N. 59 - Novembre 2012
(XC)
Soggettivismo, soggettività, soggetto
L’uomo e la responsabilità
di Dalia Fortini
[Il
problema
che
si
può
sperimentare
nella
società
contemporanea
si
riassume
in
una
un’unica
comune
parola:
soggettivismo.
La
soggettività
più
sfrenata
ha
infatti
preso
il
suffisso
“ismo”
a
indicare
il
suo
movimento
verso
una
schiacciante
presa
di
posizione
verso
una
traccia
negativa.
Dal
soggettivismo
contemporaneo
nascono
poi
le
malattie
del
nostro
tempo:
opinionismo,
relativismo,
moralismo.
Non
si
parla
più
di
sane
opinioni
alla
luce
della
verità,
di
“opinioni
vere”
riguardo
uno
stato
di
cose
reale,
ma
di
un’opinione
solo
relativa
a un
soggetto,
che
qualora
il
sopraddetto
la
creda
fermamente
vera
allora
è
vera
–
non
importa
se
vede
gli
elefanti
rosa
volare
–. E
se
si
limitasse
al
singolo
la
società
non
avrebbe
problemi
in
quanto
sarebbe
un
mero
solipsismo
improbabile.
È
quando
la
maggior
parte
degli
individui
inizia
a
pensarla
allo
stesso
modo,
creando
persino
una
regola
linguistica,
che
si
pone
il
problema.
Intersoggettività
erronea
dettata
da
un
egoismo
di
fondo
che
diviene
comune,
andando
a
formare
poi
una
nuova
realtà
culturale
invincibilmente
erronea:
un
serio
problema
comunicativo
che
rischia
di
farci
chiudere
rispetto
alla
realtà
di
fatto
che
diviene
incomunicabile.
Che
la
cultura
ci
condizioni
è un
dato
di
fatto,
ed è
una
fortuna
che
sia
così,
in
quanto
non
siamo
soli
in
questo
mondo,
ma
che
questa
debba
determinarci
in
modo
assoluto,
e
anzi,
debba
essere
determinata
da
mezzi
mediatici
in
modo
spesso
ideologico
e
fuorviante
è da
valutare
se
sia
o
meno
giusto.
Chi
rifiuta
i
termini
giusto
o
sbagliato,
vero
e
falso,
per
abbarbicarsi
e
difendersi
da
un
moralismo
possibile
deve
innanzitutto
ricordare
che
esiste
una
sana
moralità,
senza
cui
il
soggetto
stesso
non
vivrebbe,
anche
detta
“legge
morale
naturale”.
Ma
in
questo
tempo
tutto
si
crea,
tutto
si
distrugge,
niente
si
trasforma:
vale
per
la
natura,
vale
per
l’essere
umano,
vale
per
qualsiasi
cosa
il
soggetto
si
trovi
ad
affrontare.
Come
si è
arrivati
a
questo
punto?
Per
poter
parlare
di
una
giusta
visione,
bisogna
avere
uno
sguardo
filosofico
sul
reale,
senza
andare
a
scomodare
credenze
o
ideologie
fuorvianti.
Si
propone
una
strada
semplice:
il
punto
di
partenza
sarà
il
pensiero
antico
e si
giungerà
a un
pensiero
che
si
potrà
definire
attuale.
Tornando
indietro
si
noterà
che
al
tempo
degli
antichi
romani,
poco
si
aveva
a
che
fare
col
soggetto
in
sé.
Prendiamo
ad
esempio
il
diritto
romano,
che
ci
verrà
in
aiuto
in
questo
breve
studio.
Cos’era
un
furtum
nell’antica
Roma?
Non
era
l’atto,
come
invece
penseremmo,
l’atto
imputabile
a
una
persona
in
quanto
ha
rubato.
Era
l’oggetto,
l’oggetto
tolto
che
doveva
essere
in
qualche
modo
restituito.
Potremmo
definire
quindi
la
società
antica
una
società
perlopiù
oggettiva.
Vediamo
gli
echi
di
questo
anche
in
Grecia,
ai
tempi
di
Aristotele.
Si
può
notare
che
Aristotele
conosce
il
diritto
oggettivo,
in
quanto
la
sua
concezione
di
giustizia
si
basa
su
un’uguaglianza
formale:
ossia
dare
al
merito,
non
importa
di
chi.
Si
tratta
di
distribuire
qualcosa
secondo
un
rapporto
di
proporzionalità.
Quando
quindi
nasce
una
concezione
soggettiva?
Col
Cristianesimo.
D’improvviso
si
scardina
il
passato
e si
viene
a
porre
l’attenzione
sul
soggetto.
È
infatti
il
soggetto
l’artefice
delle
azioni.
Le
azioni
non
valgono
più
prese
di
per
sé,
come
anche
gli
oggetti,
gli
animali,
valgono
in
rapporto
all’uomo,
perché
è
l’essere
umano
l’unico
essere
responsabile.
La
concezione
medievale
è
piuttosto
chiara:
la
morale
cristiana
vede
il
male
e il
bene
connessi
imprescindibilmente
all’uomo
in
rapporto
con
Dio.
E
così
l’uomo
diventa
un
valore
assoluto.
Andiamo
avanti,
a un
periodo
che
viene
chiamato
col
termine
modernità,
di
solito
fatta
partire
dalla
scoperta
dell’America
nel
1492.
Dal
1500
circa,
quindi,
un
nuovo
approccio
del
soggetto
verrà
attuato,
non
più
il
soggetto
morale
in
rapporto
a
Dio,
ma
il
soggetto
rispetto
alla
natura.
Cosa
viene
a
mancare
in
questo
caso,
o
cosa
ad
aggiungersi.
Non
è
certo
un
ritorno
agli
albori,
questo
è
bene
specificarlo,
perché
in
alcun
modo
si
parla
di
oggettività,
ma
di
legge
naturale
comunque
relativa
al
soggetto:
alla
razionalità
umana
che
legge
un
senso
nella
natura
–
Galileo
Galilei
direbbe
un
libro
matematico
da
leggere
–.
In
filosofia
grandi
nomi
fanno
cominciare
proprio
con
la
soggettività,
l’io,
la
formulazione
del
loro
sistema
filosofico
coerente.
Si
pensi
a
Cartesio,
padre
del
cosiddetto
Cogito.
Il
penso,
parte
appunto
dall’io,
che
è
sostrato
di
un’intera
filosofia
che
dilaga
durante
la
modernità.
Si
parla
di
razionalità,
si
parla
della
rinascita
della
ragione
umana
in
quanto
tale.
Durante
l’Illuminismo
poi
abbiamo
un
importante
cambiamento,
fondamentale.
Con
la
rivoluzione
francese
si
istaurano
i
primi
diritti
civili,
viene
redatto
un
codice
civile,
e
l’attenzione
è di
nuovo
posta
sul
soggetto
e
questa
volta
sulla
responsabilità
di
questo.
Sì,
perché
il
termine
responsabilità
come
sostantivo,
ha
la
sua
nascita
proprio
durante
il
1800.
Prima
si
utilizzava
solamente
come
aggettivo,
si
parlava
dunque
di
soggetto
responsabile,
mai
di
responsabilità.
Responsabilità
e
soggetto
iniziano
ad
andare
di
pari
passo
e a
prendere
il
significato
abituale
che
hanno
oggi:
obbligazione,
imputabilità.
Laddove
quindi
in
passato
si
era
messo
l’accento
sull’impegno,
la
fiducia,
l’illuminismo
mette
l’accento
sull’aspetto
negativo,
definiamolo
così,
della
responsabilità
umana.
La
soggettività
in
quanto
tale
quindi
non
era
possibile
se
non
le
si
concedeva
una
libertà
a
livello
civile
e
dunque
la
responsabilità
dei
propri
atti.
Veniamo
al
XIX
e XX
secolo.
Come
siamo
arrivati
a
questo
punto?
Il
pensiero
filosofico
ha
ritenuto
l’uomo
non
ascrivibile
a
una
natura
comune
e
universale,
ma
lo
ha
legato
alla
storicità
e
alla
cultura
dimenticandosi
di
un
sostrato
imprescindibile
–
questo
a
causa
di
accadimenti
storici:
colonialismo
e
guerre
mondiali
hanno
condizionato
l’umanità
–.
Considerato
l’essere
umano
come
libertà
più
assoluta
si è
tolto
dall’ottica
umana
il
senso
della
responsabilità
per
se
stessi,
per
gli
altri
e
per
la
società,
maturando
così
un’ingenuità
e
ignoranza
di
fondo.
Il
termine
responsabile
è
infatti
oggi
considerato
comunemente
desueto
e
addirittura
noioso
soprattutto
dalle
nuove
generazioni
che
inneggiano
al
termine
libertà
senza
comprenderlo
(come
il
termine
valore).
Il
fulcro
è
stato
propriamente
dare
all’uomo
la
possibilità
di
essere
quello
che
vuole
e di
creare
persino
valori
laddove
lo
ritenga
opportuno,
scadendo
in
un
immediato
materialismo
che
mette
l’uomo
alla
stregua
pressoché
di
una
cosa
relativa
al
tempo,
al
luogo
e
alle
sue
scelte
personali
–
come
se
la
verità
si
decidesse
sulla
base
dell’individualità
–.
L’essere
umano
non
ha
valore
e
dignità
assoluta
per
ciò
che
è
realmente,
dovremmo
partire
da
un
presupposto
naturale
comune
per
poter
dire
questo,
non
c’è
che
relativismo
definito
oggi
con
la
parola
“democrazia”
di
cui
si
abusa
fortemente
per
dire
tutto
e il
contrario
di
tutto.
In
un’ottica
di
libertà
e
basta
non
esistono
più
termini
come
giusto
e
sbagliato,
ma
nemmeno
di
democrazia:
si
dovrebbe
parlare
di
contrattualismo
e
opinionismo
più
o
meno
consapevoli.
Un
filone
di
filosofi
quale
Lévinas,
Buber,
Scheler,
Von
Hildebrand,
hanno
cercato
di
recuperare
valori
e
responsabilità
–
per
se
stesso
e
per
gli
altri
–;
hanno
portato
un’argomentazione
valida
sull’importanza
di
questi
due
“termini”
ormai
di
gran
lunga
sottovalutati
da
popoli
che
non
vogliono
sapere
altro
se
non
ciò
che
concerne
la
loro
personale
vita
dimentichi
di
“Dio”
(inteso
come
ricerca
della
verità
anche
solo
razionale)
e
basandosi
su
uno
scientismo
radicato
nemmeno
su
un
empirismo
di
fatto,
ma
su
teorie
manipolate
da
un’ideologia
dominante
che
vorrebbe
così
creare
ancor
più
un’idea
di
massa
da
far
filtrare
nella
nuova
cultura.
Si
sta
uccidendo
la
vera
intersoggettività
attraverso
mezzi
comunicativi
devianti,
che
non
rimandano
alla
verità
da
fatto,
ma a
una
semplice
opinione
comune
che
si
forma
attraverso
menti
ormai
non
più
atte
al
pensiero
consapevole,
ma
soltanto
formate
dal
senso
comune.
E il
futuro
dell’umanità?
Un’incognita
se
non
si
vuole
essere
pessimisti.