N. 114 - Giugno 2017
(CXLV)
IL
FENOMENO
“BLUE
WHALE”
adolescenti
e
social
di
Giovanna D'Arbitrio
Sotto
l’incalzare
delle
nuove
tecnologie
e dei
rapidi
cambiamenti
sociali,
a
quanto
pare
gli
adolescenti
tendono sempre
più
a
sostituire
affetti
familiari
e
amicizie
reali
con
i
contatti
virtuali
offerti
dai
social. Follie
digitali
e
giochi
estremi
sono
in
costante aumento,
come
purtroppo evidenziano
fenomeni
come
il
planking
(consistente
nel
distendersi
a
faccia
in
giù
nei
luoghi
più
disparati),
lo
slimming,
o
tamponing
(uso
di
tamponi
impregnati
di
alcol
per
accelerare
gli
effetti
etilici
sull'organismo),
il
balconing
(pratica
basata
sul saltare
da
un
balcone
a un altro
o
direttamente
in
una piscina)
e, in
un
terribile
“crescendo”,
l'inquietante
e
attualissimo
blue
whale
("balena
blu"),
ben
documentato
da
foto
e
filmati
puntualmente
diffusi
in
rete.
Il
primo
giornale
a
parlare
di
blue
whale
è
stato
il
quotidiano
russo
Novaya
Gazeta,
fondato
da
Anna
Politkovskaja,
che
ha
collegato
diversi
suicidi
di
ragazzi
istigati
a
togliersi
la
vita
tra
il
2015
e il
2016
a
seguito
della
partecipazione
a un
"gioco"
promosso
proprio
attraverso
sui
social.
Tale
fenomeno
è
stato
poi
trattato
da
molti
altri
giornali,
sia
in
Italia
sia
nel
resto
del
mondo,
pur
in
assenza
di
prove
inconfutabili
che
lo
colleghino
ai
suicidi.
Quel
che
si
sa è
che
si
tratta
di
un
gioco
che
prende
il
nome
dalla
drammatica
circostanza
che
vede le
balene
spiaggiarsi
e
morire,
apparentemente
senza
motivo,
e
che,
attraverso
una
serie
di "prove"
(da
filmare
e
condividere
online),
porterebbe
chi
vi
partecipa
a
togliersi
la
vita.
Nel
nostro
paese
solo
la
trasmissione
Le
Iene,
peraltro
criticata
e
giudicata
da
alcuni
detrattori
poco
attendibile
in
relazione
alle
testimonianze
fornite
sul
fenomeno,
ne
ha parlato
a
lungo
segnalando
almeno una
cinquantina
di
casi
sospetti
anche
nel
nostro
paese,
mostrando
tra
le
altre
cose un
video
in
cui
alcuni
giovani
si
lanciavano
da
palazzi
e
grattacieli.
A
quanto
pare,
a
dirigere
le
fasi
del
gioco
della
balena
blu
sarebbe un
“curatore”
che
"ingaggia"
– o
meglio
"adesca"
–
i
giovani
tramite
Facebook,
WhatsApp,
Facebook
e
su
vari
social
meno
noti.
Dopodiché,
minacciandoli
di
far
del
male
alle
loro
famiglie,
li
spinge
a
superare
prove
come
il
cutting
(tagli
sulle
braccia)
o
gesti
al
limite
come
camminare
sui
binari,
portandoli
poi
gradualmente
alla
"sfida
finale":
il
suicidio,
appunto.
Forse
i
motivi
che
spingono
tanti
adolescenti
al
tragico
gioco
si
possono
rintracciare
nelle
spudorate dichiarazioni
di
Phillip Budeikin,
giovane
russo
di
21
anni
incarcerato
con
l’accusa
aver
istigato
al
suicidio
alcuni fragili
ragazzi,
da
lui
definiti
“spazzatura
biologica”. Dopo
l’arresto,
in
un’intervista
il
cinico Budeikin ha
freddamente
rincarato
la
dose,
arrivando
ad affermare:
“Ho
fatto
morire
quegli
adolescenti,
ma
loro
erano
felici
di
farlo.
Per
la
prima
volta
avevo
dato
loro
tutto
quello
che
non
avevano
avuto
nelle
loro
vite:
calore,
comprensione,
importanza”.
Purtroppo
sotto
l’incalzare
di
consumismo
e
delle nuove
tecnologie,
la
ripetizione
meccanica
dei
fenomeni
spegne
fantasia
e
originalità,
trionfano
omologazione,
mentalità
nichilista
e,
soprattutto,
profonde
“crisi
d’identità”,
particolarmente
negli
adolescenti.
Tale
crisi
è
oggi
accentuata
dalla
confusione
tra
reale
e
virtuale
tipico
della
distratta società
occidentale.
Anche
in
questo
caso,
come
in
altre
occasioni
simile,
vengono
alla
mente
alcune
parole
del
saggio
I
ragazzi
dello
scantinato
scritto
da
Raymond
Jalbert
nel
1990
(e
riutilizzate
di
recente
da
Umberto
Galimberti
in
I
vizi
capitali
e i
nuovi
vizi):
“Giù
in
cantina
c’è
un
ragazzo
che
tenta
di
vivere
la
sua
vita
in
pace.
Ma
un
giorno
dovrà
unirsi
al
mondo
di
sopra
e
non
ce
la
farà
a
sopravvivere:
occhi
incollati
alla
TV,
orecchie
sigillate
dalle
cuffie,
lasciato
a se
stesso,
un
estraneo
in
casa
sua”.