contemporanea
SOCIALISMO O
LIBERALISMO?
OMBRE DEL MONDO POST-BIPOLARE
di Federico Fracassi
Mediamente la storiografia contemporanea
converge nell’attribuire la vittoria
della Guerra Fredda agli USA,
dichiarando sconfitta l’URSS e con essa
il comunismo o il cosiddetto
socialismo reale. Ma nonostante si
sia spesso parlato in ambienti americani
di “fine della storia”, ciò che
attendeva all’orizzonte, dietro le
macerie del Muro di Berlino, era un
mondo post bipolare ancora pieno di
incognite e disordini.
Se tuttavia ci si smarca da una visione
deterministica della storia come quella
proposta da filosofo tedesco Georg
Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) –
secondo cui lo Zeitgeist (spirito
del tempo, cultura che informa le arti e
la filosofia) si manifesterebbe in essa
addirittura in determinati personaggi
capaci di incarnarne pienamente le
caratteristiche – si nota che dal punto
di vista filosofico, dottrinale,
politologico e storico, quello del
rapporto tra socialismo e liberalismo è
un problema non solo inestinto, ma
rinato a nuova guisa.
Parlare di “idee che armano la mano
dell’uomo per darsi battaglia nel mondo
sensibile” può essere concesso in un
sistema filosofico, ma è una soluzione
limitante per lo storico, la cui chiave
di lettura degli eventi presuppone
un’importante differenza di metodo:
l’astensione per quanto possibile da
valutazioni troppo personali. In certa
misura, quest’ultima può risultare
un’impresa ancor più difficile.
È
emblematico quanto scrisse a riguardo lo
storico britannico Eric j. Hobsbawm
(1917-2012) nell’introduzione a Il
Secolo Breve 1914-1991: «il
mondo che è andato in frantumi alla fine
degli anni ’80 era il mondo formatosi a
seguito dell’impatto della rivoluzione
russa del 1917. Noi ne siamo stati tutti
segnati, ad esempio in quanto ci siamo
abituati a pensare alla moderna economia
industriale in termini di un’opposizione
binaria tra “socialismo” e “capitalismo”
come alternative mutuamente escludentesi
[…] Dovrebbe ora essere divenuto chiaro
che quello schema era arbitrario […] e
che lo si può comprendere solo entro un
particolare contesto storico. E tuttavia
[…] non è facile immaginare […] altri
criteri, […] da un lato gli USA, il
Giappone, la Svezia, il Brasile, la
Germania federale e la Corea del Sud e
dall’altro le economie stataliste e i
sistemi dell’area sovietica, […] nonché
i sistemi dell’Asia orientale e sud
orientale che, a quanto pare, non hanno
subito lo stesso crollo».
Da accostare all’efficace saggio
L’età delle ideologie del politologo
italiano Giovanni Orsina, il quale
introduce il concetto delle quattro
“famiglie ideologiche” tra cui quella
socialista e quella liberale, operando
importanti distinzioni che lasciano
ragionevolmente intuire
un’inconciliabilità (se non direttamente
un’inimicizia) tra di esse.
Le ragioni di questa inimicizia sono
molteplici e in divenire, ma il loro
fulcro risiede classicamente nelle due
rispettive antropologie, da cui
naturalmente derivano due diverse
concezioni della società, dell’economia,
della religione.
Fondamentalmente l’antropologia
socialista si basa su di una
considerazione dell’uomo come
originariamente legato alla dimensione
collettiva, la quale è prioritaria e
imprescindibile rispetto all’individuo.
I bisogni fondamentali sono uguali per
tutti ed è quindi opportuno che il
corpo sociale – in cui risiedono la
verità e il bene dell’uomo – operi di
concerto per soddisfarli, impegnandosi
positivamente a creare un ordinamento
giuridico che rimuova gli ostacoli al
raggiungimento dello scopo. A vario
titolo, i teorici del socialismo sono
sparsi nella storia e possono essere
individuati, tra i molti, nell’antico
Platone e nei moderni Jean Jacques
Rousseau e Thomas More, nonché Karl Marx,
tra i contemporanei.
L’antropologia liberale invece
conferisce maggiore importanza alla
dimensione individuale e alle libertà
del singolo. L’uomo è considerato
infinitamente perfettibile e ognuno ha
diritto a “cercare la propria verità”,
il che implica un forte relativismo
conoscitivo. Il filosofo inglese John
Locke (1632-1704) è considerato il padre
nobile del liberalismo, appartenente al
filone del giusnaturalismo e
autore del Saggio sull’Intelletto
Umano. Egli sosteneva che l’uomo
fosse “naturalmente ed originariamente
vocato all’interazione” e dunque che
l’ordinamento giuridico dovesse
limitarsi a consolidare e difendere
questo equilibrio positivo che esso
tende a creare – laddove gli venga
garantita la libertà individuale – in
un’ottica di generale uguaglianza e
fraternità. Un senso comune, questo,
manifestatosi in seno a diversi eventi
storici, ma facenti capo per lo più ai
princìpi della Rivoluzione Francese,
dunque alla perdita del primato politico
e filosofico da parte delle tradizioni
monarchiche europee.
Questi i lineamenti generali delle due
dottrine. Ma come a buon diritto il
regista David Ayer fa dire al
protagonista dello struggente film
Fury (2014), ambientato in Germania
verso la fine della Seconda Guerra
Mondiale: «le idee sono pacifiche, la
storia è violenta». Presumibilmente
ci sarà storia come conflitto ideale e
reale fintantoché esisterà l’uomo, ma
soprattutto non si debellano facilmente
le idee, tanto quanto non si debella la
tendenza dell’uomo a desiderare più
potere di quanto la sua sanità mentale
sia in grado di sostenere.
Perfino dopo la dissoluzione dell’URSS e
l’affermazione di quello che taluni
anelano a chiamare il “secolo
americano”, persistono opacità e
debolezze nelle liberaldemocrazie
occidentali, il così narrato “mondo
libero” o “liberal” è calcato da
personaggi fumosi, la disuguaglianza e
gli squilibri socio economici negli
stessi USA non accennano a diminuire. Lo
spettro dell’eccesso tecnologico e del
“Capitalismo della Sorveglianza” – a cui
la filosofa e sociologa statunitense
Shoshana Zuboff (Università di Harvard)
dedica l’omonimo saggio del 2020 – si
aggira malcelato su un mondo vessato da
un’emergenza sanitaria e da crisi
economiche controverse.
L’Europa ricomincia pallidamente a
essere percorsa da afflati statalisti e
neosocialisti in risposta a un malessere
spesso attribuito, tra le altre cose,
alla deregolamentazione del mercato e
alla globalizzazione finanziaria
transnazionale, con una conseguente
concentrazione della ricchezza e la
nascita di nuove “oligarchie” o
“potentati economici”: ad esempio i
colossi dell’e-commerce, fondi
speculativi plurimiliardari come
Blackrock inc. e società
d’investimenti come Vanguard Group.
Tanto gli Stati quanto le
organizzazioni sovranazionali vi sono
variamente soggetti, il che non può non
incidere sulle loro vite politiche e
autonomie istituzionali.
Già a partire dagli anni Sessanta, le
sinistre socialiste/comuniste
occidentali cominciarono a soffrire di
crisi di identità, il loro
allontanamento dalle origini popolari,
dalla coscienza di classe e dalla
relativa lotta le portò divise a un
goffo tentativo di sintesi con quello
che di lì a poco sarebbe stato definito
Neoliberalismo: una nuova mentalità
economica e culturale di matrice
probabilmente nordeuropea e
angloamericana con una precisa
razionalità, intimamente connessa
all’avanzata della globalizzazione.
Al fenomeno della globalizzazione poi, è
stata aggiunta più recentemente una
declinazione: globalismo. Il
termine si riferisce alla dimensione per
lo più sociale e culturale del
neoliberalismo, a cui dedicano una lunga
ed esaustiva trattazione il filosofo
Pierre Dardot e il sociologo Christian
Laval.
La vicenda del socialismo italiano poco
prima e poco dopo la caduta del muro di
Berlino si sviluppò proprio attorno a
questa crisi di identità. Nel saggio
Vogliamo Tutto, lo storico Angelo
Ventrone riporta la questione della
classe operaia: «Come si fa la
rivoluzione in una società a capitalismo
avanzato?».
A questa incertezza soggiaceva proprio
la nuova realtà schiusa dal boom
economico di cui fu protagonista la
FIAT, motivo di una migrazione economica
senza eguali, interna al territorio
italiano. Spostamenti di ingenti masse
dal sud verso la “proletarizzazione” nel
triangolo industriale della
Pianura Padana non riuscivano ad
alimentare le fila della rivoluzione (o
almeno di una rivoluzione di successo)
per via della compresenza di povertà,
diffuso analfabetismo e ricerca di una
condizione di vita migliore, la quale
però non era intesa come il
rovesciamento di un sistema economico
foriero di grossi squilibri, bensì come
la riuscita nell’appropriarsi di quei
beni e di quei servizi che il
liberalcapitalismo si vantava d’aver
offerto per la prima volta a un popolo
in difficoltà.
In questi ultimi anni, quanto si rivela
di più difficile è tentare previsioni.
Le domande che scaturiscono dalla
vicenda sanitaria e dal ruolo sempre
maggiore della digitalizzazione nella
storia contemporanea sono numerose.
Tuttavia, nonostante perfino il futuro
prossimo si faccia via via più
imperscrutabile, nel presente continuano
a ergersi modelli di un incubo passato
da cui è opportuno non prescindere mai. |