antica
OLIMPIA E GIOVANNI CRISOSTOMO
UN AMORE PLATONICO A BISANZIO
di Valerio Acri
Città dai molti nomi, splendente di
mosaici e di architetture maestose,
erede di Roma e Nuova Gerusalemme,
simbolo di un Impero che ha segnato
l’affermazione del Cristianesimo e ci ha
trasmesso un patrimonio culturale capace
di illuminare il mondo per oltre un
millennio, dalla tardo-antichità
all’uscita verso il Medioevo. Ecco cosa
è stata Bisanzio – l’odierna Istanbul –
ribattezzata nel 330 Costantinopoli, in
quanto nuova capitale voluta appunto
dall’imperatore Costantino.
Si trattò a tutti gli effetti di una
vera rifondazione per una città
dall’antico passato legato ai miti
dell’eroe eponimo Byzas e della moglie
Philadeia e, in seguito, alle
costruzioni romane degli imperatori
Settimio Severo e Caracalla.
Quando vi nacque Santa Olimpia, nel 381,
Costantinopoli aveva conosciuto una
notevole espansione, al punto di avere
diritto a un prefetto urbano, come Roma.
Dopo un’educazione improntata alle Sacre
Scritture, la giovane Olimpia andò in
sposa proprio al prefetto della città,
tale Nebridio, il quale però la lasciò
vedova morendo prematuramente. In quel
tempo l’imperatore era Teodosio il
Grande, che portò avanti un ulteriore
programma di estensione urbana della
città, facendole definitivamente
superare in grandezza e importanza le
altre sedi apostoliche come Alessandria
e Antiochia.
Dalla sua nuova cattedrale di Santa
Sofia (Hagia Sophia), l’imponente
costruzione voluta da Costantino e
completata dopo la sua morte nel 360,
ricca di marmi, pietre preziose, colonne
provenienti dalla Grecia e dall’Egitto e
splendidi mosaici, il vescovo Nettario
fu strenuo difensore di Olimpia
quand’ella, rifiutando un nuovo
matrimonio con il cugino di Teodosio, si
attirò le ire dell’imperatore che le
sequestrò ogni bene fino al compimento
dei trent’anni. La nobile vedova non si
perse d’animo e condusse onorevolmente
cinque anni di vita in ristrettezze fin
quando Teodosio, ammirato al punto di
pentirsi, le restituì ciò che le aveva
confiscato.
Olimpia utilizzò il denaro riacquisito
finanziando la costruzione di un ospizio
per l’accoglienza di forestieri di
passaggio e poveri viaggiatori,
guadagnandosi così la nomina a
diaconessa da parte di Nettario.
Quest’ultimo era stato eletto patriarca
nel 381, a margine del secondo Concilio
Ecumenico della storia, tenutosi proprio
a Costantinopoli, che ribadì la condanna
dell’arianesimo, già pronunciata a Nicea
nel Concilio del 325, smentendo che il
rapporto tra le tre Persone della
Trinità era tale per cui il Figlio non
aveva la stessa Divinità del Padre e “non
sarebbe esistito se Dio non ci avesse
voluto creare” (tesi sostenuta da
Ario).
Il Concilio di Costantinopoli del 381 fu
importante anche per altre due ragioni:
sancì di fatto la prevalenza d’onore
della città su tutte le sedi, elevando
così il rango del suo vescovo a un
importanza seconda solamente a quello di
Roma, e fu l’ultimo al quale prese parte
San Gregorio Nazianzeno, illustre
predecessore di Nettario. Cresciuto
teologicamente a fianco di San Basilio e
secondo molti coniatore del termine
“patriarca”, il Nazianzeno si ritirò
dopo aver denunciato le bramosie
vanagloriose che inquinavano i dibattiti
conciliari, come scrisse pochi anni più
tardi lo storico Evagrio Pontico, suo
discepolo, concludendo che la gente era
legata alla propria idea di Dio al punto
di preferire la morte piuttosto che
addivenire a un accordo.
In mezzo alle controversie circa la
natura umana e/o divina di Cristo che
imperversavano in quegli anni in tutto
l’Impero d’Oriente, l’opera caritatevole
di
Sant’Olimpia
brillò agli occhi di San Giovanni
Crisostomo,
in visita alla città nel
397, poco prima di essere nominato
patriarca come successore di Nettario.
La vedova aveva fatto costruire
all’interno del portico meridionale di
Hagia Sophia un monastero le cui
religiose appartenevano alle illustri
famiglie di Costantinopoli. Nacque così
una santa amicizia tra la pia matrona e
lo zelante patriarca, esaltato dal
riconoscere in lei il profilo di una
donna ricca e nobile che preferì
rinunziare ai vantaggi della sua
condizione sociale scegliendo l’ascesi
felice dell’essere a servizio degli
altri.
Il Crisostomo, esponente di spicco della
Patristica del secondo periodo, quella
impegnata nella formulazione di una
filosofia a partire dai princìpi del
Vangelo, aveva suo malgrado abbandonato
la natìa Antiochia per rispondere alla
chiamata dell’imperatore Arcadio che lo
aveva scelto alla guida del Patriarcato
di Costantinopoli. Diresse la Chiesa
affidatagli con forza e rigore,
predicando uno stile di vita improntato
all’austerità, secondo l’ideale
monastico portato avanti dal suo
contemporaneo San Basilio. A
quest’ultimo lo accomunò anche
un’erudizione frutto di un’ampia
apertura verso la cultura greca, un
atteggiamento tutt’altro che scontato in
un periodo nel quale la Chiesa e gli
imperatori erano impegnati
nell’avversare la circolazioni di testi
pagani. Di entrambi è conservata una
rappresentazione in mosaico nella
monumentale Hagia Sophia, maestosamente
ricostruita nel 532 da Giustiniano e poi
riconvertita in museo dopo essere stata
anche moschea in seguito alla
dominazione ottomana.
I fermenti politici della Costantinopoli
del IV secolo, le dispute teologiche che
infuriavano e, soprattutto, le
sciagurate connivenze tra il potere
imperiale e quello ecclesiastico lo
investirono però secondo dinamiche
simili a quelle che poco prima avevano
indotto all’abbandono il Nazianzeno. Un
gruppo di vescovi capeggiati da quello
di Alessandria, Teofilo, riuscirono a
deporlo illegalmente ed esiliarlo
determinando peraltro una frattura (un
anticipo del definitivo Scisma del 1054)
tra i patriarcati orientali e la Chiesa
di Roma rappresentata da Papa Innocenzo
solidale col Crisostomo. L’opera di
rinnovamento spirituale che aveva
portato avanti era mal digerita dalla
corte imperiale mentre incontrò il fiero
sostegno di Olimpia, pretestuosamente
accusata dell’incendio che intorno al
402 distrusse Santa Sofia nel mezzo dei
tumulti seguiti alla deposizione di
Giovanni.
Condotta in giudizio davanti al prefetto
Optato, la difesa di Olimpia fu la
fierezza dell’innocenza – “l’occupazione
della mia vita è la costruzione delle
chiese di Dio e non la loro distruzione”,
riporta un testo anonimo – e, su tutto,
una fedeltà encomiabile verso il
Crisostomo: la diaconessa avrebbe potuto
evitare l’esilio forzato se avesse
riconosciuto come nuovo vescovo Arsace
in luogo di Giovanni e invece le
ritorsioni contro i “giovanniti” la
colpirono anche quando si era ormai
ritirata a Cizico, l’odierna Erdek nella
regione turca di Marmara. Da lì venne
condotta a Nicomedia (oggi Izmit, nella
Turchia asiatica) dove morì conservando
fino all’ultimo un legame epistolare con
il vescovo al quale poco tempo dopo fu
imposto un nuovo trasferimento nei
pressi di Comana Pontica che gli risultò
fatale.
Nobilitati da un sentimento che la
sofferenza dell’esilio rese ancora più
solido, Olimpia e Giovanni inaugurarono
probabilmente quell’archetipo di amore
tra uomo e donna rivestito di Grazia e
illuminato da una spiritualità
altissima, mille anni prima di Chiara e
Francesco e del Dolce Stilnovo dantesco
che esalterà lo sguardo casto rivolto
alla creatura femminile in quanto
portatrice di Bellezza.
Animati dall’esigenza evangelica,
Olimpia e Giovanni hanno espresso
l’esserci l’una per l’altro nel
combattere insieme con coraggio la buona
battaglia compenetrandosi come esempi di
fede.
Riferimenti bibliografici:
C. Mango, La civiltà bizantina,
edizione italiana curata da Paolo
Cesaretti, Laterza, Bari 1991. |