smascherare l'anti-mitO
UNA NUOVA INTERPRETAZIONE DELLA VENEZIA AUSTRIACA
di Mauro Luciano Malo
Fino a qualche decennio fa quando si
parlava di Austria e Venezia, e
principalmente di Austria “a”
Venezia, si era spesso assai
influenzati nell’analisi generale
dagli studi del secolo passato
(l’Ottocento), orientati a
descrivere il periodo asburgico come
una “dominazione” sulla ex
Serenissima a tinte prevalentemente
negative.
Questa visione “distorta”, come
ricorda Paul Ginsborg, venne
costruita, non senza efficacia,
dalla storiografia risorgimentale,
volta a denigrare il nemico
tradizionale e a presentarlo sotto
la luce più sinistra. Gli stessi
attori del Risorgimento, accesi
rivali dell’Aquila bicipite, avevano
nelle loro successive descrizioni,
orientate a esaltare l’Unificazione
del Regno d’Italia, volutamente
“dimenticato” più aspetti.
L’acclamazione popolare di gran
parte del territorio veneto al
momento del mutamento di sudditanza
dal governo napoleonico a quello
austriaco, dopo il Congresso di
Vienna, era stata omessa a favore di
una costruzione di un modello di
subordinazione atto a rimarcare per
lo più la definitiva fine
dell’indipendenza della Repubblica
di San Marco e il mero passaggio da
una autorità negativa a un’altra non
certo migliore.
Quindi, quell’entusiasmo popolare
che aveva invece dipinto i nuovi
governanti non come conquistatori,
ma alla stregua di veri e propri
liberatori (i quali ponevano fine
alla presenza delle truppe francesi
nella città lagunare), aveva
faticato a trovare un posto nelle
pagine dei libri di storia. Gli
autori di quei volumi, infatti, non
ancora appagati dai numerosi
silenzi, tacquero anche su un
aspetto ulteriore: la considerazione
positiva che gran parte della
popolazione veneta aveva maturato
sul governo austriaco.
Un periodo quindi vissuto
generalmente come nient’affatto
opprimente, tanto da rendere gli
stessi cittadini veneti reticenti
all’annessione alla neocostituita
Italia vista come meno stabile e
tanto diversa al suo interno
soprattutto se posta in
contrapposizione a un Impero che,
seppur nella sua parabola
discendente, garantiva maggiori
margini di crescita e sicurezza.
Solo successivamente l’intero
operato austriaco in Veneto fu non
solo riesaminato ma ripresentato,
riproposto ai lettori, sotto
un’ottica più oggettiva, basata meno
sulle emozioni e su una costruzione
identitaria ma al contrario fondata
sulle fonti documentarie.
Innanzitutto si disinnescò il
termine “dominazione” e lo si
sostituì con “amministrazione”
eliminando quella sfumatura
oppressiva che il precedente
vocabolo aveva fin lì mantenuto per
il settantennio 1797-1866 (pur non
interamente austriaco).
Si pose poi l’attenzione
sull’effettiva presenza di autorità
austriache a Venezia che, alla luce
dei fatti, si rivelò assai «modesta
ed evanescente» al contrario di
quanto si era lungamente creduto.
Gli impiegati dell’apparato
esecutivo veneto furono in realtà
nella grande maggioranza italiani e
proprio per questo l’ampio margine
di libertà che Venezia aveva
mantenuto, anche sotto un governo
straniero, aveva favorito, negli
abitanti di metà ‘800, un
immaginario positivo. Ci si trovò
negli ultimi decenni del ‘900 di
fronte quindi a un bivio che
presentava da una parte una
rappresentazione, in parte falsata,
della realtà, costruita da una
storiografia “passionale”, e
dall’altra la riscoperta di “tracce
inedite” che facevano reinterpretare
necessariamente la storia di Venezia
e del Veneto, ponendola in netto
contrasto con quanto scritto e, per
anni, pensato.
Un’analisi di Maria Rosa Di Simone
sottolineò ulteriormente come il
ritorno degli austriaci nel 1814 fu
accolto da gran parte dei veneti con
un atteggiamento di favore e
sollievo, seppure fosse finito, con
il loro arrivo a Venezia, un potere,
quello francese, che fino a pochi
anni prima si era presentato come
Repubblica del Direttorio. Una
“repubblica” però seguita dal colpo
di stato napoleonico e
dall’istituzione dell’Impero.
Il nuovo imperatore di Francia (e di
mezza Europa) era tutt’altro che
orientato a concedere autonomie ai
territori sotto la sua corona, anzi
il controllo periferico delle aree
venne mantenuto saldamente. La città
lagunare e il suo entroterra
preferirono pertanto, giunta
l’occasione, entrare nell’orbita di
un diverso Impero con la speranza,
non completamente disattesa, di
riacquistare pace, ripresa
economica, conservazione dei vecchi
rapporti sociali e autonomia
amministrativa.
Atteggiamenti positivi, gioiosi,
vennero manifestati fin da subito
soprattutto perché con il passaggio
dal governo francese a quello
austriaco Venezia veniva eretta a
co-capitale (insieme a Milano) del
neocostituito Regno Lombardo-Veneto.
In questo modo, la città lagunare,
si affrancava dalla diretta e
sgradita subordinazione alla città
lombarda, quest’ultima designata
centro dei territori italiani
durante il precedente periodo
francese.
In aggiunta, ancora Di Simone,
evidenziò il risentimento della
popolazione veneta nei confronti dei
francesi che avevano lungamente
considerato l’ex territorio marciano
come «mezzo di scambio e di
arricchimento»; un «sentimento
filoasburgico alimentato [inoltre]
dal buon ricordo della prima
amministrazione austriaca». Si
comprende quindi come fosse
piuttosto il periodo francese quello
ad essere considerato dai
contemporanei un vero e proprio
“dominio”.
La liberazione dalle istituzioni
napoleoniche aveva anzi promosso una
delegazione di deputati veneti a
Vienna, giunti nella sede
dell’imperatore al fine di essere
uditi da Francesco I; l’oggetto
della missione fu proprio quello di
dichiarare la gratificazione del
popolo veneto nei confronti della
nuova amministrazione. Ma non finì
qui: come per le armate austriache
anche la legislazione asburgica,
civile e penale, estesa al nuovo
territorio fu accolta, se non con
aperto entusiasmo, almeno senza
grandi difficoltà dalle comunità
venete.
Esemplificativo dello spirito, delle
attese e delle speranze riposte sul
diritto austriaco fu per l’appunto
il titolo di un’opera del giurista
vicentino Giovanni Maria Negri che
nel 1815 pubblicava Dei difetti
del codice civile italico che porta
il titolo di codice Napoleone e dei
pregj del codice civile austriaco:
un’esaltazione dello jus
asburgico e un aperto attacco al
diritto napoleonico. Ma già prima
del Negri, Giuseppe Boerio nella sua
Pratica del processo criminale
«aveva illustrato in forma di
dialogo il codice penale austriaco
del 1803 valorizzandone i pregi».
L’entusiasmo dimostrato per la
legislazione asburgica non poteva
essere ricondotto solo
all’intenzione di compiacere i
dominatori del momento ma rifletteva
il sincero apprezzamento per un
sistema ritenuto più razionale e
moderno di quello vigente che, allo
stesso tempo, per molti aspetti
appariva non troppo distante dalle
antiche consuetudini locali. Sebbene
col passare degli anni si fossero
manifestati alcuni malcontenti e
proteste contro la legislazione
asburgica ritenuta eccessivamente
intricata, confusa e poco snella,
nel complesso il diritto austriaco
si radicò tanto profondamente nella
società veneta che si presentarono
forti resistenze ad abbandonare le
vecchie normative anche al momento
dell’annessione del Veneto al Regno
d’Italia nel 1866; i diritti erano
stati generalmente rispettati e
separarsi dai vecchi codici non fu
facile.
L’abilità delle maggiori autorità di
corte, in particolare il Cancelliere
Metternich, fu quella di estendere
attraverso un sistema di lievi e
progressive trasformazioni le
necessarie modifiche per la realtà
veneziana e il Veneto. In questo
modo la capitale della sezione
orientale del Regno Lombardo-Veneto
e il suo entroterra si modificarono
lentamente e parzialmente senza
provocare un aperto e diretto
malcontento indirizzato contro la
politica asburgica.
Un esempio di questi lievi mutamenti
può essere individuato nella lingua:
tolte le cariche al vertice del
sistema di governo Lombardo-Veneto
di lingua chiaramente tedesca, tutti
gli altri ambiti amministrativi,
giurisdizionali, e relativi
all’istruzione scolastica,
preservarono all’opposto la lingua
locale, l’italiano. Una peculiarità
che differenziava il piccolo
territorio veneziano –
congiuntamente a quello lombardo –
dal resto dell’Impero uniformemente
adattato all’uso della lingua
tedesca. La piccola regione quindi
non solo venne risparmiata da una
imposizione linguistica che
probabilmente si sarebbe rivelata
destabilizzante, ma fu anzi
sostenuta dalla corona imperiale al
mantenimento della propria identità
e delle proprie tradizioni (si pensi
al “sistema Metternich”).
Ulteriormente in lingua italiana, e
con impiego di giudici locali, si
svolsero i tanto temuti processi
penali, ancor più terrorizzanti per
la loro natura inquisitoria (segreti
e senza la presenza di avvocati
difensori) che si pensava avrebbe
leso i diritti dell’imputato.
Condanne a morte, carcere duro e
giustizia inflessibile al contrario
delle credenze furono applicati in
rare occasioni, ma alimentarono
numerose leggende basate su
fucilazioni, tribunali militari e
ordini draconiani del
Feldmaresciallo Radetzky.
Certo, è innegabile che anche questi
aspetti furono presenti, ma assai
più circoscritti nella ferocia, nel
tempo e nello spazio di quanto si
potesse pensare; furono invece
abilmente eretti, col tempo, a
manifesto di una falsa oppressione e
di un falso rigore asburgico in
territorio italiano.
Al contrario la realtà era ben
fotografata dalle descrizioni del
magistrato Antonio Salvotti che
riteneva il sistema della giustizia
asburgica sostanzialmente inadeguato
e blando e volto tutt’al più a
lasciare gran parte dei delinquenti
locali impuniti. Infatti,
contrariamente a quanto si sarebbe
potuto pensare, i temuti processi
penali presentavano indiscutibili
regole di garanzia volte a evitare
abusi di potere o errori di giudizio
da parte della magistratura; il
sistema di prove legali negative,
allora in uso, non faceva che
imbrigliare il libero convincimento
del giudice, costituendo un sistema
assai favorevole alle assoluzioni e
all’opposto complicato ai fini di
una condanna.
In conclusione il governo asburgico
in Veneto appariva quindi come
tendenzialmente più orientato a
lasciare autonomie che non a imporre
regole, ordinamenti, costrizioni
rigide, quasi in una sorta di ideale
linea di continuità con la
precedente politica della
Serenissima nei confronti dei suoi
vecchi domini di terraferma. D’altra
parte è innegabile che alcuni
aspetti impositivi e sgraditi alla
popolazione della ex Repubblica
marciana furono presenti anche
durante il periodo asburgico, ma ciò
che si vuole qui sottolineare è
quanto l’interesse degli studiosi
venne posto quasi esclusivamente,
dopo l’Unificazione, su tematiche
che esaltavano il Regno d’Italia e
presentavano sotto la luce più
oscura l’Impero d’Austria.
Non a caso lo stesso Marco Meriggi
sosteneva negli anni ’80 del
Novecento, in una breve nota di uno
dei suoi saggi pionieri sul
Lombardo-Veneto, che gli storici
interessati allo stesso piccolo
Regno italiano avevano fino agli
anni ’60 volto la propria attenzione
a ricerche e documentazione
attinenti al Risorgimento. Appare
evidente quindi che il filone scelto
rimarcava la volontà di mettere in
rilievo il punto di rottura, di
scontro, con gli austriaci e di
celebrare la coesione della
popolazione italiana determinata a
“cacciare l’invasore” dalle proprie
terre per porre fine a una
insopportabile oppressione. Per di
più, sottolineava ancora Meriggi,
tutti gli episodi studiati erano, in
questo modo, «suscettibili di essere
inseriti, anello dopo anello, in una
catena di “prodromi”, di momenti
preparativi a quello che veniva
considerato l’esito “naturale”, il
destino obbligato della storia delle
province italiane dell’Impero
asburgico: l’unificazione
nazionale».
La nascita di una narrazione
storiografica alternativa sullo
stesso “territorio veneziano” (nel
senso più ampio) ha posto in
evidenza alcune nuove realtà, in
precedenza lasciate sullo sfondo o
persino dimenticate, confutandone
delle altre; il venir meno
dell’appassionato interesse per
l’esaltazione dell’Unificazione e
del Risorgimento sostituito da una
nuova letteratura più imparziale ha
fatto emergere, a mio avviso, una
sorta di “nuova” storia della
Venezia asburgica, liberata dalle
precedenti letture
“anti-mitiche”.
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