kara
ha
il
significato
sia
di
“nero”
che
di
“nord”)
e il
Mediterraneo
orientale
erano
“laghi”
turchi.
Un
impero,
dunque,
che
si
estendeva
fra
tre
continenti
(Europa,
Asia
e
Africa)
e
dal
mosaico
etnico
assai
variegato.
A
riguardo
è
giusto
fare
una
precisazione
su
un
uso
terminologico
improprio:
noi
siamo
soliti
utilizzare
i
termini
“turco”
e
“ottomano”
come
sinonimi,
ma i
turchi
erano
soltanto
il
primo
fra
i
tanti
popoli
del
regno.
Anzi
i
vertici
degli
eserciti
e
dell’amministrazione
centrale,
su
cui
poi
tornerò,
in
larghissima
parte
non
erano
turchi.
Sarebbe
preferibile
chiamarlo
sempre
“Impero
ottomano”
(da
Othman
o
Osman,
nome
del
suo
fondatore)
anziché
“Impero
turco”;
tuttavia,
in
Occidente,
l’utilizzo
sinonimico
dei
termini
“turco”
e
“ottomano”
è
ormai
così
diffuso
che
è
inutile
cercare
di
tenerli
disgiunti.
Un’altra
formula
assai
diffusa,
in
questo
caso
esente
da
rilievi,
è
quella
di
“Sublime
Porta”,
espressione
derivata
dal
famoso
portale
ubicato
a
Istanbul
nei
pressi
del
Palazzo
di
Tropkapi,
quartier
generale
del
Gran
visir,
e da
secoli
usata
per
indicare
metonimicamente
il
governo
del
sultano.
Fatto
questo
appunto
sociolinguistico,
veniamo
alla
struttura
amministrativa:
quello
ottomano
era
un
impero
sultaniale,
dove
il
sovrano,
il
Gran
signore
dei
Turchi,
come
era
spesso
conosciuto
il
sultano
in
Occidente,
governava
da
Istanbul
(la
“vecchia”
Bisanzio,
conquistata
nel
1453)
attraverso
il
Diwan,
o
Divano,
(dal
turco
dîvân-i
hűmâyun),
un
organo
esecutivo
composto
dai
ministri
del
sultano,
i
visir,
e
dal
Gran
visir,
che
si
riuniva
quattro
volte
alla
settimana.
Solimano,
come
del
resto
i
suoi
predecessori,
fu
molto
attento
al
governo
dello
Stato,
tanto
che
sotto
il
suo
regno
l’Impero
ottomano
raggiunse
l’apice
non
solo
del
suo
dominio
territoriale
ma
anche
culturale
e
amministrativo.
Questi
riformò
la
giustizia
e
l’amministrazione
pubblica,
ponendo
grande
attenzione
alla
formazione
meritocratica
dei
suoi
funzionari.
Introdusse
anche
un
sistema
di
tassazione
proporzionale,
basato
sulle
effettive
capacità
contributive
dei
sudditi,
censite
tramite
periodici
catasti.
Per
le
sue
riforme
Solimano
venne
soprannominato
“il
Legislatore”
(l’appellativo
“il
Magnifico”
è
propriamente
europeo).
Una
personalità,
quella
di
Solimano,
grande
ammiratrice
della
cultura,
dell’edilizia
e
delle
lettere:
sotto
il
suo
regno
Istanbul
si
dotò
di
moschee,
palazzi
ed
edifici
così
suntuosi
da
dovergli
riconoscere
il
merito
di
aver
contribuito
a
delineare
lo
skyline
di
una
città
che
oggi
attira
milioni
di
visitatori
l’anno
(simbolo
di
questa
stagione
artistico-architettonica
fu
Sinan,
uno
dei
più
grandi
architetti
islamici
di
sempre).
Quello
ottomano
era,
come
anticipato,
un
regno
multietnico
e
multireligioso,
dove
le
singole
minoranze
erano
organizzate
nei
millet:
comunità
all’interno
delle
quali
potevano
essere
mantenuti
usi
e
costumi
della
cultura
e
della
fede
di
provenienza,
previo
pagamento
di
imposte
ai
dominatori.
Un
impero
dove,
caso
eccezionale
nel
quadro
geopolitico
della
prima
età
moderna,
non
esisteva
nobiltà:
quella
turca
era
una
società
in
cui
chiunque,
senza
troppi
pregiudizi,
poteva
ascendere
ai
ranghi
più
alti
dell’esercito
e
della
pubblica
amministrazione,
in
base
al
proprio
talento
e
alle
proprie
capacità.
In
merito,
un
aspetto
molto
importante,
anche
se
spesso
sottovalutato,
del
mondo
mediterraneo
cinque-secentesco
riguarda
coloro
che
in
vita
sono
passati
da
una
religione
all’altra:
cristiani
ed
ebrei
che,
catturati
dai
guerrieri
e
dai
corsari
islamici,
abiuravano
la
propria
fede
in
favore
dell’islam,
come,
all’inverso,
musulmani
che,
fatti
prigionieri
dai
cristiani,
sceglievano
di
abbracciare
la
fede
in
Cristo.
Sono
tantissimi
i
casi
di
apostasie,
delazioni,
conversioni,
ecc.
con
una
grande
differenza
fra
i
due
universi,
islamico
e
cristiano:
non
succedeva
quasi
mai
che
un
turco
catturato
e
messo
in
catene,
una
volta
convertitosi
al
cristianesimo,
venisse
affrancato
e
lasciato
libero
di
integrarsi
in
società.
Nel
mondo
ottomano
questo
spesso
capitava:
i
cristiani
che
aderivano
al
Credo
islamico,
in
Occidente
definiti
“rinnegati”,
avevano
la
possibilità
di
intraprendere,
se
meritevoli,
varie
carriere.
Mi
spiego
meglio:
visto
che
le
la
maggior
parte
dei
prigionieri
provenivano
dalle
guerre
corsare,
i
rinnegati
erano
solitamente
marinai
e
soldati,
uomini
che,
per
capacità
tecniche
ed
esperienza,
erano
ben
accetti
fra
le
file
della
Sublime
Porta,
che
spesso
necessitava
di
specialisti
di
rilievo
(pensiamo,
ad
esempio,
ai
tecnici
che
servivano
per
costruire
imbarcazioni,
velieri,
cannoni
o
archibugi).
Non
a
caso,
la
maggior
parte
dei
comandanti
delle
galee
corsare
di
Algeri,
i
raìs,
in
origine
erano
dei
rinnegati
cristiani.
Se
questa
possibilità
di
carriera
consentita
ai
convertiti
è
già
di
per
sé
sorprendente,
soprattutto
se
paragonata
alla
classista
società
occidentale
di
ancien
régime,
ancora
più
sbalorditivo
è il
sistema
con
cui
venivano
reclutati
i
giannizzeri,
il
corpo
scelto
di
fanteria,
e
tutto
il
personale
dirigente
sino
al
Gran
visir.
Un
reclutamento
che
iniziava
con
una
“raccolta”,
in
turco
devşirme,
di
giovani
europei.
Tale
pratica
avveniva
ogni
tre
o
quattro
anni:
ufficiali
giannizzeri
si
recavano
nelle
zone
cristiane
dell’impero
e
sottraevano
alle
famiglie
i
ragazzi
ritenuti
più
meritevoli.
Questi
venivano
poi
condotti
nella
capitale
imperiale
per
essere
addestrati
e
indottrinati
per
anni
fino
a
divenire,
a
loro
volta,
giannizzeri.
Questo
“tributo
umano”
imposto
alle
famiglie
cristiane
sottomesse
era
sicuramente
una
cruda
e
riprovevole
prevaricazione
(a
me
personalmente
ricorda,
per
certi
versi,
l’agoghé,
il
percorso
educativo
dell’antica
Sparta),
ma
aveva
paradossalmente
un
risvolto
positivo
nel
futuro
dei
selezionati,
destinati
a
divenire,
almeno,
membri
dell’élite
militare,
finanche,
i
migliori
in
assoluto,
pascià,
visir
o
ammiragli.
Dal
quadro
sin
qui
delineato
potrebbe
apparire
una
società
più
tollerante
e
“moderna”
di
quella
occidentale.
Non
è
propriamente
così:
in
primis,
perché
siamo
in
presenza
di
un
regno
dove
il
sultano
reggeva
le
redini
del
potere
senza
alcun
contrappeso,
poi
perché,
sebbene
sia
vero
che
cristiani
ed
ebrei
potevano
aspirare
ad
ambite
carriere,
questi
non
erano
guardati,
dalla
popolazione
egemone,
con
minor
sospetto
di
quanto
non
lo
fossero
islamici
ed
ebrei
stessi
in
terra
cristiana:
visti
come
possibili
traditori,
erano
costretti
a
tributi
e,
in
svariate
mansioni,
a
compensi
inferiori
ai
turchi,
né
mancavano
violenze
e
vessazioni
nei
loro
confronti.
La
stessa
mobilità
sociale
consentita
dall’islam,
come
già
detto,
era
dettata
da
esigenze
socio-economiche
(arretratezza
tecnologica
e
mancanza
di
personale
qualificato)
e
non
da
ideali
di
fratellanza.
Le
particolari
caratteristiche
della
società
ottomana
dividevano
già
allora
la
Cristianità
fra
ammiratori
della
sua
meritocrazia
e
denigratori
che,
di
contro,
aborrivano
l’assenza
di
nobiltà
e di
privilegi
elitari.
Le
riflessioni
potevano
coinvolgere
i
più
disparati
aspetti
dell’universo
islamico.
Considerazione
interessante
è
quella
di
Guicciardini,
propenso
a
preferire
la
celerità
del
sistema
giudiziario
ottomano
(seppur
avvezzo
a
emettere
sentenze
“quasi
a
caso”),
alla
lungaggine
e
corruzione
di
quello
degli
Stati
italiani,
la
cui
lentezza
spesso
vanificava
i
vantaggi
economici
dell’ottenere
giustizia.
Così
annotò,
nel
CCIX
Ricordo:
“Non
credo
siano
manco
male
le
sentenze
de’
Turchi,
le
quali
si
spediscono
presto
e
quasi
a
caso
[…].
Se
noi
presuppogniamo
le
sentenze
de’
Turchi
darsi
al
buio,
ne
séguita
che
–
ragguagliato
– la
metà
ne
sia
giusta;
sanza
che,
non
forse
minore
parte
ne
sono
ingiuste
di
quelle
date
tra
noi,
o
per
la
ignoranza
o
per
la
malizia
de’
giudici”.
Abbiamo
poi
il
caso
di
ambasciatori
veneziani
che
esaltavano
le
possibilità
di
carriera
offerte
dalla
Sublime
Porta
o di
Machiavelli
che,
nell’Arte
della
guerra,
contrapponeva
alla
stratificazione
dei
poteri
del
re
di
Francia
il
potere
illimitato
del
sultano.
Anche
oggi
non
possiamo
che
trovare
sia
elementi
positivi
che
negativi
all’interno
della
compagine
ottomana.
Una
cosa
è
utile
ribadire:
a
lungo
andare
il
mondo
cristiano,
anch’esso
con
i
sui
pregi
e
difetti,
ha
dimostrato
di
essere
ben
più
permeabile
alle
innovazioni
rispetto
a
quello
turco
che,
al
contrario,
si è
rivelato
sempre
più
ostile
ai
mutamenti,
avviandosi,
soprattutto
negli
anni
successivi
alla
morte
di
Solimano,
verso
una
progressiva
stagnazione.
Riferimenti
bibliografici:
Staffa
G.,
Solimano,
in
I
grandi
imperatori,
Newton
Compton
editori,
Roma
2015,
pp.
702-736
Barbero
A.,
Solimano
il
Magnifico,
in
I
volti
del
potere,
Laterza,
Roma-Bari
2010,
pp.
95-116.
Barbero
A.,
Il
divano
di
Istanbul,
Sellerio
editore
Palermo,
2015.
Fiume
G.,
Schiavitù
mediterranee.
Corsari,
rinnegati
e
santi
di
età
moderna,
Bruno
Mondadori,
Milano
2009.